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Il segreto di Imhotep
Il segreto di Imhotep
Il segreto di Imhotep
E-book563 pagine8 ore

Il segreto di Imhotep

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Info su questo ebook

Un eroe nato dalle ceneri della battaglia un mistero emerso dalle nebbie del passato una nuova speranza per i due regni dal maestro dell’avventura, il terzo, imperdibile romanzo della nuova serie ambientata nell’antico Egitto.

Con Wilbur Smith l’azione non è mai lontana: per trovarla basta girare pagina.The Independent

Wilbur Smith è un autore di culto, uno di quei punti di riferimento assoluti a cui tutti gli altri scrittori vengono continuamente paragonati.The Times

Dopo anni passati sotto il giogo degli Hyksos, quello che un tempo era il potentissimo Egitto è ora in rovina. La popolazione è sofferente, e anche se il faraone ha riconquistato il trono che gli spettava di diritto il suo potere si è indebolito a dismisura. Tanto che c’è chi trama nell’ombra per approfittare del caos in cui è precipitato il paese dopo la vittoria contro l’oppressore. Deciso a riunire i due regni sotto la guida del faraone, il grande mago Taita affida al suo pupillo Piay una nuova, pericolosissima missione che ha l’obiettivo di risolvere un enigma vecchio di secoli, un enigma che risale ai tempi del Faraone Imhotep e la cui soluzione garantirebbe all’Egitto prosperità e sicurezza per sempre.

Ma durante la guerra un potere malvagio ha attecchito ed è cresciuto. I seguaci di Seth, dio del caos, sono decisi a reclamare per sé il potere del segreto di Imhotep, e questo trascinerebbe l’Egitto lungo una strada oscura.

Piay sa bene che il destino dei due regni è nelle sue mani, e con assoluta determinazione dà la caccia agli indizi che gli permetteranno di risolvere il mistero. Riuscirà a impedire che la sua amata terra cada nelle mani di chi vuole mandarla in rovina?

Tradimenti e segreti, gesta eroiche e battaglie sanguinose si intrecciano in un romanzo dal respiro epico, che segue Piay e i suoi immancabili compagni d’avventura, Myssa e Hannu, in una disperata corsa attraverso il deserto per risolvere un enigma antichissimo.

LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2023
ISBN9788830593091
Il segreto di Imhotep
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il segreto di Imhotep - Wilbur Smith

    Sotto lo sguardo gelido delle stelle sfavillanti, nel tremolante bagliore della fattoria in fiamme, Akkan l’Uccisore di Bambini ritrasse la spada di bronzo dalla lama ricurva, tendendo al massimo il braccio destro. Non badò quasi al rischio di esporre il petto alla corta lancia brandita dal soldato egizio fermo di fronte a lui. Non aveva motivo di preoccuparsi: gli occhi dell’avversario racchiudevano solo terrore, senza nessuna traccia di collerica baldanza o freddo calcolo.

    La paura dell’Egizio era più che giustificata: Akkan aveva un torace così possente e spalle talmente larghe e muscolose che si batteva con la forza di un bufalo, più che di un uomo. Quando portò il braccio sinistro dietro la schiena e ruotò le spalle, sferrando con il destro un fendente nel quale incanalò tutte le sue energie, la lama tranciò il collo dell’Egizio come la falce di un contadino taglia una fascina di grano.

    Akkan guardò la testa volare via. Il sangue zampillò dal collo mozzato e il corpo cadde a terra, accanto agli altri tre Egizi già assassinati dall’Uccisore di Bambini.

    In un’altra occasione avrebbe potuto ordinare a uno dei suoi uomini di tagliare la mano destra di ciascun avversario eliminato, così da portarle nella reggia della città di Avaris, dove un guerriero poteva aspettarsi una ricompensa in oro per ogni nemico ucciso in battaglia. Ma non ce n’era il tempo, inoltre lui stava inseguendo qualcosa di ben più prezioso.

    Un mese prima Akkan era stato convocato nel palazzo di Khamudi, re degli Hyksos, ad Avaris, la capitale sulla riva del Nilo non lontana dalle acque del Grande Verde. Mercanti, viaggiatori e uomini in cerca di fortuna vi giungevano da ogni angolo del mondo. Era opinione comune che, quanto a dimensioni e imponenza, la città non avesse rivali.

    La reggia era stata costruita sopra un alto e possente basamento di pietra, come per dimostrare agli Egizi, di cui ora gli Hyksos occupavano le terre, che anche altri uomini potevano eguagliare le piramidi di cui andavano tanto fieri. I saloni, le stanze, le gallerie e i porticati dove il re e i suoi visir gestivano l’amministrazione dei loro domini si trovavano al primo piano, insieme alle camere private del sovrano, della famiglia reale e delle concubine di sua maestà.

    La sala del trono, dove il re teneva le udienze, appariva sontuosa e imponente come il resto dell’edificio. Il soffitto era più alto, le colonne che lo reggevano più massicce e le decorazioni dorate più abbaglianti rispetto a qualsiasi tempio egizio. Era una stanza adeguata a un sovrano proclamato Signore della Forza, per grazia del supremo dio Re.

    Eppure, quando Khamudi convocò Akkan quell’ampia sala in grado di ospitare varie centinaia di persone sembrava praticamente deserta. Con il sovrano c’erano solo una dozzina delle guardie di palazzo, il suo cancelliere e due dei sacerdoti più illustri e sapienti di quelle terre.

    Akkan capì subito che uno dei due sacerdoti arrivava dal tempio di Re, lo dimostravano la sua tunica e i suoi ornamenti. L’altro, in maniera altrettanto evidente, proveniva invece dal tempio di Seth, Signore della Terra Rossa e dio delle tempeste, del caos e della violenza. Seth era una divinità egizia, proprio come Re era soltanto un altro modo di chiamare il dio del sole egizio Ra. Gli Hyksos, consapevoli che la terra dei faraoni era anche quella degli dei che la proteggevano, non volendo suscitare l’ira divina, avevano adottato come proprie entrambe le divinità.

    Guardando Khamudi, Akkan notò gli spasmi sul suo viso e il continuo dimenarsi del suo corpo sul trono dorato. Si accorse anche dell’urgenza con cui i due sacerdoti confabulavano e della repentinità con cui si zittirono nel sentirlo avvicinarsi. Erano a disagio, ma in fondo lui sapeva per esperienza che quasi tutti si innervosivano al suo cospetto.

    Non era quello il caso, tuttavia. Akkan era sicuro che gli astanti fossero in preda all’apprensione già da prima che la massiccia porta a doppio battente venisse aperta per consentirgli di entrare; e ora aveva il sospetto che volessero rifilare a lui qualsiasi problema li angustiasse, affinché se ne preoccupasse al posto loro.

    Raggiunta la pedana del trono, si inginocchiò e si prostrò davanti al re, rialzandosi solo quando glielo ordinò il sovrano.

    «Nobile cancelliere» disse Khamudi, rivolgendo al funzionario un lieve gesto della mano per ordinargli di procedere.

    Il cancelliere era paffuto, viziato come un gatto del tempio e, immaginò Akkan, altrettanto incline a fuggire al primo accenno di battaglia. Quando parlò, la sua voce chioccia e affettata rivelò l’accento e l’intonazione tipici degli Egizi di alto lignaggio che, per quanto conquistati, si tenevano saldamente aggrappati ad affettazione e garbo, facendo pesare la propria raffinatezza agli umili e rozzi Hyksos come Akkan.

    «Ti diamo il benvenuto, Akkan figlio di Abisha di Uru-Salim, nella nostra madrepatria di Canaan» cominciò a dire. «Ormai da molti anni dominiamo le terre del Basso Egitto. Il delta del fiume fa parte del nostro regno, come anche le terre costiere. Menfi, antica capitale dei faraoni, è ormai nostra, al pari delle piramidi che si levano non lontano dalle sue mura. Eppure il Faraone Tamose, quell’impostore, si tiene ben stretto l’Alto Egitto e solleva il suo vessillo sopra le mura della città di Tebe.

    «Ma ora siamo pronti a completare la conquista avviata dai nostri antenati. Tutte le terre dell’Egitto sono alla nostra portata. Il numero di soldati negli eserciti del falso faraone diminuisce di giorno in giorno, come un deposito da cui venga costantemente sottratto del grano senza mai reintegrarlo. Le nostre forze armate diventano sempre più potenti.

    «Presto sua maestà il re – possa Re guidarlo sempre e rafforzarne il braccio – ordinerà al nostro esercito di marciare su Tebe. Cacceremo dalla città il falso faraone e i suoi seguaci, spingendoli verso sud fino al regno di Kush affinché implorino di nuovo asilo in quelle lande selvagge. La nostra vittoria è inevitabile, questo è fuor di dubbio. Tebe tornerà in mano nostra, proprio come quando i nostri antenati sono entrati per la prima volta in questi territori e hanno costretto i dominatori dell’Egitto a fuggire su lungo il Nilo, fino alle più remote cateratte. Le nostre armate sono forti, i nostri soldati audaci, i nostri generali estremamente abili e il nostro grande re saggio. Soprattutto, il nostro nobile dio Re ci protegge…»

    Ma…, pensò Akkan, resistendo a fatica alla tentazione di pronunciare la parola ad alta voce.

    «Ma…» proseguì il cancelliere, «c’è un nuovo elemento in grado di garantire che la nostra vittoria sia ancor più completa e il nostro dominio tanto assoluto quanto eterno su tutte le terre degli Egizi. Un elemento che ci consentirebbe di entrare in comunione con gli dei di questa terra, di imbrigliarne i poteri divini a nostro vantaggio.»

    Akkan, diffidente per natura, dubitava di qualsiasi affermazione altrui, ma le parole dell’uomo avevano suscitato il suo interesse.

    «Visto che si tratta di una questione religiosa, lascerò ai sacerdoti il compito di spiegarla in modo più esauriente» annunciò il cancelliere. «Credo che il venerabile Mut-Bisir, alto sacerdote del tempio di Seth, parlerà a nome di entrambi i nostri ospiti, dato che sei tu stesso un uomo di Seth, vero?»

    Mut-Bisir annuì. «Esatto.»

    Il religioso dai capelli argentei si fece avanti. Akkan notò che stringeva uno uas, il lungo scettro con una testa stilizzata di animale a un’estremità e una forcella all’altra, solitamente raffigurato solo tra le mani di dei e faraoni. Evidentemente Avaris era ormai una città così potente che i suoi sacerdoti erano diventati essi stessi delle divinità.

    «Saluti a te, Akkan» disse Mut-Bisir. «La tua devozione a Seth è stata dimostrata al di là di ogni possibile dubbio…»

    «Mi chiamano l’Uccisore di Bambini» sottolineò Akkan, brusco, godendosi il disagio suscitato dalle sue parole nelle illustri figure che aveva di fronte. Un uomo disposto a fare ciò che aveva fatto lui per soddisfare i propri desideri era capace di tutto. Un uomo del genere era estremamente pericoloso ma, per lo stesso motivo, poteva rivelarsi molto utile.

    «Giusto, giusto» commentò Mut-Bisir. «E presumo che tu sia stato iniziato ai riti del loto blu, che sia uno di coloro che il fiore conduce al cospetto di Seth, il sempre misericordioso.»

    Akkan si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere. Seth era misericordioso come un morso di vipera. Ma in fondo il sacerdote lo sapeva fin troppo bene, altrimenti perché mentire per ingraziarsi il dio?

    «Sì, lo sono» confermò Akkan, serissimo, non sentendo alcun bisogno di rivelare che l’efferatezza del sacrificio compiuto gli aveva permesso di arrivare a Seth senza dover bere le pozioni ottenute facendo sobbollire le foglie e i semi del loto.

    «Benissimo, allora» ribatté Mut-Bisir. «Lascia che ti spieghi perché ti abbiamo convocato ad Avaris. Tre mesi fa un uomo, ancora incrostato di fango dopo il viaggio, si è presentato qui nella reggia, affermando di avere informazioni molto importanti per il regno. Ha detto che riguardavano sia l’umanità sia gli dei.»

    «Il deserto è pieno di uomini come lui, che sostengono di essere dei profeti» disse Akkan.

    «Verissimo» concordò Mut-Bisir. «Ma costui era un Hyksos, piuttosto facoltoso e, ehm… noto ai consiglieri di sua maestà. Noi tre abbiamo spezzato il pane in sua compagnia e ci ha raccontato di come lui e i suoi si fossero imbattuti in un viaggiatore, un messaggero, come si è poi scoperto, che era scivolato mentre scendeva il ripido fianco di una collina, ferendosi alla gamba, e non era in grado di camminare. Lo sconosciuto era interamente coperto di tatuaggi, con una miriade di strani simboli su braccia, gambe e petto, e spessi cerchi di inchiostro nero intorno a naso e occhi che gli rendevano il viso simile a un teschio.»

    Akkan ne rimase affascinato. «Per quale motivo lo si è considerato un messaggero?»

    «Aveva con sé un piccolo tubo di bronzo contenente un papiro arrotolato.»

    «E cosa c’era sul papiro?»

    «Altri simboli. Nessuno è riuscito a decifrarli e il viaggiatore ferito ha rifiutato di proferire parola.»

    «Costringetelo a parlare.»

    «Il nostro informatore aveva già tentato di farlo, ma l’uomo è morto a causa delle ferite e, forse, dei mezzi usati per convincerlo a rispondere alle domande. Si è rifiutato di divulgare qualsivoglia informazione, persino di parlare… con una sola eccezione. Alla fine, con il poco fiato rimastogli, ha pronunciato un’unica frase: Non sarai tu a risolvere l’Enigma delle Stelle

    «Di quale enigma parlava?»

    «Non sappiamo nemmeno questo, ma durante gli ultimi tre cicli della luna sacerdoti di entrambi i nostri templi» disse Mut-Bisir, indicando con un cenno del capo il compagno, «hanno svolto ricerche in tutti gli archivi e le biblioteche sparsi nei nostri territori conquistati. Abbiamo trovato vaghi accenni a questo enigma e scoperto che è vecchio di secoli. Sembra che chiunque riuscirà a risolverlo verrà ricompensato con ricchezze e potere inauditi. Crediamo sia collegato agli dei, tuttavia…»

    Mut-Bisir fece una pausa per sottolineare l’importanza di quanto stava per dire.

    «Il potere dell’enigma sarà sicuramente concesso all’uomo saggio che riuscirà a decifrarlo. Di conseguenza, se gli Egizi scoprissero che esiste e giungessero alla soluzione prima di noi, diventerebbero onnipotenti e ci renderebbero schiavi. Il futuro del nostro popolo è in pericolo. O riusciamo a risolvere il rompicapo o verremo annientati, non ci sono vie di mezzo.»

    «Lo abbiamo detto anche all’uomo che è venuto da noi con il suo racconto e ci ha riferito il misterioso messaggio» aggiunse il cancelliere, inserendosi nella conversazione. «Gli abbiamo spiegato che se fosse stato in grado di trovare il modo di risolvere l’enigma sarebbe stato ricompensato con tesori e proprietà che tutti gli avrebbero invidiato, ma non è riuscito nell’intento. Quindi ora facciamo la stessa proposta a te. Recati a Menfi a consultare gli scribi e gli eruditi. Scopri tutto il possibile sull’Enigma delle Stelle, poi va’ a Tebe, dove risiederà Re Khamudi una volta che quanto rimane dell’esercito del falso faraone sarà stato spazzato via. Là potrai rivelargli in quale modo gli uomini saranno in grado di condividere il potere degli dei.»

    La voce del cancelliere assunse un tono incoraggiante, persino suadente. «Il compito dovrebbe rivelarsi più che adatto a te, Akkan, visto che parli già con gli dei.»

    «Ci sono occasioni in cui sento la voce di Seth» replicò Akkan, «ma sono il suo servo, non il suo padrone. Nella sua sconfinata saggezza lui potrebbe scegliere o meno di aiutarmi, qualora in tal modo potessi essere utile al suo più vasto scopo, ma non obbedirà certo ai miei ordini, per quanto io possa implorarlo. Così, con il massimo rispetto verso sua maestà e voi grandi uomini, vorrei sottolineare che questa sembra una caccia destinata a non raggiungere mai la preda. Perché dovrei sprecare il mio tempo con essa?»

    Il cancelliere sorrise e Akkan si rese conto di essere finito in una trappola allestita con cura.

    «Perché l’uomo che è venuto da noi era tuo fratello, Khin. Il fratello minore che tanto disprezzi. Quindi sei davvero disposto a correre un seppur minimo rischio che diventi lui l’uomo più ricco dell’intero Egitto solo perché ha accettato una sfida che tu, invece, hai rifiutato?»

    L’uomo seduto da solo in un angolo della taverna aveva ormai dimenticato il proprio nome, che gli era svanito dalla mente. Il tempo – e ne era passato così tanto – gli aveva sottratto parecchie cose, ma gli aveva anche insegnato molto.

    Capiva che gli altri uomini avevano una percezione limitata del mondo circostante. Sapevano solo ciò che apprendevano grazie ai propri sensi ed erano dunque sordi ai suoni inudibili, e ciechi a ciò che non si vede. E quando, senza sapere bene come, intuivano che l’esistenza era ben più complessa di quanto sembrasse, si raccontavano storie inventate per spiegare l’inspiegabile.

    Così, per esempio, Akkan, figlio di Abisha e fratello di Khin, sarebbe entrato nella città di Menfi per poi percorrere una determinata strada sapendo che quella non era una sua idea. Inoltre, essendo l’uomo che era e date le convinzioni che nutriva, si sarebbe sicuramente detto che era Seth a guidarlo. Eppure non era affatto così. Akkan era soltanto una pedina su una scacchiera e, come lui, molti altri lo erano stati nel corso degli anni che si perdevano nel lontano passato simili a un fiume che scorre fino a scomparire nella foschia mattutina.

    Un giorno, una delle pedine sarebbe sopravvissuta fino al termine della partita e sarebbe diventata il giocatore. Forse si sarebbe trattato di Akkan o forse di uno di coloro che, magari senza saperlo ancora, si stavano imbarcando come lui nella secolare ricerca. Soltanto il suo vecchio amico, il tempo, avrebbe potuto dirlo.

    Entrando nella taverna, l’uomo aveva offerto all’oste un vasetto d’argilla pieno di sale in cambio di una coppa di birra e una pagnottella. Era un’offerta fin troppo generosa, visto che il taverniere si sarebbe accontentato di un paio di pesci o di qualche perlina brillante da regalare alla moglie, ma non aveva alcuna voglia di mercanteggiare.

    Non provava alcun interesse per cibo o bevande, tuttavia erano il prezzo da pagare per la sedia e il tavolo.

    Era alto, portava una tunica nera con il cappuccio alzato, come il membro di una tribù del deserto, e una sciarpa dello stesso colore che gli celava la sezione inferiore del viso. Mentre posava il sale sul bancone, aveva stabilito un brevissimo contatto visivo con l’oste e messo in mostra la mano. In seguito l’oste avrebbe ricordato che la pelle intorno agli occhi dell’avventore era nera, benché quella della mano e del polso apparisse stranamente chiara. Ma a quel punto l’uomo se n’era già andato senza alcuna intenzione di tornare.

    Una schiava gli portò ciò che aveva ordinato. Visto che era solo una bambina sui nove-dieci anni, pur essendo in piedi guardò comunque dal basso il cliente seduto, mentre posava sul tavolo la coppa di birra e la pagnotta. La sciarpa scivolò giù dal viso dell’uomo e lei sgranò gli occhi per lo stupore e la paura ed emise un lieve uggiolio, grazie al cielo troppo fioco perché qualcun altro potesse sentirlo.

    Lui la guardò dritta negli occhi. «Ssshhhh…» disse molto sommessamente, accostando un dito bianchissimo alle labbra tatuate.

    La giovane schiava non aveva motivo di temerlo. Certo, lui era in grado di uccidere senza rimorso, ma solo quando era strettamente necessario. Non desiderava affatto fare del male a una bambina innocente.

    La piccola intuì di essere al sicuro e gli rivolse un accenno di sorriso, prima di voltarsi per tornare in fretta verso il bancone.

    L’uomo risistemò la sciarpa, interrogandosi sul significato di quel suo breve scivolamento, e poi sorridendo tra sé e sé nel rendersi conto di non essere migliore di Akkan, solo l’ennesimo mortale che tentava di conoscere l’inconoscibile.

    Nel momento esatto in cui il nome di Akkan gli si affacciò alla mente, l’Uccisore di Bambini entrò nella taverna. La piccola schiava lo vide e si nascose dietro il bancone. L’oste gli chiese cosa desiderava, ma non ebbe risposta. Poi l’Hyksos vide l’uomo e fece un gran sorriso.

    Si sta congratulando con se stesso, capì l’altro. Ha deciso che a portarlo qui non è stato il suo dio ma la sua astuzia. Be’… si sbaglia.

    Mentre Akkan attraversava la stanza, la sua forza bruta e l’intenso scintillio rapace nei suoi occhi risultarono evidenti. L’uomo pensò che quella fosse una pedina molto potente, che avrebbe potuto arrivare in fondo alla ricerca. Ma forse quella stessa forza, e il fatto che lui la desse per scontata come il potere del suo dio, si sarebbe dimostrata il suo principale punto debole.

    La paura poteva impedire a un uomo di correre rischi inutili, così come la consapevolezza della propria vulnerabilità poteva spingerlo a chiedere aiuto. Akkan non aveva mai paura e considerava gli altri semplici strumenti da usare e poi gettare via, ma era comunque l’essere umano più potente che lui avesse mai visto. Meglio non sottovalutarlo.

    Akkan raggiunse il tavolo e stavolta l’uomo fece scivolare giù la sciarpa di proposito.

    Per un attimo persino il potente Uccisore di Bambini trasalì e serrò la mano destra sull’elsa della spada. Stava per impartire un ordine, accompagnato da una minaccia, ma l’altro non vedeva motivo di impegnarsi in quella sciarada; avrebbe attirato troppo l’attenzione su di loro. Si limitò a risistemare la fascia di tessuto, poi si alzò e si avviò con la massima calma verso la porta, oltrepassando Akkan. E sotto il lino che gli copriva la bocca c’era un vaghissimo accenno di sorriso.

    Akkan si guardò intorno nell’aia e notò la disperazione con cui si stavano battendo i suoi uomini. Ma a che pro? Gli era stato venduto il sogno di una vittoria gloriosa e adesso vedeva solo una battaglia di scarso rilievo che seguiva un immane disastro. Com’era potuto succedere, in nome di tutti gli dei?

    L’avanzata degli Hyksos su Tebe era andata secondo i piani e alla vigilia della vittoria finale era giunta una splendida notizia: il Faraone Tamose, uscito dalla propria tenda per ispezionare le truppe, si era avvicinato troppo alle linee nemiche e una delle numerose frecce scoccate dagli Hyksos lo aveva colpito. Qualcuno sosteneva addirittura che fosse morto. Ma che il sovrano fosse rimasto ferito oppure ucciso, apparentemente la sua perdita aveva rappresentato il colpo definitivo alle speranze degli Egizi: il trionfo degli Hyksos sembrava ormai scontato.

    Poi era accaduto l’impensabile. Le possenti forze degli Hyksos si erano scontrate con i laceri resti dell’esercito egizio e la battaglia era andata esattamente come Re Khamudi aveva programmato. La vittoria era parsa a portata di mano, ma poi, all’ultimissimo momento, i maledetti Egizi avevano trovato degli alleati: un intero esercito di Spartani dal mantello scarlatto e una mostruosa truppa di enormi bestioni grigi dalle spaventose zanne ricurve si erano lanciati contro i ranghi degli Hyksos, riducendone i carri da guerra, un tempo invincibili, a legna per i fuochi da campo egizi.

    Akkan e i suoi non avevano preso parte allo scontro, per loro era più importante tenere il prigioniero in vita e nelle proprie mani. Non avevano potuto fare altro che rimanere a guardare mentre il trionfo si trasformava in disfatta e, con Tebe ancora saldamente in mano nemica, Akkan era stato costretto a chiudere gli occhi e a cercare la guida del suo padrone. Attraverso la sua provvidenza divina erano stati condotti fino a quella fattoria, ben lontana dalla linea principale della ritirata degli Hyksos e dell’avanzata degli Egizi.

    Il contadino, la sua famiglia e i suoi schiavi non avevano opposto alcuna resistenza. Akkan aveva ordinato di appiccare il fuoco alla fattoria in modo che, nell’improbabile eventualità che i soldati di uno qualsiasi dei due schieramenti passassero di lì, la credessero già saccheggiata e non si fermassero quindi a depredarla.

    Portato a termine il compito, aveva condotto i propri uomini, i carri, i cavalli e il prigioniero in un boschetto di palme che non risultava visibile dalla pista che costeggiava la fattoria. Avrebbero passato la notte lì e all’alba Akkan avrebbe elaborato un nuovo piano d’azione.

    Un’intera compagnia di Egizi era spuntata di colpo dalle tenebre, puntando direttamente verso il boschetto.

    Ci hanno trovato con la stessa facilità con cui io ho individuato l’uomo tatuato, aveva pensato Akkan.

    Ma dopo un attimo era già troppo impegnato a combattere per riflettere su quella consapevolezza e le relative implicazioni. Adesso, nonostante tutti gli Egizi che aveva ucciso e nonostante l’abilità e l’audacia dei suoi uomini, capì che quello scontro senza importanza sarebbe sfociato in una sconfitta, al pari della grande battaglia.

    Chiuse gli occhi e invocò Seth. Sapeva di non correre rischi nell’abbassare la guardia perché, per quanto a lungo potesse rimanere con il dio, sulla terra degli uomini il tempo non passava.

    Chiunque fosse in grado di osservare gli dei lo faceva a modo suo. Ogni volta che Akkan lo guardava, Seth gli si presentava con il corpo, la voce e il linguaggio di un uomo ma la testa di uno sciacallo. In quell’occasione gli parlò con una voce così profonda e potente da fargli vibrare le ossa, dandogli istruzioni su cosa sarebbe successo e su cosa andava fatto, sia nell’immediato sia nei giorni a venire.

    Akkan lo ringraziò, lo lodò e gli giurò eterna obbedienza, poi aprì gli occhi. Come previsto, era trascorso solo un istante. Si allontanò dal combattimento e tornò in fretta dal prigioniero, steso a terra, con polsi e caviglie legati e la testa coperta da un cappuccio in pelle. Non aveva voluto mostrare il suo viso fin troppo memorabile a degli sconosciuti e Akkan sapeva che anche i suoi uomini preferivano che rimanesse nascosto: credevano che lo sconosciuto tatuato fosse un demone con sembianze umane.

    Ma Akkan conosceva la differenza tra un demone e un uomo, e si sentiva corroborato e rassicurato da tutto ciò che Seth gli aveva appena detto. Era tranquillo quando si accovacciò di fianco alla figura incappucciata.

    «Ho preso una decisione» annunciò, estraendo un coltello. Lo accostò alla gola del prigioniero, premendo finché una gocciolina di sangue non comparve sulla punta della lama. «È ora che io scompaia, ma non andrò lontano. Ovunque tu vada, ti terrò d’occhio e alla fine scoprirò il segreto che nascondi.»

    Si immobilizzò per un attimo, poi con un movimento fulmineo tagliò il legaccio che assicurava il cappuccio al collo del prigioniero, che se lo sfilò dal cranio rasato e guardò Akkan con occhi capaci di vedere ogni cosa e colmi di sicurezza. In mezzo al caos che lo circondava sembrava perfettamente tranquillo.

    L’Uccisore di Bambini si alzò e rivolse al boschetto un’ultima occhiata. Gli Egizi stavano per sgominare i suoi uomini, un paio dei quali gettarono a terra la spada e implorarono pietà.

    Akkan si assicurò che nessuno lo stesse guardando, poi scomparve dalla scena come se non fosse mai esistito.

    All’esterno delle gigantesche mura di Tebe, nell’angolo più lontano e silenzioso dell’accampamento dell’esercito vittorioso, nei pressi delle rive del Nilo, donatore di vita, una snella gatta grigia con freddi occhi verdi camminava con placida sicurezza tra gli elefanti chiusi per la notte in un recinto di legno costruito in gran fretta. Gli enormi animali erano stremati dopo la battaglia, il chiasso assordante, i movimenti frenetici e il tanfo di sudore e sangue tipico della guerra.

    Pestavano i piedi a terra, sventolavano le orecchie e scuotevano la testa, spostando da una parte all’altra le zanne il cui avorio color crema era ancora macchiato dal sangue degli Hyksos.

    Ma la gatta, del tutto indifferente al rischio che il suo corpo sottile e sinuoso venisse schiacciato dai giganteschi pachidermi, camminava a testa alta e con la coda fieramente eretta. E quando passò tra di loro, gli elefanti parvero tranquillizzati dalla sua presenza e, uno dopo l’altro, chinarono il capo.

    Osservava l’incedere del felino una donna alta e aggraziata con la pelle nera come la notte, il cui corpo flessuoso era fasciato e messo in risalto da un abito azzurro fissato alla spalla da un fermaglio in bronzo. A un certo punto batté le mani, tutta contenta.

    «Come puoi vedere, mio caro» disse, con gli occhi che brillavano, girandosi verso il giovane Egizio fermo al suo fianco, «avevo ragione, Bast è stata benedetta dalla dea. Persino gli elefanti si inchinano al suo cospetto.»

    Piay, la spia e avventuriero che amava Myssa di Kush con tutto il suo cuore da guerriero, scoppiò a ridere.

    «Quegli animali sono stremati» ribatté. «Mi stupisce che non si inginocchino nel vederla passare!»

    Myssa gli diede uno schiaffetto scherzoso sul petto e lui reagì cingendola con le braccia e attirandola a sé, per poi abbassare il viso verso quello di lei con l’intenzione di baciarla sulle morbide labbra carnose.

    «Ho passato l’intera giornata e gran parte della sera a rischiare la pelle» disse, «prima in battaglia e poi salvandoti dalle grinfie di quel malvagio bastardo di Sakir. Adesso voglio un pasto sostanzioso, un fiume di birra bella forte e… soprattutto, mia amata, mia dea, voglio te.»

    «No» replicò lei, posandogli la punta delle dita sulla bocca per bloccarne l’avanzata. «Prima abbiamo una seria questione teologica da dirimere. E poi forse, e dico forse, otterrai tutto ciò che desideri.»

    «D’accordo, allora, parla.»

    «Primo, quella gatta porta il nome della dea-leonessa, Bastet.»

    «Solo perché gliel’hai dato tu.»

    «L’ho chiamata così perché riuscivo a percepirne il potere. Inoltre sa fare miracoli. Non puoi negarlo, l’hai visto con i tuoi stessi occhi. Scompare in un determinato posto e, dopo che noi ci spostiamo in un luogo lontano, salta fuori e ci raggiunge come se fosse sempre rimasta con noi. Come ci riesce? Avanti, rispondimi.»

    Piay si strinse nelle spalle. «Lo ammetto, l’ho vista ricomparire in quel modo e non so spiegare come ci riesca.»

    «Quindi ho ragione io. E l’unica cosa che devi fare per ottenere tutto ciò che desideri stasera…» Myssa si alzò in punta di piedi per accostare la bocca alla sua e abbassò la voce in un sommesso mormorio di gola che accelerò i battiti del cuore di Piay. «Per ottenere qualsiasi cosa tu riesca a immaginare e molte altre…»

    «Sì?» chiese lui in tono burbero, appellandosi a tutta la forza di volontà per impedirsi di gettare a terra Myssa e farla sua in quel preciso istante. «Che cosa devo fare?»

    «Devi soltanto dichiarare: Myssa, hai ragione come sempre. La tua gatta è toccata dagli dei

    Piay esitò. La lussuria gli suggeriva: Parla! Ma l’orgoglio intimava: Taci!

    «Dillo!» lo sollecitò lei.

    Lui si arrese e fece un gran sospiro. «Myssa, hai ragione… come quasi sempre.»

    «Stai attento. Pensa a cosa potresti perderti.»

    «Come sempre» ammise Piay. Poi un sorrisetto malizioso gli arcuò gli angoli della bocca. Cominciò ad accarezzare la coscia di Myssa, spingendo le dita sempre più su, e si allungò in avanti per sussurrarle qualcosa all’orecchio.

    Lei ridacchiò, rinunciando alla sua simulata severità, e avrebbe potuto concedersi subito a Piay se non fosse stato per la rude voce maschile che gridò: «Fatela finita, voi due, e sbrigatevi a salutare. Non rimarrà nemmeno una goccia di birra in tutta Tebe, se continuate così».

    Piay e Myssa si staccarono con riluttanza.

    «Sì, certo, Hannu, scusa» disse lei, sistemandosi la nera chioma ricciuta uscita dalla fascia azzurra che si intonava perfettamente al suo abito.

    «Finalmente» borbottò Hannu, un ex militare congedato dalle esclusive Guardie del Coccodrillo Azzurro dopo che la zoppia causata dal fendente di una spada hyksos sulla gamba lo aveva reso non idoneo al servizio. Si era ridotto a mendicare su una strada polverosa, quando Piay lo aveva incontrato per la prima volta.

    Ogni volta che Piay raccontava cosa era successo in seguito, spiegava che, impietosito dalle tristi condizioni di Hannu, gli aveva offerto un lavoro, cibo e riparo. Hannu raccontava una storia diversa e sosteneva che, per compassione di quel giovanotto un po’ rozzo, aveva deciso di fargli da guida nel suo percorso di vita. Ognuno dei due era felice di lasciare che l’altro continuasse a illudersi.

    L’indomani mattina i tumisi e gli elefanti sarebbero partiti verso sud, così Piay, Myssa e Hannu salutarono gli uomini che erano stati i loro leali e coraggiosi compagni e gli animali che ormai consideravano alla stregua di amici. Avevano viaggiato insieme fino a Tebe dai più remoti confini della terra di Kush, molto più a sud, persino oltre la sorgente del Nilo.

    Hannu si trattenne più a lungo con Mero, il pachiderma più anziano del branco, massiccio e imponente laddove lui era basso e tarchiato, con un folto strato quasi scimmiesco di ispida peluria nera e grigia su schiena e petto. Non avrebbero potuto essere più diversi, eppure avevano stabilito un forte legame.

    «Si somigliano molto» disse Myssa. «Una coppia di anziani brontoloni che preferirebbero morire piuttosto di ammettere che sotto quel caratteraccio si cela un’anima dolce, coraggiosa e leale.»

    «Due anziani brontoloni che in battaglia vorrei avere al mio fianco più di qualsiasi altro uomo o animale al mondo» replicò Piay.

    «Bene, ti conviene far sì che Hannu arrivi alla sua birra, se lo vuoi accanto durante la prossima battaglia.»

    «Ne ho avuto abbastanza di battaglie» affermò Piay. «Voglio solo una vita piacevole e tranquilla in una fattoria insieme a te. L’ho appena spiegato a Taita, mi hai sentito.»

    «Sì, e ho anche sentito Taita dire che non intende concederti quel tipo di vita perché alla fine te ne pentiresti.»

    «Cosa può saperne lui?» chiese Piay, poi non riuscì a impedirsi di ridere per l’assurdità dell’affermazione.

    «Taita sa tutto!» replicò Myssa, ridendo anche lei, perché Taita era stato l’insegnante e il padre putativo di Piay e adesso era il suo comandante. Pur essendo uno schiavo e un eunuco – un uomo né libero né completo – grazie alla sua impareggiabile saggezza e perspicacia era diventato l’indispensabile consigliere e confidente di una lunga serie di faraoni. E il suo straordinario talento sia nell’arte bellica sia nella diplomazia aveva garantito all’Egitto la vittoria di quel giorno.

    Piay le diede un bacio che era una tenera e delicata prova del suo amore, e Myssa lo ricambiò, sapendo che li aspettava un abbraccio ben più appassionato non appena fossero finalmente riusciti a raggiungere i propri alloggi.

    Quando infine le loro labbra si staccarono lei si guardò intorno e chiese: «Dov’è Hannu?».

    «Secondo te?» replicò Piay. «Avanti, andiamo in città a divertirci un po’!»

    Tenendosi a braccetto, Piay e Myssa attraversarono l’accampamento per raggiungere la porta della città che dava sul fiume. Bastet, raggomitolata tra le braccia della sua padrona, osservava con soddisfazione tutto quello che succedeva intorno a loro.

    Lì a bruciare non erano fattorie date alle fiamme, bensì falò scoppiettanti circondati da guerrieri che si dissetavano con boccali di birra e intonavano vivaci canti su vite vissute appieno e battaglie combattute con ardore. Soldati egizi a torso nudo, con il gonnellino un tempo bianco ora sporco di sudiciume, sudore e sangue, si aggiravano tra gli alleati spartani dal mantello rosso, dando pacche sulla schiena e unendosi alla baldoria.

    Qua e là, tra gli uomini, spiccavano i visi dal trucco pesante e i corpi poco vestiti di cortigiane tebane che avevano lasciato i lupanari cittadini per esercitare il mestiere tra soldati fin troppo ansiosi di diventare loro clienti. Una volta accordatisi sul prezzo, né le une né gli altri avevano alcuna remora a dedicarsi subito alle loro faccende.

    «Secondo te quanto passerà prima che gli uomini inizino a contendersi le donne?» chiese Myssa.

    Piay scoppiò a ridere. «Non molto! Ma non temere, quelle ragazze sanno come gestire i soldati ubriachi. E domattina saranno molto felici, quando svuoteranno i loro sacchettini di monete.»

    «Mmm» mormorò Myssa a mo’ di risposta.

    Varcarono la porta fiancheggiata da due massicce torrette di guardia ed entrarono a Tebe. La presenza degli eserciti di Hyksos a nord e la minaccia da loro così a lungo rappresentata avevano creato una cappa di tristezza sopra la capitale del faraone, ma adesso un gravoso fardello era stato eliminato. Lei guardò un bambino sui dieci anni e la madre abbracciare un soldato intanto che lui baciava il piccolo sul collo, sulla fronte e poi sulla sommità del capo.

    «Che cosa c’è?»

    Myssa gli rivolse un sorriso dolce. «Stavo pensando a noi due e all’unica cosa di rilievo che ci accomuna.»

    «Oltre al voler stare sempre insieme?»

    «Mi riferisco a quello che ci è successo nella vita quando ancora non ci conoscevamo.»

    Piay si accigliò, poi sospirò nel capire a cosa si riferisse lei. «Siamo soli al mondo, abbiamo perso entrambi la famiglia.»

    Myssa annuì. «Sì, ma quando il mio mondo è stato distrutto dagli schiavisti io, almeno, ero abbastanza cresciuta per badare a me stessa, e sono riuscita a capire cosa stava succedendo. Tu invece eri così piccolo…»

    Piay trovò strano fare una conversazione così seria in un momento del genere. Avrebbe voluto proporre a Myssa di riparlarne un’altra volta, ma la conosceva abbastanza per sapere che sarebbe stato solo fiato sprecato. Lei voleva discutere della cosa e sarebbe stato meglio lasciarglielo fare per poter concludere in fretta.

    «Ero solo un bambino normale» disse lui. «I miei genitori non erano ricchi o potenti e non avevamo granché, ma non mi importava. Non conoscevo nessun altro tipo di vita.»

    Myssa annuì. «Era lo stesso anche per me, conoscevo solo il mio villaggio.»

    «Poi, un giorno» continuò Piay, «mio padre mi ha detto che avremmo fatto un viaggio per incontrare l’uomo più saggio di tutto l’Egitto. Naturalmente si riferiva a Taita. Pensavo che gli avremmo solo fatto visita e che poi sarei tornato a casa con i miei genitori. Non mi passò nemmeno per la testa che mi potessero lasciare là, ma alla fine se ne andarono senza portarmi con loro.»

    Avevano raggiunto una taverna non lontana dal palazzo del faraone, con tavoli e panche anche all’esterno. Mentre Myssa trovava due posti a sedere, Piay entrò a comprare una brocca di birra, del pane e una ciotola di stufato di capra speziato. Durante il giorno non aveva mangiato niente e aveva bevuto solo l’acqua salmastra contenuta in un otre. Non appena si sedette e spartì il cibo con Myssa, lo stufato scomparve e la caraffa si svuotò.

    «Per Ra, ne avevo davvero bisogno» disse lui, posando a terra la ciotola dello stufato in modo che Bastet potesse leccarla.

    «Anch’io» affermò Myssa, poi aggiunse: «Allora, perché i tuoi genitori ti hanno affidato a Taita, secondo te?».

    «Vorrei tanto saperlo» rispose Piay, mentre Bastet saltava in grembo a Myssa.

    «Forse credevano di fare ciò che era meglio per te, di fornirti un tipo di vita che loro non avrebbero mai potuto darti. Affidare ad altri il loro unico figlio dev’essere stato straziante.»

    «È un modo di vedere la cosa. Ma forse hanno solo immaginato che, se Taita mi avesse fatto accedere a un ceto sociale più elevato, anche loro ne avrebbero tratto beneficio. O magari volevano solo avere una bocca in meno da sfamare, una persona in meno che li intralciasse. Il motivo ha davvero importanza? Sono scomparsi dalla mia vita, per quanto ne so potrebbero essere già morti. Non c’è nulla che io possa fare per cambiare il passato, quindi perché rimuginarci sopra?»

    «Perché ti leggo negli occhi la tristezza, il senso di perdita. Eccoti qui, un uomo forte e avvenente, con la mascella squadrata e il corpo muscoloso, ma dentro di te c’è un bambino che si sente spaesato e solo.»

    Piay, proteso verso Myssa, le lasciò andare la mano e girò la testa come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno volto.

    «Mi dispiace» disse lei, cercando di blandirlo. «Non volevo farti soffrire...»

    «No, solo farmi sentire debole.»

    «Non si tratta affatto di questo.» Myssa si allungò verso Piay e gli prese la mano, mentre Bastet saltava sul tavolo. «Sto dicendo che ti desidero perché sei il tipo di uomo che ogni donna vorrebbe. Sei un guerriero, un capo...»

    La gatta si avvolse la coda intorno alle zampe, guardando gli esseri umani recitare il loro piccolo dramma.

    Myssa si interruppe per osservare il viso di Piay. Lui continuava a sembrare tutt’altro che felice, ma lei sapeva che c’era un altro tipo di elogio cui nessun uomo sapeva resistere.

    «E quando facciamo l’amore» aggiunse «sento la tua forza intorno e dentro di me, e mi fa sentire inerme ma anche protetta. Quindi sei un vero uomo, non dubitarne mai. Ma quando vedo la tristezza e il senso di perdita in te capisco che hai un animo tenero e che posso proteggerti come sa fare una donna, fornendo riparo e nutrimento a quella tua parte. Mi hai salvato, ma anch’io posso salvare te.»

    Qualcosa dietro la taverna attirò l’attenzione di Bastet, che si alzò, si stiracchiò, raggiunse il bordo del tavolo e saltò di nuovo sulle ginocchia di Myssa.

    «E c’è anche un altro motivo per cui ti amo» disse lei. «Tu… Ahi!»

    Fu interrotta bruscamente dalla piccola gatta grigia, che sibilando le conficcò le unghie nell’abito di cotone sottile e nella pelle sottostante, per poi balzare a terra e correre via lungo la strada.

    Myssa si accigliò. «Qualcosa la preoccupa.»

    «Lasciala andare» disse Piay. «Sa badare a se stessa» aggiunse, contemplando la possibilità di un secondo giro di birra e stufato.

    «No, dev’essere qualcosa di grave.» Myssa lo guardò e disse: «Credimi, vuole che la seguiamo».

    Piay si alzò a malincuore, poi dovette mettersi a correre per raggiungere Myssa e Bastet, la quale, continuando a precederli, si lanciò in uno stretto vicolo tra due file di magazzini.

    La stradina era deserta, il buio tra gli edifici attenuato solo dal bagliore ambrato di un paio di lanterne a olio fissate sopra le porte di uno dei depositi in fondo.

    La gatta si fermò di colpo, inarcando la schiena, e sputò come se un predatore fosse in agguato poco più avanti, tra le ombre. Myssa le si accovacciò accanto.

    «Che ti prende, tesoro?» chiese in tono suadente, allungando una mano per accarezzarle il dorso.

    Bastet si ritrasse per evitare il contatto e osservò la viuzza, con i denti esposti.

    Piay scrutò le tenebre, rimpiangendo di non possedere la capacità felina di vedere anche al buio. Poi i suoi occhi si abituarono lentamente alla penombra, permettendogli di distinguere, pochi passi più avanti, una sagoma grigia simile a un ammasso di stracci riversa sul terreno polveroso.

    «Oh, no» sussurrò.

    Temendo il peggio, sguainò la spada, i sensi all’erta per cogliere eventuali pericoli annidati nei paraggi.

    Avvicinandosi, riuscì a scorgere il corpo di un uomo in tunica bianca immerso in una pozza di sangue, con un lungo taglio sulla gola e il viso contratto in una smorfia di paura e sofferenza.

    «Stai indietro» sussurrò Piay a Myssa. «L’assassino potrebbe essere ancora nei paraggi.»

    Si domandò chi avesse potuto commettere un crimine così brutale in quella serata di festeggiamenti. Tebe era sempre stata una città pacifica, ma un ladro poteva benissimo aver visto nel caos delle celebrazioni un’ottima occasione per derubare dei ricchi che gironzolavano là dove non avrebbero dovuto. E la vittima non era certo un umile operaio, Piay se ne accorse subito: sul petto della sua veste bianca insanguinata scintillava un ricamo realizzato con costoso filo d’oro raffigurante il disco di Ra, il dio del sole.

    «Guarda» disse Myssa con un filo di voce, puntando il dito.

    Piay si voltò verso la direzione indicata e vide quattro o cinque figure sfrecciare lungo la stradina, semplici chiazze contro la penombra. Mentre si avvicinavano alle due lanterne accese non rallentarono né sollevarono una mano verso di esse, eppure si spensero entrambe.

    Lui provò un brivido di disagio nel non capire bene cosa stesse vedendo o come erano state spente le lampade, ma chiunque fossero quegli uomini ormai era troppo tardi per inseguirli.

    Si accovacciò accanto al cadavere per osservarlo meglio.

    «Conosco quest’uomo» disse, fissando il viso dalla pelle raggrinzita. «L’ho notato ieri sera, prima della battaglia, era uno dei cortigiani radunatisi per essere testimoni del trapasso dell’anziano faraone, ormai in fin di vita.» Si interruppe, accigliandosi mentre tentava di rammentare la scena. «Credo fosse un nobile, perché sono sicuro di averlo visto anche a corte, anni fa.»

    Si strinse nelle spalle. Quando era giovane non aveva badato molto agli uomini anziani che, a corte, si affaccendavano intorno al sovrano:

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