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Eutopia
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E-book611 pagine7 ore

Eutopia

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Info su questo ebook

Arcidiocesi d'Aquitea. Trecentocinquant'anni dall'Ultima Battaglia.

La neve, quell'anno, era caduta fitta, portando una servitù di gelo, cupe tenebre e bocche affamate. Con lei era giunto il vento glaciale del Nord, gli ululati dei lupi e, nella notte più fonda, i gemiti spettrali di cose ben peggiori.

Oni. Gobelin. Giganti. E mortali creature delle Tenebre.

Per scovarle ed annientarle è stato convocato Dyvim Ris, paladino di Daal.

Lo attenderà un viaggio pieno di pericoli, in compagnia d'una bizzarria combriccola d'avventurieri: tre mercenari sacrileghi, un giovane cavaliere sognatore ed un vecchio predicatore cieco.

Insieme imboccheranno la via che porta ad Eutopia: un borgo misterioso, nascosto nel cuore della maledetta Foresta dei Sussurri. Là il carbonaio Valdo ha fondato un villaggio, seguendo la visione d'un mistico cervo candido.

Là affronteranno il proprio Destino, mentre eserciti si muovono nell'oscuro Nord, battaglie vengono combattute ed il mondo trema, nascondendosi al pensiero di una nuova, peggiore Apocalisse!
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2014
ISBN9788891139221
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    Anteprima del libro

    Eutopia - Alex Goetling

    Alex Goetling

    EUTOPIA

    Ballata della Fine dei Tempi

    Libro I

    Eutopia © 2013 Alex Goetling. Tutti i diritti riservati

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    ISBN: 9788891139221

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma, 73 – 73039 Tricase (LE) – Italy

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Dedicato a tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno partecipato.

    Alex Goetling

    www.alexgoetling.com

    Questa è la Ballata della Fine dei Tempi,

    una storia paurosa, da far tremare i denti.

    Stringetevi vicino, sedete tutt'attorno

    e trattenete il fiato finché non spunta il giorno.

    Arawan de Sarnath – Ballata della Fine dei Tempi

    PRELUDIO

    Nel gelido inverno, nel bosco innevato,

    viandante hai scovato il sentiero stregato.

    La notte intreccia di stelle il suo manto,

    la luna è già sorta, ascolta il mio canto:

    i fuochi fatui segnano il cammino,

    danziamo nel buio fino al mattino.

    Arawan de Sarnath – Notturno

    Fuochi fatui

    In un tempo lontano, in un mondo che fu... 

    L’inverno di quell’anno non aveva concesso riposo.

    La neve era caduta fitta, portando una servitù di gelo, cupe tenebre e bocche affamate. Con lei era giunto il vento glaciale del Nord, gli ululati dei lupi e, nella notte più fonda, i gemiti spettrali di cose ben peggiori...

    Il mestiere di Petar Tre Chiodi esigeva le tenebre e un badile. Spesso anche un piccone ed una vanga, soprattutto quando l’inverno mutava la terra in sasso e la fatica tagliava le mani ed il respiro. In quelle occasioni preferiva cercare un socio temporaneo, con le doti fisiche necessarie che a lui, invece, mancavano. Tre Chiodi era infatti tanto mingherlino da farlo assomigliare ad una manciata di quei ferri aguzzi, usati dai maniscalchi o dai falegnami d’un certo rango. Questo gli aveva regalato il soprannome e una buone dose di seccature: perché, sebbene di tempra robusta, non poteva sostenere certe opere di scavo, né realizzarle con la velocità richiesta dalla professione.

    Non faceva il becchino, Petar, anche se molti suoi colleghi iniziavano a quel modo. Scoperchiava tombe e depredava cadaveri, invece: un’arte antica, dove astuzia, destrezza e una certa dose di diplomazia, valevano quanto e più della bruta forza. Occorreva arrampicarsi e sgattaiolare, a volte forzare i lucchetti d’una cripta, altre farsi amici custodi o curati. Occorreva informarsi, raccogliere notizie, pesando però con estrema cura le parole, per non incorrere nelle sgradite attenzioni dei gendarmi. Bisognava elaborare un piano e sapere dove scavare, perché non tutti i cimiteri erano uguali, né le sepolture: ce ne erano di buoni, ed erano pochi, e di cattivi, ed erano molti, proprio come per gli uomini. Il difficile era trovare i primi evitando i secondi: un compito arduo anche per un professionista dello sciacallaggio. Cercare nel posto sbagliato, invece, era un gran spreco di tempo e spesso conduceva pure ad un mare di guai. Non sempre, però, si poteva scegliere, soprattutto quando le circostanze iniziavano a remare contro con tanto ostinato accanimento.

    Tre Chiodi si soffiò sulle mani, quindi, al terzo tentativo, riuscì a far saltare il chiavistello. Uno schiocco improvviso ed un tintinnio di metallo che, per quanto attento, non riuscì ad evitare. Il battente si socchiuse appena sull’interno, liberando odore di fiori già appassiti. Il tombarolo attese il tempo di dieci respiri, ma la notte non restituì alcun allarme, così aprì del tutto la porticina della cripta.

    L’ultimo inverno era stato terribile, la neve aveva nascosto il terreno per mesi, il freddo ne aveva fatto una lastra di marmo. Scavare era diventata un’impresa, tanto che nelle zone rurali avevano iniziato ad ardere i morti su pire di larice, invece di darli in pasto alla nuda terra. Solo ad Olyr e nei villaggi più grandi, come Helar, Stilth o Laegar, continuavano le inumazioni ed anche qui solo di mercanti, ricchi artigiani o famiglie nobiliari, che avevano a disposizione denaro e tombe in muratura per dare l’estremo riposo ai propri defunti.

    Una manciata di gradini portava in basso, tra pareti tanto gelide che anche la muffa non attecchiva. Petar mormorò tra i denti una breve preghiera, mentre raggiungeva con movimenti misurati la piccola sala sottostante. La sua meta.

    In tutta la stagione, gli era riuscito solo un colpo e neppure sufficiente a giustificare lo sforzo. La cinghia s’era ristretta d’un paio di fori cosa che, vista la sua mole naturale, lo rendeva più scheletrico dei cadaveri che doveva depredare. Per questo, quando aveva saputo della giovane Alwine, aveva esitato solo il tempo per un sorso di cordiale. Era la terzogenita del Signore di Stilth, capelli corvini e occhi di foresta, bella della bellezza delle fate. Correva nel bosco innevato, spensierata nei suoi tredici anni, sfuggita per un poco alle tetre stanze del maniero, così come all’occhio un po' opprimente della governante e delle guardie. Qualcosa l’aveva presa nel folto, forse un lupo, reso folle da una fame troppo a lungo rimandata. I soccorsi avevano visto solo l’ombra della belva che fuggiva ed una radura inondata di sangue. 

    Passo dopo passo, lasciandosi guidare dal lumino della lanterna, Petar raggiunse il sarcofago. Sembrava galleggiare in un lago di primule, violette e minute campanelle bianche, che inghirlandavano anche il feretro di frassino e le pareti della tomba. Rimase a fissare quello spettacolo quasi bello, immaginandosi come doveva essere prima la fanciulla ed ora, chiusa dentro quella cassa.

    I miseri resti di Alwine avevano cancellato il senno della balia ed anche i più rudi armigeri avevano pianto, davanti a quel corpo martoriato. Per un caso od un miracolo, solo il viso d’angelo della giovane era stato risparmiato e spiccava come una rosa tra rovi di carne maciullata. Il padre aveva fatto battere le selve da dozzine di cacciatori, sterminando ogni fiera che vi potessero scovare. Non era servito a ridargli Alwine, né a placare anche di poco il dolore: alla fine, aveva solo potuto comandare il funerale della figlia, scegliendo per lei abiti e gioielli degni d’una principessa delle fiabe.

    A quelli mirava Tre Chiodi, spazzando via con gesti insolitamente delicati i fiori dal capezzale della morta. I contadini parlavano di perle di fiume, filati d’argento e d’una coroncina di zaffiri opera dei mastri gioiellieri d'Aquitea, che il Signore di Stilth possedeva da oltre sette generazioni. Al ladro era girata la testa solo al pensiero di poterla toccare.

    Per questo aveva scelto d’esser lì, a frugare in quell’avello, dopo aver sedato la guardia all’ingresso con ottimo vino drogato. L’aveva fatto lasciando a casa la prudenza, preferendo trascurare quei particolari che, suonando preoccupanti, potevano allontanare mente e mano dal tesoro.

    La forma delle orme lasciate sulla neve. L’ululato dei cani che le avevano fiutate. L’estrema freschezza del cadavere, nonostante le terribili ferite. La scelta del legno della bara.

    Scostò di scatto la mano, portandola alle labbra. Sulla lingua sentì il sapore amaro del sangue. C’erano tralci spinosi di biancospino e schegge di specchio frammiste ai fiori: frutti taglienti della superstizione che, una volta ancora, decise d’ignorare.

    Irritato da uno sfarfallio allo stomaco che avrebbe preferito non sentire, Petar scoperchiò con forza la bara. Alwine lo attendeva all’interno ed era più bella di qualsiasi racconto. Un viso di porcellana, incorniciato da capelli color notte ed ombreggiato appena da ciglia scurissime. Indossava un abito bianco, ornato di visone, che le donava la sacralità d’una santa. Non c’era traccia di ferite, neanche un graffio a sfregiare la sua pelle pallidissima. La lanterna strappava scintillii meravigliosi dai gioielli attorno al collo e dall'intreccio d’argento e gemme sul suo capo. 

    Petar ne fu tanto affascinato da non poter trattenere un sospiro ed una carezza su quelle gote fredde. Di scatto, le dita adunche della giovane si serrarono sulle braccia dello sciacallo, imprigionandolo in una morsa fatta di ferro. Alwine spalancò allora cupi occhi di smeraldo, sorridendogli con una malizia ed una brama che vivi e morti non dovrebbero avere. Lo tirò a sé e si distese, trascinando il ladro indietro, nella bara, in un abbraccio di tenebra, in un amplesso di vermi.

    Il coperchio salì e subito ricadde, strozzando le sue grida disperate. Ed il mondo, se mai l’aveva fatto, smise di parlare di Petar Tre Chiodi.

    Il pastore Bertrandt quella notte non riusciva a prender sonno. Lo turbava un’angoscia senza nome, un timore indefinito che lo agitava peggio d’una infestazione di pulci. Si grattava e contorceva tra la paglia, voltandosi ora a destra ora a sinistra, sbuffando imprecazioni come aria da un mantice. Il capanno era sempre troppo caldo o troppo freddo, la coperta prima un velo e subito dopo un macigno soffocante. I suoni della campagna sotto la luna gli scuotevano i timpani, con il fracasso dei saltimbanchi alla fiera del bestiame di Helar. Anche Blik, il molosso che badava al gregge, sembrava condividere la stessa agitazione e sollevava di continuo il capo, fiutando l’aria con orecchie basse di minaccia. Le pecore invece dormivano: ma quelle erano bestie ignoranti, buone solo per il latte, la lana o un bollente stufato con patate.

    Dannato mazpeghul! Folletto dannato!! – brontolò, tirandosi a sedere. Con la destra si lisciò la barba, incolta come stoppie indurite dall’inverno.

    Chi altri, se non lo spirito dispettoso della casa poteva, infatti, dargli tanto tormento?

    Soffiando, sporse i piedi dal giaciglio, deciso ormai ad alzarsi: doveva provare a placare la creatura con un’offerta di latte e di lenticchie o non l'avrebbe lasciato in pace.

    Proprio allora il cane iniziò a latrare. 

    Un grido straziante, da spavento. Urlava come il porco nel giorno di San Jalaius, sentendo odore di beccaio. Il pensiero di Bertrandt corse subito alla volpe o al lupo e saltò fuori dal letto con una bestemmia. Afferrati roncola e bordone, corse all’uscio, pronto a cavare sangue a quelle bestiacce. Non lo raggiunse mai. Nel tempo d’un respiro, l’intero gregge prese ad ululare. Un grido monocorde di terrore, che salì fino ad affiancare e coprire quello di Blik, tanto umano e desolante da ghiacciare il midollo nelle ossa.

    La sicurezza del pastore vacillò, il passo s’interruppe, mentre il tetto del capanno iniziava a scricchiolare. Un suono adunco, di legno piegato, tirato verso l’alto da una forza inconcepibile. Ci fu il crudo scoppio dei tasselli, il crepitare secco d'assi spezzate, poi l’intera struttura venne via, lasciando spazio al cielo stellato ed all’orrore.

    Un’ombra immensa, l’ansimare d’un tuono. Braci ardenti e risucchi cavernosi. Un braccio che pareva una quercia scavò nella stalla, cercò, trovò, afferrò una delle pecore impazzite di paura. La sollevò senza sforzo, fino a farle sfiorare il firmamento. Seguì il morso, lo schiocco di ossa sbriciolate, il prolungato fragore della masticata. Tonfi umidi, grugniti e sgocciolii accompagnarono l’osceno pasto.

    Bertrandt non rimase per sentirli. Privo di ragione e di controllo, lasciò cadere le armi improvvisate e, scalzo com’era, si gettò a perdifiato nella notte innevata, senza meta o direzione. Lontano, soltanto il più possibile lontano dal capanno e dall’ineluttabile, famelica mattanza.

    Sui campi di Luthen la pioggia cadeva copiosa. Iniziata come fioca neve, s’era sciolta in lacrime con l’avanzare del giorno, spezzando l’incantesimo del gelo fino a concedere al mondo il sollievo del pianto. Aveva pian piano intaccato la crosta candida, scavando solchi per poi mutarli in piccole pozze e stagni. Aveva pulito i rami ed i tetti, restituendo respiro e colore al legno ed all’ardesia. Aveva lavato via il sangue rappreso dal campo di battaglia, lustrando lance spezzate e corazze divelte, già spogliate da corvi e ladri di cadaveri. I morti erano stati raccolti, i feriti soccorsi, ma il lutto era troppo intenso e recente per poter esser cancellato.

    Oro ed inganno avevano vinto la cittadina ed ora il lupo era all’interno coi suoi armati: agli abitanti non restava che belare straziati il proprio dolore ed attendere un improbabile riscatto.

    Pioveva, a Luthen, pioveva a dirotto: il lungo inverno era ormai finito, ma la primavera avrebbe tardato ancora parecchio ad arrivare.

    PARTE I

    Yavne dis Aarne Gathen,

    yavne dis Itharne Gathen,

    yavne dishen Har de Naol,

    inhi nathen gothne Baol

    Libro di Daal – Apocalisse

    Aquitea

    Il messaggero giunse al crepuscolo, fendendo cortine di pioggia. 

    Cavalcava un destriero pallido e si portava dietro aria di tempesta. L'animale procedeva a muso basso, arrancando e sbuffando sul pietrisco del sentiero. Il fango lo copriva fino alle staffe. Era sfinito dal viaggio, come il suo cavaliere. L'uomo rabbrividiva nel mantello fradicio, la sua testa ciondolava sotto il cappuccio, a ritmo coi sobbalzi della strada.

    Le piogge di primavera flagellavano le Pianure Pallide, trasformandole in un pantano terrificante. Lassù, invece, alle pendici dei Monti Voraci, l’inverno manteneva la sua stretta: le cime erano lance bianche contro il cielo plumbeo e negli anfratti protetti dei costoni persistevano tenaci lastre di ghiaccio. Il vento gemeva di freddo e l'aria aveva ancora il pungente sapore della neve.

    Il cavallo nitrì, smuovendo una leggera frana, che precipitò a valle con un cupo acciottolio. Il messaggero si scosse, sollevando il capo alla sua meta. 

    Thar Lynfer. Il castello dei Leoni Bianchi. La Magione degli ultimi paladini. Una fortezza invincibile, che si levava dritta da una parete vertiginosa alta più di seicento passi: un austero pinnacolo di roccia, scolpito dall’uomo in Ere troppo antiche per essere ricordate. Al centro svettava un mastio magnifico, fuso con la pietra stessa della montagna, punteggiato di anguste feritoie da cui, qua e là, sgorgava la luce delle torce. Il tetto era piatto e formava una terrazza merlata, su cui svettava uno stendardo candido.

    Le mura iniziavano solo trenta passi più in basso: bastioni imponenti, costruiti al limitare del precipizio e intervallati da tre torri circolari dai tetti conici. La più grande sbarrava l’unico accesso al maniero: un ponte levatoio di spessa quercia, gettato oltre un baratro tenebroso fino al sentiero risalito dal cavaliere. Un tempo era stata la via più grande dell'Impero, percorsa da genti, merci ed armati da e per la capitale: l'Ultima Battaglia aveva cancellato ogni cosa, poi l'incuria e le intemperie avevano fatto il resto, trasformando la strada in una pista franosa, appesa al fianco vivo della montagna. 

    Solo il castello gli anni avevano risparmiato. Un vero nido d’aquila, maestoso ed inattaccabile. In passato aveva vegliato su Yor Inimas, ora chiudeva in modo inesorabile Passo Fiammavento, tenendo lontani folli, curiosi e ladri di tesori dalla Valle dei Lamenti e dalle insidie liquide dello Specchio della Megera. Da secoli, ormai, nessuno varcava più il portone retrostante e mai, da quando c'era memoria, un esercito in armi aveva potuto violarlo. Forza ed inganno nulla potevano contro l'incrollabile fermezza del mastio e dei suoi occupanti.

    Corni risuonarono sugli spalti di Thar Lynfer, annunciando una visita inaspettata. Un volo di corvi chiazzò di nero un cielo sempre più scuro.

    Reinhard di Lund, mio Signore, reco una missiva del Vescovo-Conte Ambrosius d’Arnath – recitò il messaggero, slacciando le corregge di cuoio della tracolla. 

    Appariva rigido ed affaticato, le dita gli tremavano mentre estraeva l'involucro. Un cilindro metallico, avvolto in un panno unto e chiuso da una coppia di sigilli in ceralacca.

    Una missiva importante – aggiunse, quasi a giustificare la sua presenza in quel luogo remoto.

    Gocce fredde gli cadevano copiose dal mantello, formando una pozzanghera sul pavimento di marmo dello studio.

    Gunnar Sirth, Gran Maestro dei Leoni Bianchi, fece un cenno d'assenso, allungando la mano per ricevere il messaggio. Aveva un palmo ampio, con linee definite come cicatrici.

    Molto importante: è lungo il viaggio attraverso le Pianure, in questa stagione… – rispose, soppesando lentamente il cilindro.

    Lo voltò e rivoltò, osservandolo con attenzione, quasi volesse penetrarne la superficie e leggerne il contenuto senza aprirlo.

    Dieci giorni, dall'alba al tramonto, cambiando solo tre volte destriero - confermò il messaggero, non senza una punta d'orgoglio per l'impresa.

    L'anziano comandante annuì con aria grave.

    Puoi andare, Reinhard di Lund, hai fatto un buon lavoro – concluse il Gran Maestro, congedandolo con un gesto della mano libera – Il mio attendente provvederà a darti cibo, alloggio ed un bagno caldo, se lo gradirai, secondo l’antica legge di Ospitalità

    L’uomo accennò ad un inchino, mormorò un formale saluto ed uscì dalla sala per la stessa porta da cui era entrato. Rimasto solo, Gunnar superò la breve distanza che lo separava dal camino, lasciandosi cadere su una sobria poltrona di pelle. Sospirò, massaggiandosi il ginocchio sinistro. La vecchia ferita doleva sempre, quando il tempo mutava in umido ed i suoi cinquantanove anni non miglioravano certo la situazione. Si grattò la barba grigio ferro, tenuta lunga come voleva la Regola per il suo ruolo, e solo allora tornò a rivolgersi al messaggio. Una missiva urgente del Vescovo non poteva che portare guai, confermando varie voci e notizie giunte in altro modo a Thar Lynfer.

    Socchiuse le palpebre nella luce incerta del focolare, quindi, con gesto deciso, ruppe i sigilli. Ne estrasse una pergamena vergata di caratteri fini ed eleganti, che lesse con attenzione quasi ossessiva. Quando terminò, si concesse una breve riflessione prima di chiamare l’attendente.

    Convoca il confratello Dyvim - fu l'ordine inevitabile.

    Un ceppo schioccò tra le braci, gettando scintille scarlatte nelle tenebre.

    Dyvim Ris avanzava a fatica, affondando e scivolando nel pantano delle Pianure inondate dal diluvio. Fango e pioggia lo accompagnavano da una settimana, la sfortuna dal pomeriggio prima, quando aveva perso il cavallo. Era successo alle Ceppaie di Caeth: un'area brulla e sassosa, che s'apriva d'improvviso nella prateria, incongruente come un neo peloso sulla pelle candida d'un bimbo. Luoghi simili esistevano in tutto il Principato d'Arnath ed anche altrove: venivano detti Cicatrici di Daal, perché frutto della collera divina dopo Banestor. La leggenda diceva, infatti, che la Somma Luce avesse inseguito per il mondo i demoni scampati all'Ultima Battaglia, incenerendoli là dove li trovava. 

    Il paladino credeva si trattasse di semplici racconti popolari, superstizioni che poco avevano a che vedere con la Fede. Perché la Somma Luce era vita, mentre le Ceppaie erano terra morta, coperta di ghiaietto nero, arida e desolata. Non vi cresceva nulla, tranne radi carpini, rovi ed insidiosi arbusti di ceddar, duri ed affilati come pugnali. Il destriero era sdrucciolato sul fondo cedevole, crollando tra le punte acuminate e restandovi impalato. Il Leone Bianco aveva solo potuto porre fine alle sue sofferenze, per poi caricarsi in spalla i pochi bagagli e proseguire il viaggio a piedi.

    Fanghiglia e malasorte. Davvero pessime compagne di viaggio. In tanti vi avrebbero letto segni infausti, ma non Dyvim. Fece un sorriso storto e gli occhi brillarono, vivi come ghiaccio lucidato. Fatica, disagi e privazioni non contavano per uno addestrato a Thar Lynfer. Inoltre, fin da piccolo gli piaceva camminare e la meta da raggiungere era ormai prossima: all’orizzonte, sotto nubi pesanti, si delineavano i profili nudi dei colli da cui sorgevano le mura d'Aquitea. Una città antica e fredda, costruita con pietra solida su una terrazza naturale affacciata sulla valle del Merillian. Ricca senza cedere all'opulenza, grande pur senza essere una metropoli, Aquitea era il cuore dell'Arcidiocesi ed un centro di potere nevralgico del Principato. Il suo simbolo era la cattedrale: un'ombra alta ed austera, già ben visibile da leghe di distanza. 

    Il monaco-guerriero si fermò per osservare meglio, sollevando la mano destra a schermare la pioggia. Rivoli d’acqua gli scendevano dai capelli brizzolati, tagliati corti come voleva la Regola. Sci di gocce delineavano i contorni netti ma eleganti del naso, fino a sfiorarne la bocca sottile, capace di aprirsi in luminosi sorrisi. Una cicatrice gli rigava il mento, una seconda spezzava il sopracciglio sinistro fino a sparire oltre la fronte corrucciata. Una corazza di piastre e maglia ne fasciava il corpo muscoloso. Era una figura imponente nella tempesta, capace di impressionare anche chi non ne conosceva nome ed appartenenza.

    Un lampo lo illuminò da dietro, mostrando, per un attimo, la testa di un leone ruggente, sbalzata in nivium sul pettorale: una lega di durissimo argento di cui solo il suo Ordine conosceva il segreto. Sotto l’armatura, invisibile agli occhi, riposava il sacro Uroboro, simbolo del suo voto e dell'eterna consacrazione alla Somma Luce. Sulla schiena, ben protetta da panni oliati, Anduadeth, la spada dei suoi avi, attendeva tranquilla di scendere in battaglia.

    Il paladino aguzzò lo sguardo. Di fronte a lui si alzava la massicciata d’una strada. Non di quelle lastricate d’epoca Imperiale, ma comunque efficace. Tagliava la pianura in diagonale, dritta come una ferita di rasoio: lì il cammino sarebbe stato più agevole, gli avrebbe permesso di arrivare ad Aquitea prima di sera. Un pensiero confortevole, appena mitigato da quanto l'attendeva in città. Il giorno seguente cadeva la festa di Bartholomius e l’esposizione annuale delle reliquie attirava torme di pellegrini dall'intero circondario. Vecchi e giovani, ricchi e poveri, malati e sani: tutti s'accalcavano impazienti, in attesa d'una grazia che non veniva mai concessa. Insieme ai credenti, arrivavano torme di ciarlatani, mendicanti, ladri, meretrici e truffatori, pronti ad approfittare della grassa ricorrenza. Per non parlare dei predicatori di sventura, merce comune quando i tempi si facevano difficili. 

    Lord Dyvim inspirò a fondo. Non apprezzava affatto quel genere di eventi superstiziosi e viscerali. Come le credenze sui santi o sulle Cicatrici, li trovava distanti dalla vera Fede. La Festa, in realtà, giovava più all'economia ed alla fama d'Aquitea che allo spirito, ma questo non era certo un suo problema.

    Espirò, rilassando la muscolatura. Per certi versi poteva ritenersi fortunato: la città sarebbe stata solo una tappa informativa, il suo incarico non c’entrava con quanto vi accadeva. Scosse le spalle, quindi sistemò meglio la grande arma sulla schiena e si strinse nel manto zuppo, inutile, prima d'avanzare.

    Inginocchiato sul marmo lustro della cappella, Fulvius Ennon de Daanan pregava ed il freddo gli intorpidiva le ginocchia attraverso la veste color erba. La luce dei ceri trovava scarsi appigli sulle sue labbra delicate, sul naso diritto, sul caschetto di capelli biondo cenere, che gli dava l'aria fanciullesca d'un paggio di palazzo. Una falsa impressione: nonostante il ragazzo fosse magro ed ancora quasi imberbe, perché da poco entrato nell'età adulta, il suo corpo appariva già tornito a dovere dall'arte delle armi. Un accurato lavoro di cesello operato dai famosi addestratori dell'Accademia delle Lance d'Arnath. La migliore, nonché unica, scuola per aspiranti cavalieri dell'intero Principato. Soltanto nobili di comprovata fede weiblingen vi erano ammessi e Fulvius possedeva quei requisiti: suo padre era Lucius Firren de Daanan, Signore di Vanhar, un nome illustre al pari del casato, le cui origini sfumavano nella leggenda imperiale. Le tre torri dello stemma di famiglia spiccavano sull'anello d’oro che il ragazzo aveva al dito: Vittoria e Onore vi era scritto tutt'intorno, un motto urlato con orgoglio anche sotto i cupi cieli di Banestor.

    Un sommesso colpo di tosse distrasse il giovane, che si voltò di scatto, con malcelata irritazione. La funzione della sera era terminata, le porte esterne chiuse e la cattedrale ormai svuotata dai fedeli. I monaci auleriti avevano eseguito quelle operazioni, con la precisione tipica dell'Ordine e ben attenti a non fare il minimo rumore. Seguivano, infatti, una Regola del silenzio ferrea, consolidata dalla lunga pratica. Nessuno dei religiosi si sarebbe mai schiarito la gola per richiamare l'attenzione di qualcuno. 

    Lo sguardo di Fulvius Ennon lampeggiò di feroci chiaroscuri, trafiggendo lo scudiero Gwydion, fermo sulla soglia della cappella di San Bartholomius. Il servitore subito abbassò il capo con imbarazzo, intrecciando le mani dietro la schiena. Era più giovane del cavaliere di almeno cinque anni, bruno e scuro d'incarnato come gli abitanti delle Contee meridionali. Indossava brache e camicia d'ottima fattura, che nulla concedevano però all'eleganza, così come il fodero del pugnale legato alla cintura. Anche nei modi era dimesso, parlava poco e guardava il suolo più spesso dei presenti, roso dalla timidezza. Anonimo, nel complesso e fin troppo desideroso di mostrarlo. 

    Fulvius sbuffò, concedendo allo scudiero un brusco gesto di congedo. L'altro rispose con un mezzo inchino, affrettandosi a lasciare il luogo di preghiera. La postierla laterale venne chiusa e l'ultimo aulerita s'allontanò a passi lenti. Il novello cavaliere rimase quindi solo e poté rilassarsi.

    Gwydion era davvero troppo zelante, eppure in fondo non gli dispiaceva. L'aveva conosciuto in Accademia, quando gli era stato assegnato: veniva da Medeth, un borgo vicino ai domini dei Daanan e di lunga tradizione weiblingen. Il compagno aveva il grande pregio di ascoltarlo sempre e di contraddirlo assai di rado: anche quando lo faceva, era per cose di poco conto, oppure per questioni così importanti da meritare ulteriore riflessione. In entrambi i casi, il loro rapporto restava saldo. Perché Gwydion gli era fedele e l'avrebbe seguito anche nell'Annwyn, se fosse stato necessario. Questo valeva più d'ogni altra cosa per un eroe di sangue puro come il giovane Daanan aspirava a diventare. 

    Inspirò a fondo e chiuse gli occhi, tornando a concentrarsi sui doveri della veglia. L'odore di ceri spenti si mischiava a quello aromatico dell'incenso arso durante la celebrazione. La campana batté i tre tocchi della sera ed un colombo svolazzò attraverso la volta, turbando appena la meditazione del giovane Daanan. L’indomani sarebbe giunto presto e l’aspettava la cerimonia del passaggio della spada, seguita dal Primo Incarico. Un compito semplice ma di prestigio, preludio ad imprese ben maggiori.

    Sorrise. Poi, incapace di contenere l'eccitazione, riaprì le palpebre, incontrando il riverbero argenteo della teca sull’altare.

    Pentitevi! Pentitevi! La Fine dei Tempi incombe!! I Cancelli d'Ossidiana s'apriranno!! Pentitevi!!

    Il sermone rimbombò nella piazza, affollata dei fedeli appena usciti dell'ultima funzione. La pioggia era diminuita ed un circolo di persone s'era assembrato attorno al predicatore, evidentemente colpite dal suo roco gracchiare. Il vecchio indossava un saio consunto, sbiadito di fuliggine, scosso dal vento insieme ai superstiti capelli grigi. Il corpo spiccava magro, scheletrico, incavato, la pelle chiara tracciata d'azzurro e chiazzata d'efelidi. Gli occhi bianchi fissavano la folla con allucinata ossessione. L'uomo era cieco. Un contadino fece un volgare gesto scaramantico, una donna mormorò una preghiera al patrono d'Aquitea. Entrambi rimasero a guardare.

    L’ho visto!! Io l'ho visto!! Belaol, Signore dell’Annwyn, assiso su un trono di teschi in un mare di fiamme!! – gridò Astilus, indicando il cielo scuro con un dito ossuto. 

    Sembrava la raffigurazione della morte esposta sul campanile di Worth. Il tuono brontolò lontano, accompagnato dal mormorio della folla intimorita. La morsa terribile dell'inverno e le oscure apparizioni venute con la primavera donavano sostanza a quelli che, soltanto un anno prima, sarebbero stati presi per semplici deliri.

    L’ho visto!!! – incalzò ancora il predicatore con enfasi – Cavalcava un destriero di tenebra e la sua spada mieteva vite come la falce il grano!!"

    Un brivido attraversò i presenti, frusciando sotto i vestiti come brezza tra fitte fronde.

    Pentitevi! Soltanto i veri credenti si salveranno dall’Apocalisse di Sangue!! Lasciate i mali terreni!! Pentitevi!! Pentitevi!!

    Un ragazzo muto di appena sette anni s’aggirava a piedi nudi tra la folla. Sporco e vestito di cenci, smagrito da giorni di fame, tendeva sguardi umidi ai presenti come un cucciolo dimenticato. Si chiamava Niff ed aveva occhi immensi, al cui confronto svaniva il naso e gli altri minuti lineamenti. L'incarnato era l'olivastro delle remote regioni più a Sud di Thune: terre senza Legge racchiuse tra la Lacrima dei Monti, il Mare d’Ambra e quello della Perdizione, percorse da genti nomadi, barbari che ancora adoravano gli spiriti della terra. 

    Ciuffi di capelli corvini s'impennavano sulla testa del fanciullo, dandogli l'aria selvatica d'un istrice. La ciotola delle offerte gli spuntava quasi per caso dalle mani, stretta tra dita sudicie ed affusolate. Qualche spicciolo di bronzo tintinnò, cambiando proprietario: merce di scambio di paure o di chissà quali inconfessabili peccati.

    L’uomo sbirciava la strada dal fondo di un portone buio. Un occhio disattento l'avrebbe scambiato per un semplice viandante in cerca di riparo dalla pioggia. Un errore madornale. Weyland Wey faceva di mestiere il cacciatore ed era abituato alle intemperie. Non temeva di bagnarsi, anche perché il mantello di lontra e gli alti stivali che indossava sapevano resistere a climi ben peggiori. Inoltre, e questa era la cosa più difficile da notare, i suoi modi avevano qualcosa di furtivo. Di sospetto. Sembrava una faina intenta a sgraffignare uova.

    Il suo sguardo oltrepassava la via, scivolando attento sulla parete Est della cattedrale. Ne accarezzava sculture e guglie, sfiorando le gargoglie vomitanti acqua, per soffermarsi su di una vetrata a mezz'altezza, visibile soltanto per un pallido riverbero. L'esame di Wey era attento, minuzioso. Scandiva un percorso ben preciso, dal basso verso l'alto. Il cacciatore mormorava, seguendolo con gli occhi, quasi stesse memorizzando una lezione. Salire sul cipresso lanceolato fino al decoro di gigli stilizzati. Usare l’intercapedine dietro la statua di San Theodorus, l'eroe saltato in aria con Forte Destino per fermare la Grande Invasione oni. Saltare sulla finestrella ad arco acuto, dai vetri piombati giallo crema. Forzarla col pugnale e poi giù dall'altra parte, protetto dal tendaggio damascato nella cella di Santa Mohena. 

    Wey si grattò la barba, nera ed acuminata come cespugli di raevia. Aveva terminato l'ispezione. Tutto sembrava funzionare, ma restava pensieroso. La postierla laterale della chiesa distava appena quattro passi dalla cappella della santa e non aveva serrature, solo un chiavistello tirato dall'interno. Facile da raggiungere ed aprire senza far rumore: questo almeno in teoria...

    Passò il dorso della mano sulle ciglia, liberandole dall’umido. La pelle era scura per il sole e screpolata dal gelo di molti inverni trascorsi all'aperto. Il callo dell'arco spiccava tra gli altri per spessore e dimensione.

    Rapidità e silenzio erano gli elementi chiave del suo piano. Salire e scendere prima del giro delle guardie, per poi aprire la porta al complice e lasciare che si occupasse del cavaliere. Quest'ultimo era giovane, ma ben armato ed addestrato ad Arnath: non si sarebbe mai sognato di affrontarlo da solo. Per questo doveva stare tanto attento: nel silenzio della notte, il minimo rumore avrebbe potuto mettere in allarme il ragazzo, mandando in fumo settimane di preparativi, insieme ai suoi sogni sul futuro.

    Si strofinò ancora la barba, spruzzata d'argento come i capelli, in quel momento legati e raccolti sotto al cappuccio. Un singolo ciuffo corvino ricadeva sulla radice del naso, aggiungendo un'ombra di mistero al suo sguardo. Da quando faceva il cacciatore, Wey considerava la rasatura il rito di passaggio che accompagnava il ritorno alla civiltà. Quell'anno, però, l'aveva tralasciata di proposito, a memoria della pessima stagione passata. La peggiore della sua vita. Dopo mesi al gelo, tra predoni oni e lupi famelici, ne aveva ricavato un guadagno appena sufficiente per sopravvivere fino all’inverno successivo. Una sorte avversa condivisa da tutti i cacciatori della zona: gli animali sembravano scomparsi dai boschi sui Monti del Cappio, quasi fiutando un pericolo che gli umani non arrivavano a percepire.

    Scosse il capo, sollevando una nuvola di pulviscolo freddo. Non sapeva cosa li avesse fatti fuggire, ma, per quanto lo riguardava, la fatica di quella vana caccia era stata la goccia finale. Dopo dieci stagioni nei boschi s'era scoperto stanco. Stanco di una vita nomade, che si prolungava all’infinito negli anni. Presto ne avrebbe compiuti trentotto, se sua madre non aveva sbagliato a contarli, e non possedeva nulla oltre al fidato arco rhennan ed ai pochi stracci che indossava. Squattrinato. Come Thobby Thybbler. Il caro, vecchio Puzzola, morto di freddo in una tomba di neve mentre, a settant’anni suonati, inseguiva la sua ultima lince fuggitiva Una prospettiva sconfortante, che iniziava a spaventarlo.

    Strinse forte la collana che usava come talismano. Era fatta di zanne di lupo ed ognuna aveva una storia: lui stesso l'aveva scritta, abbattendo le belve a suon di frecce o di scure. Lo confortava sentirne l'avorio levigato sotto i polpastrelli. Gli ricordava quante volte la morte l'avesse sfiorato con i suoi artigli, perdendo la presa solo all'ultimo momento.

    Sbuffò. A dodici anni aveva lasciato il Confine e le sue prigioni, attraversando l’Arcidiocesi, per fermarsi, molti mesi dopo, nella Contea d’Olyr. Lì aveva provato altri mestieri, prima di mettersi a fare il cacciatore: garzone di falegname, panettiere ed infine guida ed esploratore militare al soldo del padre del Conte Angus. Nessuno gli aveva fruttato granché, solo obblighi e restrizioni: così era tornato indietro fino alla nativa Hesh, scegliendo la via della foresta. 

    Gli occhi di Wey mandarono un brillio, ripensando all'odore aromatico del vento ed allo scricchiolio di foglie accartocciate, nel bosco indorato dall'autunno. In città non si badava a cose simili. Anche nei villaggi, la gente aveva sempre altre faccende per la mente. Perfino i contadini seguivano i ritmi monotoni della terra e del lavoro. Vite sempre uguali, intervallate da una donna, una birra e poco altro. Vite chiuse, recintate. Strette dai vincoli dell'abitudine e della legge. La foresta, invece, prometteva la libertà del cervo, a cui nessuno chiedeva decime o impartiva ordini. Un'esistenza in cui ogni giorno era diverso, selvaggia e mutevole come le stagioni. Bella della bellezza dell'aurora o del tramonto. Eppure ancora non completa. 

    Il cacciatore sospirò di nuovo. Lui era un uomo ed aveva esigenze diverse di quelle di una fiera venuta dal folto. Poteva. Voleva. Doveva avere qualcosa di più. Qualcosa di meglio. Una fattoria. Una casetta con un orto, quattro capre, una mucca ed un maiale. Una moglie, perché no? E qualche marmocchio da strapazzare. Il tutto in qualche zona impervia della Marca, lontana dalle attenzioni degli esattori dei nobili o della Chiesa. Questo sognava per il suo futuro.

    L’idea era nata all’improvviso, in una sera glaciale sui Monti del Cappio, sotto il tetto fumoso del capanno di tronchi che ormai chiamava casa. A suggerirla, forse, era stata la stopposa zuppa di castoro che gli ribolliva davanti. In principio, l'idea l'aveva spaventato. Poi, pian piano, l’aveva cullata, soppesata, rielaborata, fino a trasformarla in un piano. Un progetto grandioso, pazzesco, che aveva atteso con impazienza d'attuare. 

    Ora il disgelo era arrivato, il tempo della Festa giunto: mancava soltanto il complice giusto, abbastanza sveglio da liquidare il novello cavaliere, non abbastanza da fare altrettanto con lui a lavoro finito.

    Lo stomaco di Wey mandò un brontolio, sotto il corpetto di cuoio e la logora veste color muschio. Lanciò un’ultima occhiata alla cattedrale, quindi sgattaiolò via senza far rumore. Con tutta la gentaglia accorsa ad Aquitea, non sarebbe stato difficile trovare un socio. 

    Per iniziare avrebbe provato al Corvo Ubriaco.

    Al Corvo Ubriaco il caldo era torrido, l’odore nauseabondo, i clienti accalcati come su carri d’appestati. Il sudore condensava, mischiandosi al fumo di torba e agli schiamazzi degli ubriachi, gocciolando giù dalle trecce d'aglio del soffitto, per tornare a condire i piatti colmi di stufato ed i boccali traboccanti birra scura.

    Gunther Hail ne sollevò uno pieno fino all’orlo, afferrando con l’altro braccio una formosa cameriera di passaggio. Lo chiamavano Flagello, per la sua passione nel mulinar le armi, ma, in quel momento, il suo aspetto era tutt'altro che marziale: sugo di cervo gli colava dal mento, ungendo ben bene il corpetto di piastre. Altre macchie e briciole di pane punteggiavano le maniche a sbuffo della veste rossa e azzurra. Sedeva sguaiato, con uno stivale sul tavolo e la sedia spinta indietro. Gli occhi brillavano più neri dei pozzi dell'Annwyn. Appoggiata al muro alle sue spalle stava un’alabarda uncinata di tipo voulge, su cui era stato gettato un cappellaccio a tesa larga, ingentilito da spruzzi di piume bianche, porpora e corvine.

    A Luthen e alla gloria! – ruggì Gunther, appioppando un sonoro bacio alla sua preda, per poi sciacquarsi i folti baffi nella birra schiumosa. 

    La fanciulla ne approfittò per divincolarsi, svanendo con un risolino tra la folla. L’uomo la fissò con sguardo vacuo, grattandosi con l'unghia dell'indice il gran naso, storto e spezzato in più d’una mischia.

    A Luthen e al Barone! – rispose al brindisi il compagno con cui condivideva il tavolo.

    I bicchieri cozzarono senza impedimento, cosa da non sottovalutare vista la grande differenza di statura che li separava. Drakken Jod era, infatti, un dwargh, tozzo al pari d'un barile: in piedi non arrivava neanche al torace di Flagello. Era la fama a far la differenza. Le locande, specie quelle malfamate, tenevano sempre sedili speciali per i dwargh: nessun oste sano di mente avrebbe mai osato mancar loro di rispetto, affibbiando un posto non all'altezza giusta. 

    Al soldo!! - ruggì Jod ancor più forte, scambiando il boccale vuoto con una costoletta di cinghiale.

    La mano libera scivolò lesta alla cintura, facendo tintinnare il borsellino gonfio di denaro. Un sorriso maledetto gli aprì la barba color fiamma, mostrando denti forti, intervallati da numerosi innesti d'oro. Gli stessi per cui lo chiamavano Spaccadenti. Un soprannome usato solo dai camerati e sempre con riguardo. Perché i dwargh erano orgogliosi ed avevano un carattere sanguigno. Chi voleva insultarli li chiamava nani e, di solito, ne usciva con le ossa rotte. I dwargh, infatti, erano combattenti eccezionali, capaci di resistere ai colpi più tremendi e privi del concetto di timore: le loro asce abbattevano con indifferenza oni selvaggi, giganti e perfino i grandi troll di pietra del Massiccio Baluardo. 

    Asce come quella che Jod teneva sempre a portata di mano: un'arma pesante, letale, a doppio taglio, capace di tranciare un uomo per il largo. In quel momento, occupava un buon quarto del tavolo, tra il piatto dell'arrosto e quello del bollito. La lama era tinta di rosso dal sugo degli intingoli. Sembrava appena rientrata da un campo di battaglia.

    Spaccadenti non contava di servirsene quella sera. D'altronde il suo aspetto era già abbastanza minaccioso, anche disarmato. Una cicatrice sfilacciata gli tagliava a metà il volto, piegandogli in giù la palpebra sinistra in una smorfia di perenne ferocia. L’orecchio opposto era un pugno di carne martoriata, mentre le braccia erano coperte di tatuaggi runici e disegni rituali. Vestiva in modo vistoso, esagerato, su toni di carminio ed arancio acceso. Di certo non passava inosservato e lo stesso poteva dirsi di Flagello. 

    Modi, abbigliamento, soprannomi ed arroganza li identificavano. Mercenari. Reduci della presa di Luthen. Il peggio che si potesse trovare ad Aquitea. I due si fissarono un istante, poi scoppiarono in una roca e sguaiatissima risata.

    A Luthen e al Barone!! Sia sempre benedetto il suo soldo!!

    Largo!! Largo bifolchi!! Via dalla piazza!!

    Le guardie irruppero d’improvviso tra la folla, facendosi strada con brutale efficienza. Mulinavano le aste delle corte alabarde per colpire ed azzoppare, aprendo la via ad una lettiga coperta: legno laccato imperlato di pioggia, con spesse cortine di velluto scarlatto, tirate per riparare gli occupanti dagli scrosci. La portavano quattro servitori stoici, dalla schiena piegata e la livrea chiazzata in modo irrimediabile dal fango. Sulla fiancata spiccava un intricato motivo di rose e di spade, simboli adottati da molti nobili weiblingen del Confine: doveva trattarsi del Signore di Hesh o forse Merath, in visita al Diacono per la Festa. La lettiga imboccò, infatti, il doppio arco della foresteria, subito a sinistra della cattedrale, sparendo nel buio con un ultimo sforzo. 

    Le

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