Fluum
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Anteprima del libro
Fluum - Giulia Birocci
Indice
Prologo
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
Capitolo undicesimo
Capitolo dodicesimo
Capitolo tredicesimo
Capitolo quattordicesimo
Capitolo quindicesimo
Capitolo sedicesimo
Capitolo diciassettesimo
Capitolo diciottesimo
Capitolo diciannovesimo
Capitolo ventesimo
Capitolo ventunesimo
Capitolo ventiduesimo
Capitolo ventitreesimo
Ringraziamenti
Giulia Birocci
Fluum
Copyright © 2018 by Birocci Giulia
All Rights reserved
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Impaginazione testo
Fox Creation Graphic
Copertina progetto grafico a cura di
Studio Kafka
Alla mia famiglia
La mente è tutto.
Ciò che tu pensi, tu diventi.
Buddha
Prologo
L’inizio
01 settembre 2051
Le prime luci dell’alba avevano bagnato di rosa e turchese le case, le strade, gli alberi. Un lento risveglio dal grigiore delle ombre. Anche il silenzio veniva rotto dai rumori del giorno che stava per nascere. Ma il sole non sapeva che le tenebre sarebbero tornate prepotenti a oscurare il suo cielo. Arrivarono all’improvviso e senza pietà nel giorno del massacro, quello in cui tutto cambiò.
L’omertà della notte del primo settembre diede l’inconsapevole permesso ai carnefici alieni di mimetizzarsi con il buio e, quando i primi raggi del mattino iniziarono a splendere, le tenebre presero le forme di navi nel cielo: nere, massicce e incombenti, sospese nell’aria galleggiavano sopra ogni città. Putride come la decomposizione che solo la morte può portare, si incastrarono in un puzzle perfetto e oscuro coprendo ogni porzione di firmamento.
Nell’istante in cui anche il più pallido spiraglio di luce fu offuscato, un suono grave, un bram simile a un accordo di ottoni, rimbombò nell’aria bloccando nella morsa della paura ogni forma di vita al di sotto delle navi. Quando poi il ruggito alieno cessò, l’alone dorato delle bocche infernali iniziò ad aprirsi e il fuoco delle loro armi inghiottì ogni cosa. Le fiamme scesero bollenti e devastanti inondando le strade e investendo interi palazzi, le urla di disperazione si amalgamarono al terrore e ai pianti delle persone che come anime perdute si riversavano fuori dagli edifici. Il caos permeava l’aria acida: l’odore pungente e soffocante del fumo si mischiò con quello acre del sangue e in pochi minuti si propagò ovunque.
Fu dalla nebbia polverosa che uscirono affilati tentacoli metallici che si conficcarono possenti nel terreno, facendo vibrare il suolo e il cuore di chi stava cercando di sopravvivere al massacro. Lentamente i tentacoli si illuminarono di una fluorescenza ultraterrena e a poco a poco si spaccarono in due parti, plasmando un tunnel tra ambo i lati. Una porta. Ebbe così inizio l’invasione e, senza che nessuno potesse fermarli, i Colonizzatori fecero il loro terrificante ingresso. Marciarono compatti, come una nube tossica: i loro corpi, slanciati e imponenti, erano protetti da corazze nere, lucide, che come una seconda pelle aderivano alle fasce muscolari e li ricoprivano dalla testa ai piedi. Sembravano degli umani senza volto. Ombre nere pronte a portare a termine il compito per cui erano venute: sterminare ogni forma di vita. E così fecero, non mostrando clemenza per nessuno. Bambini, donne, anziani. Chiunque ostacolasse l’avanzata della flotta veniva barbaramente assassinato dalle loro mani deformi. Rivoli di sangue e resti di cadaveri riempivano ogni angolo di strada. Mentre il fuoco ardeva, ogni speranza veniva spenta.
L’Ade durò 240 ore.
I Colonizzatori rimasero sulla Terra per dieci giorni. La notte del decimo giorno le bocche di fuoco si spensero e le ombre nere si ritirarono in una lenta camminata. La cupola tetra che oscurava il cielo si spezzò, lasciando intravedere la luce delle stelle che distanti potevano solo assistere al male che infettava il pianeta. Ma non fu una rinuncia: il secondo atto dell’invasione era appena iniziato. I tunnel dalla luce ultraterrena si ripopolarono e, prima che i tentacoli si staccassero dal terreno, uno spietato esercito di androidi si sostituì alle ombre. Sarebbero rimasti a combattere e a reprimere le ribellioni di chi ancora riusciva a respirare. A loro venne assegnato il compito di preparare il mondo in attesa del ritorno delle ombre. E fu così che ore, giorni e anni bui si susseguirono all’infernale mattanza. I governi caddero come castelli di carte e gli Stati divennero presto polvere, perché in fondo nessuno era pronto a una tale atroce crudeltà. L’Europa, l’Asia e l’America cedettero indebolite all’anarchia, mentre l’Africa e l’Oceania marcirono nel caos, data l’assenza di forze politiche adeguate ad affrontare la gravosa situazione. Solo soffocando i conflitti interni che da secoli martoriavano i diversi Stati si raggiunse un accordo per un obiettivo superiore: la sopravvivenza della specie umana. Venne così istituita un’unica forza di resistenza: UA5C l’Esercito Unito dei Cinque Continenti. Grazie al suo intervento e al sacrificio di innumerevoli soldati, si riuscì a tamponare l’avanzata degli invasori. Feroci e sanguinose battaglie combattute tra gli sconfinati cieli e i profondi mari, tra le fredde terre e i caldi deserti delinearono i termini e le condizioni di ciò che sarebbe diventata la vita sulla Terra.
Pochi riuscirono a non morire. Ma quelle sparute anime ebbero la forza di congiungersi in territori che presero il nome di vecchie città perdute: realtà autosufficienti, arrangiate sui terreni che rimanevano ancora fertili e costruite popolando le strutture ancora agibili. In quei villaggi, giorno dopo giorno, i superstiti resistevano protetti da perimetri di onde sonore invalicabili agli androidi. Dopo anni di carestie e di duri assestamenti, la gestione delle città perdute era passata in mano alle forze militari dell’UA5C, da cui arrivavano serrati ordini e direttive. Ogni vita, ogni cuore che aveva ancora il privilegio di battere doveva sottostare ai comandamenti dell’esercito. Solo così quelle coraggiose anime potevano sopravvivere, anche quando un giorno le ombre nere sarebbero tornate.
Capitolo primo
Ora mi vedi
20 aprile 2089, ore 7.30
Il suono pungente della sveglia mi destò dal mondo dei sogni. L’aria nella stanza era mite, piacevole, segno dell’arrivo del periodo dell’anno che più preferivo. Adoravo rimanere fra le coperte, girarmi su un fianco verso la finestra e restare ferma, incantata dalla danza delle piccole sfere di polvere che leggiadre indugiavano sospese nell’aria in mezzo ai raggi di luce. Avrei voluto trattenermi lì per ore, ma anche quel giorno mi attendeva la solita noiosa routine. Così mi alzai e spostai la tenda di cotone color avorio per dare un’occhiata fuori. Di fronte alla mia stanza era cresciuto rigoglioso un massiccio pioppo che in quella stagione riempiva l’aria di soffici batuffoli bianchi, tanto odiati da mia madre. Ogni volta che usciva di casa non mancava di starnutire e lamentarsi.
Era curioso notare come i piccoli arbusti fossero nati nei luoghi più impensati. L’erba verde aveva ormai ricoperto come un tappeto cangiante quelle che un tempo erano le strade di asfalto della vecchia città perduta di Charlotte; i palazzi fulcro della grande finanza insieme ai luccicanti negozi, ora, si riducevano solo a triste cemento che faceva da contorno alla vegetazione. Il villaggio, che era stato costruito su ciò che rimaneva del passato capoluogo della Contea di Mecklenburg, era uno dei più popolati dello Stato, e contava quasi un migliaio di abitanti. Con il tempo le nascite erano incredibilmente cresciute, insieme alle speranze dei residenti. Erano stati allestiti i più svariati servizi e, con mia immensa gioia, nell’ultimo anno era stata ricavata una rudimentale sala cinematografica da un piccolo anfiteatro. Una sera a settimana proiettavano ogni genere di pellicola, quelle romantiche rimanevano le mie predilette.
Le onde sonore che delimitavano la vecchia città perduta percorrevano un perimetro lungo venti chilometri e comprendevano più di dieci chilometri quadrati di terreno. Il primo comandamento dell’esercito recitava il severo divieto di valicare quelle onde di protezione. Una volta fuori, nessuno avrebbe garantito una copertura e chiunque sarebbe andato incontro a una morte certa. Ma ogni volta che camminando mi avvicinavo al confine, dove grossi pilastri proiettavano verso il cielo vibrazioni longitudinali impercettibili all’orecchio umano e letali per gli androidi, mi chiedevo cosa ci fosse là fuori. Io, dopotutto, non avevo conosciuto la Terra prima dei Colonizzatori, potevo solo attenermi ai ricordi dei sopravvissuti, immaginarla sfogliando una vecchia rivista di National Geographic risalente agli anni prima dell’invasione o guardare, incantata, un film del celebre Federico Fellini. Il progresso culturale e tecnologico si era fermato all’anno 2051 e noi sopravvissuti facevamo tesoro di tutto ciò che si era riuscito a preservare dal fuoco e dalla guerra. Non sapevo neanche quale fosse il volto degli invasori, la loro forma o da dove venissero. Eppure loro continuavano a sorvegliarci, assicurandosi di mantenere il controllo. Su ogni città perduta, esiziale come un cancro, galleggiava sospesa nell’aria una nave del cielo.
Ore 7.40. La voce di mia madre mi distolse dal groviglio di pensieri.
Mi guardai allo specchio. Con un tocco veloce sistemai l’amuleto di pietra rossa che gelosamente portavo al collo. Una sottoveste di lino bianco mi fasciava il generoso seno per poi continuare più morbida fin sopra il ginocchio. Mi accarezzai il volto con la mano. Non mi consideravo una brutta ragazza, un tipo magari. Il viso ovale, le labbra rosee a cuore, gli occhi grandi color miele e i capelli biondo cenere lisci e lunghi fino a metà della schiena non mi facevano passare inosservata. L’altezza, invece, non era certo una mia virtù, ma non mi lamentavo.
Ero nata in un piccolo villaggio nelle vicinanze della vecchia città perduta di Charlotte. Il casolare dismesso dove ero cresciuta era isolato dal resto del mondo da ettari di terreno arido. Io e la mia famiglia non avevamo rapporti con altre persone e spesso vivevamo di stenti, finché, quando compii vent’anni, l’esercito offrì a mio padre Enzo la possibilità di lavorare presso l’ospedale di Charlotte permettendogli di mettere a frutto i duri studi che aveva portato a termine con grossi sacrifici. Ricordo ancora la felicità negli occhi di mia madre Rose quando arrivammo in quella che poi sarebbe diventata la nostra nuova casa. Una vecchia palazzina diroccata ma con tutto il necessario per godersi la quotidianità: una piccola e graziosa cucina, una spaziosa sala da pranzo con al centro un importante camino e grandi camere da letto. Per noi era un sogno che si realizzava. Ma, in un paese così grande e a contatto con così tante persone, non fu facile mantenere il segreto che nascondevo.
Erano passati tre anni dal nostro arrivo. E ogni giorno i miei genitori faticosamente mi nascondevano dagli Scopritori. Mi proteggevano da quando, ancora bambina, avevo dimostrato una sorprendente capacità nell’utilizzo della mente. All’inizio era solo un’intelligenza fuori dal comune, ma poi, con il passare del tempo, tutto era diventato più complicato. Non la controllavo. Ogni forte emozione poteva scatenare un disastro. Cadevano oggetti, esplodevano vetri o, peggio ancora, i libri prendevano fuoco. Era il mio incubo, la mia prigione, soprattutto da quando ci eravamo trasferiti. L’unica cosa che potevo fare era cercare di mantenere una vita tranquilla, senza emozioni e stimoli esterni. Così, apatica, ogni mattina mi alzavo, facevo colazione, mi vestivo e andavo a lavorare presso la mensa cittadina. Percorrevo sempre le stesse strade, contavo 954 passi dalla porta di casa all’entrata della mensa dove quotidianamente preparavo i pasti ai residenti del villaggio, nonostante pensassi di essere una pessima cuoca. Non parlavo mai con nessuno che potesse generare in me emozioni più forti di un sorriso e la sera non uscivo, non mi era concesso. Nessuno doveva sapere e nessuno aveva mai sospettato. O almeno era quello che credevo.
Mi sistemai i capelli con una forcina dietro all’orecchio. Presi l’asciugamano che la sera prima avevo preparato e appoggiato sulla sedia, davanti alla toeletta di legno color crema, e mi preparai per un rigenerante bagno caldo. Chiusi la porta della camera e iniziai a scendere le scale, quando all’improvviso sentii la voce di due estranei provenire dal salotto. Stavano parlando con mia madre.
«Rose, riconosciamo il suo impegno e rispettiamo l’aiuto che offre con il suo lavoro, ma vorremmo parlare con Anna» disse una voce maschile, ferma.
Quella richiesta mi sorprese: volevano me.
«Anna non è in casa, ora. Deve essere uscita per andare in mensa» percepivo la tensione nel suo tono. Mi chiesi perché stesse mentendo e chi fossero quelle persone.
«Spero, Rose, che lei sia a conoscenza della pena inflitta ai disertori. Non le conviene mentire» intervenne una voce femminile, tagliente e acuta.
Mi si gelò il sangue. Come osavano parlare in quel modo? Un insidioso sospetto crebbe nella mia mente: erano forse Scopritori?
Cercai di tornare in stanza per uscire furtiva dalla finestra. Mi girai e iniziai a muovermi adagio, senza fare rumore. Uno scalino alla volta. Stritolavo il corrimano, mentre il cuore mi pulsava in gola. Ero quasi arrivata, quando un listone dell’usurato pavimento di legno, scricchiolò. Fu in quell’istante che compresi di non poter fuggire.
«Chi c’è di sopra?», chiese alterata la donna.
«Nessuno! Abbiamo un gatto e…» mia madre provò a giustificarsi, ma quando mi vide entrare in sala i suoi occhi si spalancarono e mi guardò come se l’avessi appena tradita. Non potevo più nascondermi. Dopo una vita passata nell’ombra qualcosa dentro di me, un coraggio inaspettato che non credevo di possedere, mi stava donando la forza di stare in piedi in quella stanza, con lo sguardo fisso e il fiato pesante al cospetto di chi era venuto a cercarmi.
Restavano immobili davanti a me, i due Scopritori. Mi davano le spalle. Lui era alto, forse arrivava al metro e novanta, fisico atletico; lei invece era tarchiata e bassa. Dall’espressione sgomenta di mia madre capirono di avermi trovata. Si voltarono e lo vidi. Il ragazzo, con i capelli corvini pettinati all’indietro e una leggera abbronzatura, era di una bellezza imbarazzante. Il viso era perfetto, il naso sottile, la bocca carnosa e gli occhi di un intenso color nocciola. Per un attimo s’intrecciarono con i miei e una scossa mi attraversò il corpo. Non fui capace di reggere quello sguardo, così spostai l’attenzione sulla donna. Anche lei in divisa militare verde, i lineamenti spigolosi rendevano il suo volto poco femminile. L’incarnato pallido, gli occhi di un verde glaciale e i capelli tagliati a spazzola, di pochi centimetri. Tutto l’aspetto era reso ancora più austero dalla sua espressione ostile.
Lui continuava a guadarmi e fu il primo a parlare.
«Buongiorno, Anna. Sono il sergente Dixon, Lucas Dixon» la sua voce era calda, decisa. «Sono qui insieme alla tenente Stanlei - che mi fece un cenno con il capo, senza mai perdere quel ghigno malefico - perché vorremmo sottoporti ad alcuni test…» Non mi lasciò il tempo di rispondere e proseguì: «Niente di doloroso, non preoccuparti, ma ci serviranno per capire».
Per capire cosa? L’unica certezza era che nell’esercito non insegnavano a interagire con l’interlocutore in modo convincente. Se cercavano una cavia da laboratorio potevano recarsi altrove. Mia madre scoppiò in una risata nervosa e chiassosa.
«Ma non scherziamo, è una semplice