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Sì, sì New York!: La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo
Sì, sì New York!: La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo
Sì, sì New York!: La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo
E-book404 pagine3 ore

Sì, sì New York!: La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo

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Info su questo ebook

Mi commuovo anch'io, perché mi rendo conto che quelli che ce la fanno possono essere dieci, cento, mille su mille se, come scrive Lisa, riescono a sfruttare al massimo ciò che incontrano sul loro cammino.
Per questo vorrei che ognuno di voi, leggendola, possa comprendere che c'è sempre una possibilità per riemergere anche se può sembrare dura, e bisogna lottare, perché ne vale sempre la pena.
Se sei a terra, non strisciare mai. Se ti diranno "sei finito", non ci credere.
Dalla prefazione di Gianni Morandi
LinguaItaliano
Data di uscita19 giu 2015
ISBN9788899091439
Sì, sì New York!: La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo

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    Anteprima del libro

    Sì, sì New York! - Lisa Festa

    Sì, sì, New York!

    La mia storia dalla sedia a rotelle alla maratona più famosa del mondo

    di Lisa Festa

    Panda Edizioni

    ISBN 9788899091439

    ©2015 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Dedicato a Nino Basaglia e Donatella Marchetti.

    Grazie a loro esisto ancora.

    Dedicato a New York e Miami, ingredienti essenziali della mia torta preferita: la Vita!

    Dedicato al Giampo mio caro amico. Senza di lui questo libro non sarebbe mai stato scritto.

    "Quando non potrai più correre, cammina veloce.

    Quando non potrai più camminare veloce, cammina.

    Quando non potrai camminare usa il bastone.

    Però non rinunciare mai a vivere."

    Madre Teresa di Calcutta

    PREFAZIONE

    È il 4 aprile 2008. Il concerto di Milano è appena finito e sono veramente stanco. È una delle prime date del tour e, tra interviste e promozioni, le mie giornate sono veramente congestionate.

    Rientrando nel mio camper trovo sul tavolo numerosi regali che i fans riescono in qualche modo a farmi avere, per testimoniarmi il loro affetto.

    Tra questi c’è un libro dal titolo un po’ strano: Sì, no, Miami.

    L’angolo di una pagina è piegato: un chiaro invito a leggere proprio in quel punto.

    Voglio capirne il motivo e così lo apro. La mia attenzione cade immediatamente su alcune parole scritte in grande, che costituiscono il titolo di un capitolo: UNA SU MILLE.

    Non c’è dubbio, è un riferimento a una mia canzone, non una qualunque, ma quella a cui sono più affezionato.

    La cosa mi incuriosisce e chiedo ad Alessio, un mio collaboratore, se ne sa qualcosa.

    Lui mi spiega che a donarmelo è stata una ragazza di nome Lisa, incontrata all’ingresso del teatro tenda qualche minuto prima del concerto.

    Lisa gli ha raccontato che cinque anni prima un grave ictus cerebrale l’aveva resa afasica, ma riuscì a recuperare l’uso della parola ascoltando in continuazione le mie canzoni e ripensando a quando lei, bambina, le cantava insieme a sua madre.

    Quasi per miracolo, le parole si fecero largo tra le pieghe della sua memoria compromessa, ritornando a galla lentamente, fino a essere presenti come un tempo.

    È incredibile cosa possano fare le canzoni!

    Quando noi cantanti le interpretiamo sappiamo di trasmettere emozioni, ma ciò che sfugge completamente alla nostra consapevolezza è quanto sorprendenti possano essere i loro effetti nella vita di chi le ascolta e quando per caso, come in questa circostanza, ne veniamo a conoscenza, spesso ne rimaniamo sorpresi e meravigliati, perché una canzone vive di vita propria ed è impossibile sapere in quale modo arriverà al cuore di chi la ascolta e in che misura inciderà nella sua esistenza.

    La storia di Lisa mi rimane impressa nella mente e mi riprometto di leggere il suo libro il prima possibile.

    I giorni passano freneticamente. Arriva il 18 aprile, ultima data del ciclo di concerti milanesi.

    Sono già sceso dal palco e intorno a me c’è la solita folla che mi aspetta per ricevere un autografo, una stretta di mano o un semplice saluto.

    Sto per allontanarmi attraverso lo stretto corridoio aperto dai ragazzi della security quando, tra il pubblico, incrocio due occhi di ragazza; è uno sguardo solare e sorridente, che trasmette gioia di vivere.

    Non ho mai visto quella giovane, eppure mi sembra di conoscerla.

    Lei cerca di attirare in qualche modo la mia attenzione: «Ciao, Gianni! Sono Lisa Festa, quella del libro!».

    Mi fermo per scambiare due parole e le prometto un incontro più tranquillo, qualche giorno dopo a Udine, dove proseguirà la mia tournée.

    Nel frattempo comincio a leggere il suo libro.

    È la storia di una ragazza di vent’anni che ama l’America e desidera diventare una bravissima attrice, ma, una sera come tante altre, un ictus spazza via tutti i suoi sogni.

    Lisa non si perde d’animo e con tanta forza di volontà, un po’ di fortuna e l’affetto della sua famiglia, riesce a trovare nuovi stimoli e nuove motivazioni per tornare a una vita soddisfacente.

    È sorprendente come, leggendo quelle pagine, io abbia la sensazione di essere amico di Lisa da sempre. Mi sento uno di famiglia e mi vedo insieme al papà Enrico, alla mamma Giovanna e alla sorella Laura a passare piacevoli serate intorno a un tavolo all’ora di cena.

    Il 9 maggio canto a Udine e Alessio mi ricorda che alla fine del concerto devo incontrare Lisa.

    È quasi mezzanotte quando arriva nel mio camper, accompagnata dalla sorella Laura.

    La faccio attendere qualche minuto e intanto la sento chiacchierare e ridere assieme ai miei collaboratori.

    Penso: Proprio forte, Lisa!

    Arrivo in tuta da ginnastica, e mi siedo di fronte a lei:

    «Ciao, allora cosa mi dici? Dov’è la mamma? Se non sbaglio, aveva un debole per me!»

    «Purtroppo, oggi non è venuta!» ed è così che Lisa inizia a raccontare, ringraziandomi per essere riuscita a parlare grazie alle mie canzoni e per aver ricevuto la forza di lottare ascoltando Uno su mille, la mia canzone preferita che adesso è anche la sua… l’inno ufficiale della sua vita.

    Si ricorda che, quando era ancora una bambina, durante un concerto in un teatro veneto le avevo accarezzato la testa mentre facevo l’autografo alla madre, e quando, da ragazza, durante uno stage di ricevimento a Cusago, mi aveva fatto il check in in hotel.

    Io, ovviamente, non ricordo quegli episodi, ma rimango un po’ sorpreso da come le nostre vite si siano incrociate così tante volte.

    Mi racconta del successo che ha avuto con Sì, No, Miami e dei programmi televisivi a cui ha partecipato.

    Mi parla della sua salute: che è stata da poco operata al cuore, che ha perso l’uso del braccio e della mano destra, che le manca l’estensione delle dita, che non riesce più a correre e che non può più indossare gli amatissimi tacchi a spillo.

    Poi mi dice che ha in mente un progetto un po’ folle: vuole partecipare alla maratona di New York, perché desidera lanciare un messaggio a tutti coloro ai quali la vita ha riservato prove apparentemente insuperabili, perché non bisogna mollare mai!

    Così la mente corre alla mia prima maratona, proprio a New York, nel 1998.

    Ho sempre pensato che la maratona rappresenti la metafora della vita: all’inizio, quando parti, ti senti forte, fresco, pieno di energia e sei fiducioso di arrivare al traguardo, poi, strada facendo, arrivano le difficoltà, e cominci a dubitare di potercela fare. È in quel momento che devi dare il meglio di te e così ha fatto Lisa, quando è ritornata a camminare nonostante le avessero detto che non ci sarebbe mai riuscita.

    La sento molto vicina, che tenerezza!

    Lisa, con gli occhi lucidi, mi abbraccia e, prima di andarsene, mi sussurra in un orecchio: «Gianni, mi piace quando canti Uno su mille perché ti rispecchia, ma rispecchia anche me!».

    Mi commuovo anch’io, perché mi rendo conto che quelli che ce la fanno possono essere dieci, cento, mille su mille se, come scrive Lisa, riescono a sfruttare al massimo ciò che incontrano sul loro cammino.

    Per questo vorrei che ognuno di voi, leggendola, possa comprendere che c’è sempre una possibilità per riemergere anche se può sembrare dura, e bisogna lottare, perché ne vale sempre la pena.

    Se sei a terra, non strisciare mai. Se ti diranno sei finito, non ci credere.

    Gianni Morandi

    LA GRANDE MELA

    È una giornata di sole nel grande parco che profuma di primavera. Il verde dei prati è punteggiato da bianche margherite, sparse in un armonioso disordine.

    Sono in compagnia di molte persone che palesano le età più svariate ma, come me, non sembrano volerne saperne di diventare grandi.

    Spensierati come bambini, giochiamo tenendoci per mano, formando un grande cerchio.

    Parliamo tutti quanti in inglese, non quello sobrio e compito che si parla in Inghilterra, ma quello pastoso, rotondo e simpatico tipico degli Stati Uniti.

    Non possono esserci dubbi: ci troviamo nella mia amata America!

    Cantiamo un ritornello allegro, poropo po po po pooooo, poropooo poo po pooo, mentre giriamo attorno a un immenso albero dalle foglie ovali e frastagliate.

    A un certo punto cade una grande e bella mela rossa, che sembra lucidata apposta con lo spray.

    Rimaniamo alquanto stupiti perché sull’albero non sembrano esserci altri frutti, oltre a quello caduto.

    Un tipo prende il frutto e lo lega dalla parte del picciolo con uno spago che teneva dentro la tasca dei pantaloni.

    Lo appende a un ramo dell’albero e, rivolgendosi a me dice: «Lisa, come here and try to eating this big apple

    «Ma che sta succedendo, ostregheta?» dico con sorpresa.

    Non riesco a capire perché ce l’ha con me.

    Guardo gli altri nella speranza di carpire un gesto, un ammiccamento, un segnale qualsiasi che mi indichi la cosa giusta da fare, ma, tutti sorridenti, quasi complici, urlano in coro:

    «Come on Lisa, just try

    Mi metto sotto l’albero, di fronte a quella bella mela rossa che si faceva mangiare con gli occhi e la fisso, cercando in essa gli occhi di quella dottoressa che, qualche anno prima, quando ero nel letto di un ospedale, mi dava per spacciata:

    «Accetto la sfida! Ora ti mangio io, big apple

    Provo a morderla, ma il primo tentativo va a vuoto. Riprovo due, tre volte, mentre tutti intorno mi incitano ad alta voce:

    «Lisa! Lisa! Lisa!».

    Ma c’è anche mia sorella! Sento la sua voce!

    «Lisa! Lisa!».

    «Svegliati, Lisa, è ora di alzarti!»

    Cavoli! Era un sogno!

    Sembrava tutto vero: io, nel parco, in compagnia di amici americani, che provavo a mangiare una mela, una grande mela...

    Che sogno strano! Lo racconto subito a Laura, la mia amata sorellona alla quale dico proprio tutto, pure le volte che vado a fare un fax in bagno.

    Quel sogno mi richiamava alla mente l’America, e la presenza di una grande mela non poteva che ricordarmi New York!

    UN’AMICIZIA NATA IN RADIO

    Ho conosciuto il Giampo in una circostanza un po’ rocambolesca. Era il mese di marzo del 2006, lui stava organizzando un convegno a Mantova sul rapporto medico-paziente.

    Una settimana prima dell’evento, ascoltando la radio, sentì una mia intervista, nel corso della quale la conduttrice del programma lesse una pagina del libro che avevo appena pubblicato: Sì, no, Miami.

    Descrivevo la mortificazione che avevo subito ascoltando le parole di una fisiatra che, di fronte al letto dove giacevo in coma vigile, noncurante del fatto che, pur non potendo comunicare, capivo tutto, e fregandosene del dolore che sapeva di darmi, proferiva crude sentenze sul mio futuro.

    Quel brano lo colpì tantissimo perché sembrava la testimonianza ideale per gli argomenti che sarebbero stati trattati nel corso dell’evento che stava realizzando.

    Il caso volle che il Giampo conoscesse la giornalista che mi stava intervistando e non gli fu difficile contattarla per farsi dare il mio recapito telefonico.

    Mi chiama e mi invita a partecipare al convegno.

    Ci siamo incontrati per la prima volta a Mantova, il 26 marzo del 2006, e da quel giorno siamo diventati amici inseparabili, come Batman e Robin o, più verosimilmente, come Stanlio e Ollio!

    Purtroppo ci incontriamo di rado, a causa della distanza e dei nostri impegni, ma quelle poche volte che ci vediamo, mi diverto a parlargli della mia passione per l’America, a raccontargli della mia vita prima dell’ictus e di quando ero a Miami, la città che amo più di ogni altra e che ho sempre sognato sin da quando la vedevo solo nei film.

    Gli dico sempre le solite cose, che a Miami vivevo con nove dollari al giorno, che mi davo da fare facendo la spazzina in barca, la cameriera nei ristoranti o l’imbianchina negli appartamenti extralusso di South Beach. Ogni tanto mi scappa qualche cenno su quello che facevo quando non lavoravo, ma lui mi blocca subito: preferisce non sapere dei disastri che combinavo!

    Gli faccio una testa così con le canzoni di Madonna, rammaricandomi del fatto che non sono mai riuscita ad assistere a qualche concerto americano, ma lui non mi capisce... È un fanatico dei Pooh.

    Un giorno mi ha chiesto: «Ma non sei più andata a Miami dopo i tre mesi estivi di cui racconti nel libro?».

    In effetti, c’ero stata, qualche mese prima dell’ictus, ma solo per una settimana, per salutare gli amici di South Beach.

    Provenivo da New York, dove avevo trascorso un mese di vacanza, che credo valga la pena di ricordare...

    MIAMI, FINE ESTATE 2002

    L’estate trascorsa a Miami sta per finire. Mancano solo tre giorni, poi si torna a casa.

    Io e mia sorella Laura stiamo tornando dalla spiaggia. Perdiamo sabbia un po’ dappertutto, pure dalle orecchie! Entriamo nella hall del nostro residence e prendiamo l’ascensore.

    Stanno per chiudersi le porte, quando entra un ragazzo. Non faccio molto caso a lui, perché sono intenta a togliermi dalle ciabatte e dalle caviglie l’appiccicosa sabbia dell’oceano.

    A un certo punto mia sorella mi stringe il gomito: è il nostro segnale convenzionale di quando vediamo qualcuno che reputiamo interessante.

    Alzo subito lo sguardo e vedo di fronte a noi un bel moro.

    «Hallo» dice lui.

    Noi rispondiamo: «hi».

    "Hi si pronuncia hai", come quando ci si fa male... Un dolore piacevole per i nostri occhi!

    Lo osservo bene: alto, muscoloso, con un po’ di pancia, i lineamenti marcati e molti tatuaggi bene in vista. Veste con infradito, pantaloncini hawaiani, maglietta gialla con ideogrammi giapponesi.

    Il mio sguardo è attratto dal suo volto di bello e dannato: labbra carnose e lunghe, occhi piccoli ma incisivi, di un marrone che ti incute i brividi quando incroci la sua espressione da tremendo sexy sbandato.

    Io guardo subito mia sorella e lei sorride vedendo la mia faccia stranita dalle smorfie di compiacimento per il tipo che abbiamo vicino.

    Troppo vicino, da mangiare con gli occhi!

    Spezzo il silenzio con un grosso e grasso: «Domandameo!» mentre Laura sghignazza ancor di più.

    Per fortuna ho gli occhiali da sole, che mi consentono di scrutarlo in ogni minimo dettaglio. Al dito medio della mano destra porta un anello in stile egizio, raffigurante un geco, ma a me interessa se porta la fede all’anulare sinistro, e non c’è nulla!

    Scorgo un tatuaggio che mi dà da pensare: "I love Maria".

    «O ama una certa donna di nome Maria, o è un devoto di Maria madre di Dio, o è un estimatore della maria, intesa come marijuana... più probabile!».

    All’interno del gomito un’altra scritta di un blu intenso molto lunga che arriva fino all’ascella.

    Sembra un tatuaggio recente.

    È in latino, e data la mia abissale ignoranza della lingua dei nostri padri, non riesco a capire.

    Intravedo un "semel in anno... , e scorgo l’ultima parola, mundi".

    Uff! Le uniche frasi in latino che conosco sono: "mens sana in corpore sano e cogito ergo sum"!

    Sul collo, dalla parte destra, sono evidenti tre lettere in caratteri gotici: God.

    Ci sono più scritte sulla sua pelle che sponsor sulla tuta di Schumacher, ma quel "God, Dio", mi dà l’illusione che, sebbene l’aspetto non sia particolarmente rassicurante, deve esserci una certa bontà d’animo, in fondo. Osservo le gambe e noto, sul collo del piede destro, un bel sole fatto di sette raggi con all’interno uno smile.

    Come può piacermi un tipo così? È super tatuato e io odio i tatuaggi e, presumibilmente, è tossicodipendente, e io odio la droga.

    Però, ha una cosa che lo rende veramente speciale: si trova nel posto giusto al momento giusto!

    Il belloccio super tatuato e super interessante ascolta i commenti che io e mia sorella facciamo in dialetto su di lui: «Ma quanto figo xéo 'sto qua?» diceva Laura, e io ripetevo: «Sì sì, proprio da domandameo! A parte i tatuaggi, però. Proprio un gran figon ciò!».

    Quando stiamo all’estero ci divertiamo a parlare la nostra lingua perché siamo convinte che nessuno ci possa capire. E invece... Tiè! ecco che lui, a un certo punto, esclama simpaticamente: «Di che parte del veneto siete? Veneziane, trevigiane o padovane?».

    Io guardo Laura che, diventata tutta rossa, ricambia il mio sguardo, facendo smorfie con le labbra.

    Non è necessario che parli; è come se abbia sulla testa la nuvoletta di un fumetto con scritto: "Sorelle Festa, gran figuron de merda! Anyway festòn!".

    Non possiamo dire "Oh damn, shit" nemmeno in dialetto: cavoli, sa tutte le lingue 'sto qua!

    Avevo notato, poco prima della figuraccia, che sulla tastiera dell’ascensore c’era un solo numero illuminato: quello dell’ottavo piano, ma non ci avevo pensato più di tanto.

    «Siete qui in vacanza o ci lavorate?» dice il bellimbusto con un accento meridionale.

    Gli racconto che sono da giugno a Miami Beach per imparare la lingua e fare un’esperienza lavorativa. Prima abitavo sulla Collins 74, in uno stabile vecchio e senza aria condizionata, ben diverso dal condominio da urlo in cui ci troviamo da un mese a questa parte.

    Avevo lavorato in qualche ristorante della Lincoln, mentre mia sorella era venuta a prendermi per portarmi a casa, perché io non volevo tornare più.

    A un certo punto l’ascensore si apre: «Be', ragazze, io vivo da una settimana alla 807, voi?».

    «Noi abitiamo alla 816, siamo qui da un mese, proprio davanti a te!».

    «Ah scusate, piacere, Pasquale. Venite a bere qualcosa da me?».

    «È meglio che tu venga da noi, e se sei un maniaco?».

    Lui sorride, mostrando la sua bella dentatura bianco candida.

    Io intanto penso tra me e me: «Se tutti i maniaci fossero così boni, mi faccio sotto volentieri, ciò!».

    Mi capita spesso di fare pensieri idioti!

    Il potenziale maniaco risponde: «Ok, tose trevisane, prendo un attimo gli arnesi nella mia tana e arrivo».

    Le uniche parole che escono dalla mia bocca potete immaginare quali sono: "domandameo, figòn e festòn"... of course!

    Mentre lo aspettiamo, cerchiamo di mettere in ordine il nostro studio, ovvero il nostro macello.

    Tra un sandalo in lavandino, la trousse in frigo e le pentole in bagno, raccattiamo gli oggetti, cercando per ciascuno la sua esatta sistemazione.

    Non si sa mai, è meglio sempre fare bella figura con un nuovo ospite, poi se assomiglia a Johnny Deep meglio ancora, no?

    Sentiamo il toc toc alla porta.

    Vado io ad aprire.

    Non sono solita ricevere un toso con un abitino da mare, sabbia a non finire e senza trucco.

    Sono un po’ agitata, forse per l’abbigliamento non idoneo o forse perché ci tengo a conoscere meglio questa persona stuzzicante, anche se tra pochi giorni avrei dovuto partire.

    Faccio entrare Pasquale mentre mia sorella tira fuori il prosecco e l’Aperol, per fare il classico aperitivo veneto, lo Spritz.

    Lui dice: «Sì, sì, buono lo Spritz, quanto ne ho bevuto...».

    Ci sediamo tutti e tre sul divano di pelle nera, lui al centro, io a sinistra, vicino al braccio con scritto "I love Maria" e mia sorella a destra, vicino al braccio con la scritta in latino.

    Gli chiedo subito di farmi vedere bene quella scritta: "Semel in anno licet insanire, omnia munda mundis".

    Mi spiega il significato, anche se credo che nemmeno lui avesse molta confidenza con la lingua degli antichi romani: una volta all’anno è lecito trasgredire, tutto è puro agli occhi puri.

    Gli chiedo: «Ma Pasqua' trasgredisce una volta

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