Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Bestie d'Italia - Volume 1
Bestie d'Italia - Volume 1
Bestie d'Italia - Volume 1
E-book220 pagine2 ore

Bestie d'Italia - Volume 1

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Lupomanaio, marabbecca, munacielli. 
Sono solo alcune delle creature fantastiche che popolano le regioni d’Italia. Escono dai grimori, balzano fuori dai ricordi dei nonni, protagoniste di storie e leggende che per secoli si sono tramandate di bocca in bocca, incrementando la ricchezza culturale della penisola.
Il progetto “Bestie d’Italia” parte da qui, dal recupero delle tradizioni folcloristiche italiane, per raccontarle a chi non le conosce, per guardare con occhi diversi il nostro territorio, pregno di storia, misteri e magia.
La prima tappa di questo viaggio nel folclore d’Italia ci porterà in Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, sulle tracce di lupi, draghi e mostri marini.

Il volume 1 di “Bestie d’Italia” contiene dieci racconti di scrittori italiani, appassionati di fantastico e folclore.
Lupomanaio, di Marco Bertoli
Il pozzo, di Gianluca Malato
Anime nella bufera, di Alessio Del Debbio
Jackie Chan contro Dracula, di Mala Spina
Nella bocca del dragone, di Giuseppe Chiodi
Ambrosia, di Elena Mandolini
L’illusione di Morgana, di Giuseppe Gallato
Le figlie della lupa, di Alessandra Leonardi
Il mistero di Atlanta, di Daniela Tresconi
La Mala Grotta, di Monica Serra

Copertina e illustrazioni interne a cura di Marco Pennacchietti.

L’immensa parete di pietra mostra un’apertura. Ci nuoto attraverso e risalgo lungo un canale.
L’ansito della bestia scuote la volta.
Il drago è lì che si lamenta, attorcigliato su una pila di gioielli e monete d’oro: il favoleggiato tesoro dei Visigoti.
Dammi la forza, Hirpus, lupo sacro! Sostienimi, Mefite, Dea delle acque!

 
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2019
ISBN9788831910163
Bestie d'Italia - Volume 1

Leggi altro di Autori Vari

Correlato a Bestie d'Italia - Volume 1

Ebook correlati

Fiabe e folklore per bambini per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Bestie d'Italia - Volume 1

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Bestie d'Italia - Volume 1 - autori vari

    casuale.

    INTRODUZIONE

    Lupomanaio, marabbecca, munacielli. Quante creature fantastiche conosciamo? Di quante creature misteriose i nostri nonni ci hanno raccontato la storia, facendone spauracchi per impedirci di scendere in un pozzo o di addentrarci in qualche bosco, passato il tramonto? Tante, troppe, eppure mai abbastanza per soddisfare il nostro animo di avventurieri sognatori.

    Poeti, navigatori, santi. Siamo un popolo dai molti nomi, non sempre lusinghieri, ma siamo anche ricchi di storie, di miti, di tradizioni folcloristiche e leggende, di tutta quella cultura popolare che ha fatto la Storia d’Italia e dei suoi abitanti e che tendiamo con troppa facilità a dimenticare, per uniformarci al pensiero corrente.

    Il progetto Bestie d’Italia nasce proprio da qua, dal recupero delle tradizioni popolari del nostro Paese, delle storie che venivano narrate attorno al fuoco, per spaventare o far divertire i bambini, delle credenze a lungo diffuse in tutte le regioni italiane. Regioni diverse, a volte lontane e rivali, eppure così simili, così vicine nel mondo dell’immaginario.

    E proprio da quel mondo arrivano le creature che popolano le pagine di questo volume, e degli altri che seguiranno: i draghi, i lupi mannari, i dispettosi folletti che si nascondono negli antri e nei boschi della nostra penisola e che contribuiscono a renderla più viva, più vitale. Più vera.

    La prima tappa di questo viaggio nel folclore italiano inizia dalle regioni che si affacciano sul Mar Tirreno, dove riposano draghi millenari, mostri acquatici e creature fatte di oscurità.

    Dieci scrittori ci hanno fatto dono del loro talento e della loro creatività, per portarci per mano in borghi antichi e caverne sotterranee, luna-park infestati e discariche che celano pericoli peggiori dei rifiuti. Ognuno con la propria voce, ognuno con la propria sensibilità. Ognuno con il suo approccio al fantastico.

    Dieci scrittori per dieci storie, per dare vita alle creature del folclore italiano, per raccontarle a chi non le conosce, o le ha dimenticate, per guardare con occhi diversi il nostro territorio, pregno di storia, misteri e magia.

    Buon viaggio, amici lettori. Chissà che anche voi, terminata la lettura, non possiate imbattervi nel buffardello o in una sirena…

    Alessio Del Debbio

    Presidente Nati per scrivere

    LUPOMANAIO

    Marco Bertoli

    Lunigiana, alba dei tempi.

    Il vecchio è immobile al centro del cerchio di statue stele. Le figure antropomorfe scolpite in lastre di arenaria grigia marcano il contorno della radura che asce di bronzo hanno ritagliato nel bosco di cerri e carpini. Come unico abbigliamento, indossa un perizoma di cuoio conciato e un copricapo in pelliccia marrone, da cui spuntano ciocche di capelli candidi che coprono le orecchie e cadono sulle spalle. Una collana di conchiglie, zampetti di lepre e artigli di orso gli ciondola sul torace. La pelle sopra le costole in rilievo è affrescata da un reticolo di linee rosse, gialle e turchine.

    I pittogrammi riproducono il suo nome: Bèlula, La donnola, e il rango che occupa fra la sua gente: Òmon de malòtc, L’uomo a cui sussurrano gli dei. Nelle mani deformate dall’artrite regge i doni che i figli offrono al padre in segno di gratitudine: una scodella di acqua sorgiva e una ciotola colma di semi di grano tostato.

    Chiamandole una a una con rispetto, l’anziano sacerdote scivola con lo sguardo sopra le creste delle montagne che cingono il fianco opposto della vallata nelle cui profondità si agita la nebbia. Nonostante un pallido disco lunare sia ancora visibile al confine del panorama, il chiarore oltre le cime annuncia il prossimo sorgere del sole. Appena appare il primo scintillio della divinità, Bèlula solleva le braccia sopra la testa e con le labbra intona una preghiera.

    La melodia alterna parole di ringraziamento per il nuovo giorno a suppliche in favore dei vivi e degli antenati, le cui urne cinerarie sono sepolte sotto di lui.

    Immerso nella celebrazione del rituale, l’Òmon de malòtc non si accorge del fruscio alle sue spalle, un flebile rumore di passi sovrastato dal canto degli uccelli e dallo stormire delle foglie smosse dalla brezza del mattino. È il rizzarsi istintivo dei peli sulla nuca ad avvertirlo che non è più solo a calpestare il luogo sacro. Più stizzito che preoccupato, rallenta il salmodiare della litania, ma non ha il tempo di girarsi per scoprire chi ha osato profanare la cerimonia di saluto al nume. Una lama triangolare di rame gli si conficca in mezzo alle scapole. La cuspide affilata trapassa la carne e incide le ossa fino a bucare il cuore.

    La daga piantata nella schiena, L’uomo a cui sussurrano gli dei si affloscia senza un gemito sull’erba e sulle corolle chiuse dei fiori che spuntano dal terreno. Il suo sangue si mescola alle gocce della rugiada mattutina.

    Con gli occhi velati dalle ombre della morte, lo sciamano cerca il volto del suo assassino. Nel riconoscere i lineamenti consumati dall’invidia del suo discepolo, gli punta contro un dito adunco e rantola: «Che l’Immenso padre ti maledica per sempre a causa del sacrilegio che hai perpetrato, Al Lòu. Invoco la sua punizione su di te e i discendenti maschi dei tuoi lombi. Da lupo ti sei comportato e lupi diventerete tu e la tua stirpe. Quando la Dea di ghiaccio apparirà nel suo pieno fulgore e la nebbia celerà la Grande madre, muterete di aspetto: di uomini sarà il vostro camminare, ma di bestie selvagge avrete le sembianze e le passioni. In voi ringhierà la ferocia, ma ululerete al vento la vostra disperazione! Nessuna arma potrà uccidervi e tutti vi temeranno, eppure avrete timore delle altezze. Ansémal bajuchi cgnossù armusnèr mez can…».

    «Zitto!» strilla l’omicida balzando in avanti per troncare il flusso di quelle parole dal suono minaccioso. È troppo tardi. Mentre la voce di Bèlula sfuma in un gorgoglio di bava scarlatta, Al Lòu sente con orrore una zanna di gelo sbranargli il petto.

    Urlando di terrore, fugge via.

    *

    Vicinanze di Pontremoli, 1 settembre 1167.

    La notte era scesa sull’imbocco della valle scalpellata con millenaria pazienza dalla Magra insieme alla corte degli altrettanto impetuosi e canterini vassalli. Nel lento distendere il suo mantello color giaietto, dapprima si era bagnata nelle acque del fiume e degli affluenti, inducendo trote, barbi e cavedani a cercare rifugio nelle tane lungo le rive. Lasciando dietro di sé viticci di nebbia, era poi risalita su per i greti. Scivolando sopra un amalgama di ciottoli grigiastri e sabbia grossolana, aveva raggiunto da un lato la piana che bordava la sponda occidentale del torrente Verde, dall’altro un basso sperone di roccia, l’ultima propaggine dell’Appennino.

    Sul tavoliere erboso, picchiettato da cespugli irti di spine e boschetti, aveva ricoperto i padiglioni variopinti e gli stendardi delle truppe che stavano cingendo d’assedio Pontremoli, raccogliendo imprecazioni e lamenti espressi in un idioma dai toni gutturali. Sul contrafforte di pietra, invece, aveva scavalcato le mura e le torri del paese sotto attacco, ricevendo in cambio i sospiri di sollievo di quanti erano scampati ai combattimenti del pomeriggio.

    Nel suo silenzioso intrufolarsi nei sorchetti del borgo, aveva aizzato lo sbattere dei portoni incisi nelle facciate delle costruzioni.

    Viuzza in ascesa dopo viuzza, era quindi arrivata al Piagnaro, il castello che costituiva l’estremo baluardo a difesa degli abitanti e dei loro beni. Celato alla vista il fondovalle, si era inerpicata sulle pendici dei monti, nascondendo nel suo procedere campi coltivati e vigneti, foreste di castagni e querce, prati e rupi spoglie.

    Abbracciate per ultime le vette del Burello, del Molinatico, dell’Orsajo e del loro numeroso parentado, la notte era infine tracimata sino al confine dell’orizzonte, tessendo il suo arazzo di tenebre trapuntato di stelle. Alla sommità di quel drappo aveva ricamato la luna. Il volto paffuto ricordava quello di un mercante perso nella soddisfatta contemplazione di un forziere colmo di gioielli e monete d’oro.

    Sebbene elargito con disinteressata prodigalità, neppure una bava di chiarore argenteo riusciva a penetrare nel casolare isolato eretto al margine di una macchia di alberi cresciuti accanto all’alveo di un ruscello. Un impasto di paglia e fango, infatti, era stato pressato in ogni crepa delle pareti e nel minimo spiraglio rimasto fra le piatte tegole del tetto, così da sigillarli. La pignoleria con cui era stato eseguito il lavoro non era dovuta, però, all’orgoglio professionale di un muratore, ma al tormento che straziava l’animo di chi viveva dentro quelle mura di pietre sbozzate. La medesima angoscia lo aveva spronato a tappare con tende pesanti il vano della porta, rinserrata dal chiavistello, e quello della finestra, sbarrato dalle imposte. Come suprema armatura, si era disteso sul giaciglio di strame gettato in un angolo dell’unica stanza dell’edificio e infilato sotto una spessa coltre di lana, coprendosi da capo a piedi.

    Nonostante si fosse circondato con un buio più consistente di una pattona rafferma e scuro almeno quanto una confettura di more, Buonfancello non poteva cancellare la consapevolezza che l’astro maligno stava brillando fuori dal suo rifugio.

    Con gli occhi della mente lo vedeva penzolare a una spanna dalla sua testa, ghignante come il teschio di un impiccato. Ne udiva il bisbiglio ammaliatore, simile al sussurro della vipera che incanta il passerotto prima di avvelenarlo. Riusciva persino a fiutare il tanfo di cadavere marcio che si spandeva nell’aria attorno a lui, sovrapponendosi al sapore acido del suo sudore.

    «Santa Vergine immacolata, abbi pietà di me! Signore Gesù, perdonami! Misericordia, madre di Dio! Eletti del Paradiso, salvatemi!» era il rosario d’invocazioni che sgorgava senza sosta dalla bocca del giovane, intercalandosi agli scricchiolii della mandibola.

    La gola inaridita per l’ansia che lo dilaniava, raggomitolò il corpo nudo e spigoloso di ventenne ancor più su se stesso. Rinserrò le braccia sullo sterno e portò le ginocchia a sfiorare il mento in un tentativo di opporsi ai brividi che gli facevano battere i denti. Non era il freddo a scatenare quei tremori inconsulti, bensì il prepotente appello della luna che assaliva con pervicacia l’esterno del suo riparo. Né stoffa, né legno, né roccia erano in grado di fermare quel muto richiamo. Né lui di resistergli.

    Lo sentiva zampettargli sulla pelle e morderlo a sangue come un esercito di migliaia di formiche infuriate. Entrargli dentro e rodergli le carni con l’avidità di un nugolo di ratti a digiuno. Penetrarlo sempre più a fondo nelle viscere, spietato quanto le pinze incandescenti del boia. Il tempo ancora di pochi respiri affannati e avrebbe raggiunto quel nodo in cui la coscienza s’innesta nel midollo delle ossa. Il punto dove il soffio del Creatore ha instillato lo spirito immortale e distinto l’uomo dalla bestia.

    «No! Madonnina, ti scongiuro, aiutami!» piagnucolò Buonfancello, avvertendo l’approssimarsi inarrestabile della trasformazione. L’attimo successivo una fitta lancinante lo trapassò alla base della nuca fondendogli il senno.

    Un verso animalesco interruppe per un attimo la giaculatoria di suppliche e il giovane s’incurvò all’indietro come un arco caricato per scoccare.

    «Pietà! Pietà! Pietà!» ripeté non appena gli fu possibile riprendere fiato e articolare un filo di voce.

    Con uno sforzo di volontà, allentò i pugni chiusi a conchiglia. Mosse le dita della destra e le aggrappò attorno al manico della lesina che aveva al fianco. Sollevò l’attrezzo e conficcò la punta ritorta nel palmo dell’altra mano. Il lamento per il taglio fu infranto da uno spasmo così violento e prolungato che lo costrinse a mordersi la lingua per la sofferenza.

    È tutto inutile. Non c’è modo di spezzare le catene della maledizione che perseguita la nostra famiglia, fu il pensiero che gli saettò nella mente, accompagnato dall’impulso di gridare al mondo il proprio scoramento. È solo una favola che un nostro avo ci sia riuscito ferendosi in questo modo. O forse è accaduto sul serio, ma solo per torturarci con la speranza di una liberazione che non capiterà mai più. Sono condannato, come mio padre e mio nonno prima di lui.

    Un’ennesima stilettata gli squarciò il cranio sciogliendogli le meningi. «Basta!» strillò con l’ultimo brandello di umanità rimastogli, poi si arrese al suo destino e precipitò nell’abisso.

    Preda senza scampo di una furia belluina, gettò via la coperta e con un ringhio balzò fuori dal giaciglio. Nel silenzio percepì sul corpo il fiorire di setole che lo rivestirono con una folta pelliccia dalle sfumature corvine. L’irrobustirsi in fasci della muscolatura delle braccia e delle gambe. L’allungarsi in artigli ricurvi delle unghie delle mani e dei piedi. Il deformarsi dei lineamenti del viso, sino ad assumere le fattezze di un grifo feroce nelle cui orbite scintillavano iridi gialle. Il crescere in zanne dei canini e dei loro compagni. L’aguzzarsi dei padiglioni auricolari e l’appiattirsi del naso.

    Uno schiocco da ramo troncato di netto pose termine alla metamorfosi subita da Buonfancello.

    La creatura appena sbocciata rimase immobile per qualche istante. La coda sferzava nervosa contro il retro delle cosce mentre gustava la forza soprannaturale che le scorreva nelle vene. Poi la fame prese il sopravvento.

    Con una zampata scaraventò sul pavimento in terra battuta la tenda che nascondeva l’ingresso del casolare. Con un calcio sfondò la porta di legno massiccio, lanciando l’uscio lontano per una quindicina di passi, neanche fosse stato un foglio di carta pergamena.

    Non appena all’aperto, i suoi sensi sviluppati furono assaliti da una fiumana di sollecitazioni. Gli occhi avvistarono il movimento di un topolino che sgattaiolava rapido sotto le fronde di un cespuglio. Le orecchie percepirono il frusciare del volo di una falena e del pipistrello che la inseguiva. Le piante dei piedi apprezzarono la morbidezza del suolo e le vibrazioni prodotte da un lombrico intento alla sua opera di scavo. Le narici assaporarono con voluttà lo stuzzicante profumo di una moltitudine di prede a due gambe a non molta distanza. Lo stomaco che gorgogliava compiaciuto per quella scoperta, sollevò lo sguardo verso il cielo. Il bagliore dei raggi di luna disegnò una sagoma in cui la primitiva forma umana e le attuali sembianze di lupo si fondevano in un essere dall’aspetto spaventoso. Le pupille

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1