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Volevo essere la tua ragazza
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E-book254 pagine3 ore

Volevo essere la tua ragazza

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Info su questo ebook

Il bestseller americano più premiato dell'anno

Amanda Hardy si è appena trasferita, e nella nuova scuola non conosce ancora nessuno. Vorrebbe farsi dei nuovi amici, ma ha un segreto, e per mantenerlo non deve dare troppa confidenza alle persone. Almeno questo è il suo proposito. Ma quando incontra il dolce e accomodante Grant, Amanda non può fare a meno di lasciarlo entrare, poco alla volta, nella sua vita. Man mano che trascorrono il tempo insieme, Amanda si rende conto di quante cose si sta perdendo nel tentativo di tenere al riparo il proprio cuore. Giorno dopo giorno si ritrova a voler condividere con Grant tutto di se stessa, compreso il suo passato. Ma è terrorizzata all’idea che, una volta saputa la verità, il ragazzo non sarà in grado di vedere oltre, e si allontanerà per sempre. Qual è il terribile segreto che Amanda non vuole rivelare? Un nome: Andrew. È il nome con cui Amanda era conosciuta nella vecchia scuola e nella vita che ha rinnegato. Ma davvero la verità può avere un prezzo così alto?

Il miglior libro dell’anno finalmente in Italia
In corso di traduzione in 11 Paesi

Una storia d’amore come tutte le altre, ma non proprio

«Lo splendido ritratto di una ragazza che cerca di trovare il suo posto nel mondo.»
The Washington Post

«Un debutto brillante, all’insegna della speranza e di un’appassionata dolcezza.»
Publishers Weekly

«Una storia necessaria e universale, sulla diversità e sui pregiudizi duri a morire… Trabocca di amore, speranza e verità.»
Kirkus Reviews

• Libro dell’anno Publishers Weekly • Libro dell’anno Kirkus Reviews • Selezione Zoella Book Club • Libro dell’anno Amazon • Finalista Goodreads Choice Award • Libro YA dell’anno Barnes & Noble • Libro YA dell’anno Bustle • Top 10 IndieNext • Uno dei 50 libri che ogni teenager dovrebbe leggere per Flavorwire • Vincitore Stonewall Book Award • Premio Walter Dean Myers Honor per la letteratura per ragazzi • Romanzo YA dell’anno iBooks • Candidato al Premio per la Fiction YALSA 2017 • Candidato al Premio Quick Picks for Reluctant Readers YALSA 2017
Meredith Russo
Ha cambiato la sua identità sessuale qualche anno fa e vive a Chattanooga, nel Tennessee, con i suoi due figli. Volevo essere la tua ragazza, il suo romanzo d’esordio, ha vinto decine di importanti riconoscimenti in America e all’estero. Scrive sul «New York Times» su temi legati al gender.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2017
ISBN9788822712486
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    Anteprima del libro

    Volevo essere la tua ragazza - Meredith Russo

    tavola

    Indice

    Nota dell’autrice

    Capitolo 1

    Novembre, tre anni prima

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Novembre, tre anni prima

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Dicembre, tre anni prima

    Capitolo 6

    Tredici anni prima

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Gennaio, sei anni prima

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Ottobre, 6 anni prima

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Sei mesi prima

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Agosto, due anni prima

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Novembre, tre anni prima

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Aprile, due anni prima

    Capitolo 33

    Ringraziamenti

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    1702

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Titolo originale: If I Was Your Girl

    Copyright © 2016 by Alloy Entertainment

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    Produced by Alloy Entertainment, LLC

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Silvia D’Ovidio

    Prima edizione ebook: settembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1248-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Sandro Ristori

    Meredith Russo

    Volevo essere la tua ragazza

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Per Vivian e Darwin, per avermi concesso

    l’onore di essere madre.

    Per Juniper, che con le sue storie ha ispirato buona parte di questo libro, e che mi ha spronato

    quando non riuscivo ad andare avanti.

    Per i miei genitori, per non aver dato di matto quando ho scelto la facoltà di scrittura creativa

    (con un corso di studi di genere per giunta).

    Per le mie antenate e i miei antenati, per aver lottato e protestato ed essere sopravvissuti alle epidemie e aver pianto le morti degli amici, per aver attraversato un dolore che non posso neanche immaginare affinché io avessi le opportunità e le libertà di cui godo oggi.

    Per i miei fratelli e le mie sorelle, che sopravvivono giorno dopo giono e sono bellissimi dentro in un mondo che è ancora così lontano dall’essere sicuro.

    Per i ragazzi e le ragazze che si sentono soli e hanno paura, che credono di non avere via di scampo, che pensano che le cose non miglioreranno mai.

    Per tutti quelli che non ce l’hanno fatta,

    che ora riposano in pace.

    Non dimenticheremo mai i vostri nomi.

    Questo libro è per tutti voi.

    Nota dell’autrice

    Ai miei lettori cisessuali – ovvero a tutti quelli che non sono transessuali: vi ringrazio perché state leggendo. Vi ringrazio per il vostro interesse. Mi innervosisce chiedermi cosa penserete di questo libro, ma forse non nel senso che credete. Naturalmente temo che al pubblico possa non piacere, ma soprattutto mi preoccupa che possiate prendere la storia di Amanda come vangelo, soprattutto perché scritta da una donna trans. Questa prospettiva mi terrorizza! Sono una narratrice, non un’educatrice. Mi sono presa delle libertà rispetto alla realtà, almeno per come la conosco. Ho romanzato delle cose perché funzionassero nella mia storia. In qualche modo ho aderito a degli stereotipi e ho anche forzato un po’ la mano perché la transessualità di Amanda fosse il meno stridente possibile rispetto ai canoni. L’ho fatto perché voglio che non abbiate alcun ostacolo alla comprensione di Amanda, un’adolescente con una storia medica diversa dalla maggior parte delle altre ragazze. La vita e l’identità di Amanda avrebbero avuto la stessa validità anche se avesse compreso se stessa solo più tardi nella vita, o se fosse stata un maschiaccio, o magari bisessuale o lesbica o asessuale o se avesse avuto problemi con il passing… be’, dovrete leggere il libro. L’attrazione di un ragazzo nei suoi confronti in uno qualsiasi di questi scenari non sarebbe stata un impulso meno eterosessuale, così come l’attrazione di una ragazza non sarebbe stata meno omosessuale. È facile inciampare su questi argomenti se non avete vissuto le nostre vite, quindi volevo chiarirli subito. Spero che una volta conosciuta Amanda non considererete ogni dettaglio della sua esperienza come un dogma a cui tutti i transessuali devono aderire, ma piuttosto li userete come fonte di ispirazione per giungere a una comprensione sempre migliore delle nostre vite e delle nostre identità, nonché delle questioni di genere e sesso in generale.

    Ai miei lettori transessuali: non fa niente se siete diversi da Amanda. Lei non è reale, voi sì. Ho passato buona parte dei miei primi vent’anni a convincermi che non ero quello che pensavo di essere perché non rientravo nel modello specifico (e molto tossico) con cui la società descrive i transessuali. Fidatevi di me: la storia della mia vita è radicalmente diversa da quella di Amanda. Potete essere transessuali e allo stesso tempo gay, lesbiche, bisessuali, asessuali o quel che volete. Potete essere trans senza mai sottoporvi alla transizione (e potete essere comunque bellissimi anche senza transizione), e potete essere trans e fare la transizione e aderire completamente al nuovo genere. Potete essere un uomo trans. Potete essere genderqueer, o cambiare identità più di una volta nella vita, o sentire di non avere alcun genere. Va bene essere trans e non ricercare mai alcun aspetto medico della transizione, e potete anche essere trans e alterare il vostro corpo nel modo che desiderate. Non esiste un modo sbagliato di esprimere e incarnare il proprio sé più autentico! Siete bellissimi, e meritate che il vostro corpo, la vostra identità e le vostre azioni siano rispettati.

    Capitolo 1

    L’autobus sapeva di muffa, gasolio e sudore. Mentre ci lasciavamo alle spalle la periferia di Atlanta, battevo il piede a terra e mordicchiavo una ciocca dei miei nuovi capelli lunghi. Una voce fastidiosa continuava a ricordarmi che ero solo a mezz’ora da casa, che se fossi scesa alla fermata successiva e fossi tornata a piedi a Smyrna, per il tramonto sarei stata comodamente in camera mia, pronta a immergermi nell’odore familiare della cucina piena di carboidrati di mia madre. Mamma mi avrebbe abbracciato e ci saremmo messe a guardare insieme degli orrendi reality. Dopo un po’ lei si sarebbe addormentata, e non sarebbe cambiato niente.

    Ma qualcosa doveva cambiare. Perché io ero cambiata.

    Fissavo gli alberi muoversi veloci, e con la mente mi ritrovai nel bagno di un centro commerciale in città, con le immagini che cambiavano e si modificavano come un caleidoscopio: una ragazza della mia scuola, il suo strillo quando mi aveva riconosciuta. Suo padre che correva dentro, le sue mani ruvide e veloci sul mio collo e le mie spalle. Il mio corpo a terra.

    «Stai bene?», mi strillò una voce all’orecchio. Mi voltai e c’era un tizio con le cuffie, con il mento sul poggiatesta del sedile di fronte al mio. Mi fece un sorriso storto togliendosi le cuffie. «Scusa».

    «Sto bene». Mi fissò, tamburellando le dita sul poggiatesta. Forse dovevo dire qualcos’altro, ma temevo che la mia voce mi tradisse.

    «Dove te ne vai?». Si spalmò sullo schienale del suo sedile come un gatto, con le braccia che quasi mi sfioravano gli stinchi. Avrei voluto arrotolarmi fino a diventare una minuscola palla di cemento armato e nascondermi nel mio bagaglio.

    «A Lambertville», mormorai. «Nella contea di Ecate».

    «Io vado a Knoxville», disse lui, e poi si mise a parlare della sua band, gli Gnosis Crank. Capii che aveva attaccato bottone solo per parlare di se stesso, ma la cosa non mi dispiaceva: così non ero costretta a parlare troppo di me. Mi raccontò del loro primo concerto pagato in un bar a Five Points.

    «Fico», dissi.

    «La maggior parte delle nostre canzoni sono online se le vuoi ascoltare».

    «Lo farò».

    «A proposito, come ti sei fatta quell’occhio nero?»

    «Io…».

    «È stato il tuo ragazzo?».

    Arrossii. Lui si grattò il mento. Pensava che avessi un ragazzo. Che io fossi una ragazza. In altre circostanze, la cosa mi avrebbe esaltato.

    «Sono caduta».

    Smise di sorridere.

    «Anche mia madre diceva così ai vicini. Si meritava ben altro, e anche tu».

    «Okay», dissi, annuendo. Forse aveva ragione, ma quello che meritavo e quello che potevo aspettarmi dalla vita erano due cose ben diverse. «Grazie».

    «Figurati», disse, e si rimise le cuffie. Sorrise e aggiunse: «Piacere di conoscerti», a un volume un po’ troppo alto, poi si risedette.

    In viaggio verso nord sulla I-75 scrissi un messaggio a mamma, per farle sapere che stavo bene ed ero a metà strada. Mi rispose che mi voleva bene, ma percepivo la sua preoccupazione. Me la immaginai in casa tutta sola, con la star del country Carrie Underwood che cantava senza sosta nello stereo e il fruscio dei ventilatori. Le mani infarinate appoggiate sul tavolo, troppi biscotti nel forno perché era abituata a prepararne per due. Se avessi avuto la forza di essere normale, pensai, o almeno la forza di morire, sarebbero stati tutti felici.

    «Prossima fermata, Lambertville», gridò l’autista nell’interfono gracchiante. Fuori dal finestrino il panorama non era cambiato neanche un po’. Le montagne mi sembravano le stesse. Gli alberi erano uguali. Potevamo trovarci in qualsiasi punto del Sud, ovvero in nessun posto. Sembrava proprio il luogo adatto a mio padre.

    Quando l’autobus si fermò mi tremavano le mani. Nessun altro passeggero si alzò. Il musicista sollevò lo sguardo dalla rivista e mi fece un cenno mentre raccoglievo le mie cose. Un uomo adulto con la pelle indurita e una camicia da lavoro macchiata di sudore mi scrutò dalla testa ai piedi senza mai guardarmi negli occhi. Mi girai dall’altra parte e feci finta di non accorgermi di nulla.

    La porta si aprì e l’autobus lanciò un sibilo. Chiusi gli occhi, mormorai una breve preghiera a un dio che non ero sicura fosse ancora in ascolto, e scesi. Il caldo soffocante del pomeriggio mi colpì con forza, come se fossi andata a sbattere contro un muro di mattoni.

    Erano passati sei anni dall’ultima volta che avevo visto mio padre. Avevo immaginato mille volte quel momento nella mia testa. Io che correvo ad abbracciarlo, lui che mi baciava la testa, e per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo al sicuro.

    «Sei tu?», chiese papà, la voce coperta dal basso rombo del motore dell’autobus. Strizzai gli occhi per la luce troppo intensa. Indossava un paio di occhiali da sole con la montatura metallica, i capelli erano più grigi che neri. Gli si erano formate delle rughe profonde intorno alla bocca. Mamma le chiamava le rughe del sorriso, quindi non avevo proprio idea di come se le fosse procurate. Solo la bocca era come la ricordavo: lo stesso taglio sottile e orizzontale.

    «Ciao papà». Era più semplice guardarlo in faccia con quegli occhiali. Entrambi rimanemmo impalati.

    «Ciao», disse dopo un po’. «Metti le tue cose nel bagagliaio». Lo aprì ed entrò in macchina. Sistemai la mia roba e lo raggiunsi. Mi ricordavo la macchina; aveva almeno dieci anni, ma papà se la cavava bene con la manutenzione. «Devi aver fame».

    «Non molta, veramente». Era da un po’ di tempo che non avevo fame. Ed era da un po’ che non piangevo. Mi sentivo solo indifferente, la maggior parte del tempo.

    «Devi mangiare». Mi lanciò un’occhiata mentre usciva dal parcheggio. Le lenti erano diventate trasparenti, vedevo i suoi occhi di un marrone piatto, quasi grigiastro. «Vicino a casa c’è un ristorantino. Se ci andiamo adesso lo troviamo tutto per noi».

    «Bello». Papà non era mai stato un tipo socievole, ma una vocina mi diceva che non voleva farsi vedere in giro con me. Inspirai profondamente. «Belli gli occhiali».

    «Ti piacciono?». Fece spallucce. «L’astigmatismo è peggiorato. Mi servono».

    «Meno male che ci stai attento», dissi, balbettando imbarazzata. Abbassai lo sguardo.

    «Hai i miei stessi occhi, sai? Devi farci attenzione anche tu».

    «Sissignore».

    «Appena possibile andiamo dall’oculista. Dobbiamo comunque dare una controllata a quell’occhio nero».

    «Sissignore». Dagli alberi a sinistra sbucò un cartellone, raffigurava il disegno di un soldato che sparava scintille rosse, bianche e blu da un bazooka. IL CAPANNO DEI FUOCHI D’ARTIFICIO DEL GENERALE BLAMMO. Svoltammo – di nuovo al sole – e le lenti si scurirono, nascondendogli gli occhi. Teneva la mascella serrata. Un atteggiamento che non sapevo come interpretare. «Cosa ti ha detto mamma?»

    «Era preoccupata per te», rispose. «Ha detto che non eri al sicuro lì dove vivevi».

    «Ti ha detto quello che è successo al secondo anno? Quando sono… stata all’ospedale?».

    Strinse il volante fino a sbiancarsi le nocche. Fissò la strada davanti a sé in silenzio mentre superavamo un vecchio edificio di mattoni con un campanile diroccato. Sul cartello c’era scritto NUOVA CHIESA BATTISTA DELLA SPERANZA. Dietro incombeva un Walmart.

    «Ne parliamo più tardi». Si sistemò gli occhiali sospirando. Mi sembrò che i solchi sul suo viso si facessero più profondi. Mi chiesi come avesse fatto a invecchiare tanto in sei anni, ma poi mi ricordai quant’ero cambiata io.

    «Scusa», dissi. «Non avrei dovuto parlarne». Guardai sfilare i campi di tabacco. «Solo che non hai mai chiamato, o scritto».

    «Non sapevo cosa dire. È stato difficile accettare… tutto quello che è successo».

    «Ci sei riuscito ora che mi hai visto?»

    «Dammi tempo, ragazzino». Strinse le labbra dopo l’ultima parola, così insolitamente informale per lui. «Mi sa che sono solo un po’ all’antica».

    Il ticchettio della freccia seguiva il battito del mio cuore mentre rallentavamo. Accostammo davanti al Sartoris Dinner Car, un vero vagone ferroviario riconvertito e poggiato su una base di cemento.

    «Capisco», dissi. Immaginavo come dovevo sembrargli, e la mia mente si affrettò a riversarmi addosso tutte le cose peggiori che avessi mai provato verso me stessa. «Ora comunque mi chiamo Amanda, nel caso in cui te lo fossi dimenticato».

    «Okay». Spense il motore, aprì la portiera ed esitò. «Okay, Amanda. Ce la posso fare». Si diresse verso l’ingresso del ristorante con la sua inconfondibile andatura: mani in tasca, gomiti piegati ad angoli simmetrici. Non potei fare a meno di notare il mio riflesso nella vetrata: una ragazzina allampanata con i capelli castani e lunghi, una maglietta di cotone e pantaloncini stropicciati dal viaggio.

    Entrammo nel locale vuoto e il campanello sulla porta squillò. Una cameriera assonnata alzò lo sguardo e sorrise. «Salve, signor Hardy!».

    «Buon pomeriggio, Mary Anne», disse con un gran sorriso, prendendo posto al bancone. Quel sorriso mi diede le vertigini. Aveva sorriso quando avevo sette anni e gli avevo detto che volevo fare le selezioni per la Little League. Aveva sorriso quando avevo nove anni e avevo accettato di andare a caccia con lui. Poi basta, a quanto ricordavo. «Ho sentito che tua nonna ha avuto un infarto. Come ve la state cavando?»

    «Dice che in paradiso non la vogliono e all’inferno hanno paura che prenda il potere», disse la ragazza, prendendo dal grembiule un taccuino e una penna. «La fisioterapia comunque è stata dura».

    «Ce la farà sicuramente», disse papà. Le restituì il menu senza guardarlo. «Tè zuccherato e una Caesar salad con pollo, grazie».

    La cameriera annuì. «E chi altro abbiamo qui?», domandò, voltandosi verso di me. Io guardai lei, poi mio padre.

    «Io sono Amanda», risposi. Sembrava in attesa di qualche altra informazione, ma non avevo idea di cosa avesse raccontato papà della sua famiglia. E se avesse detto che aveva un solo figlio maschio? Le porsi il mio menu con mano incerta e dissi: «Vorrei un waffle e una Coca Zero per favore, signora, grazie».

    «È mia figlia», disse mio padre dopo un attimo, con voce esitante e rigida.

    «Ti somiglia tantissimo!». Ci scambiammo uno sguardo imbarazzato e Mary Anne trotterellò a prepararci le bevande.

    «Sembra simpatica», dissi.

    «È una brava cameriera», rispose papà. Annuì rigidamente. Tamburellai le dita sul bancone e dondolai il piede avanti e indietro distrattamente.

    «Grazie per aver accettato di ospitarmi», dissi piano. «Significa moltissimo per me».

    «Era il minimo che potessi fare».

    Mary Anne ci portò la nostra ordinazione e andò ad accogliere due uomini con i capelli bianchi e le camicie a quadri.

    Uno degli uomini si fermò a parlare con papà. Aveva il naso tondo con una ragnatela di venuzze rosse, gli occhi nascosti sotto sopracciglia che sembravano nuvole di temporale. «E questo raggio di sole chi è?», domandò chinandosi a salutarmi.

    «Amanda», borbottò papà. «Mia figlia».

    L’uomo fischiò e diede una pacca sulla spalla di papà. «Be’, non mi meraviglio che non l’abbiamo mai vista! Se avessi una figlia così carina la terrei nascosta pure io». Mi sentii infiammare le guance. Mi chinai sul bancone, cercando di nascondere il volto. «Fammi sapere se i ragazzi si prendono troppa confidenza, che ti presto il fucile».

    «Non credo che sarà un problema», balbettò papà.

    «Ah, fidati di me», disse lui facendo l’occhiolino. «Ho tre figlie, e nessuna di loro è mai stata carina come questa alla sua età. E comunque l’unica cosa che teneva lontani i ragazzi era una bella arma carica».

    «Okay», disse papà. «Grazie per il consiglio. Mi sa che ti si sta raffreddando il caffè».

    L’uomo salutò, ammiccò di nuovo, e tornò al suo sgabello. Mi voltai, lo sguardo perso in lontananza. Mi accorsi che anche papà stava fissando il vuoto.

    «Sei pronta ad andare?», domandò infine.

    Si alzò senza aspettare una risposta e buttò una banconota da venti sul tavolo vicino ai nostri piatti lasciati a metà. Non ci guardammo mentre entravamo in macchina e uscivamo dal parcheggio.

    Novembre, tre anni prima

    Il letto d’ospedale cigolò quando mamma si sedette e mi accarezzò una gamba da sopra la coperta leggera. Un sorriso forzato le tendeva le guance rosse, ma non arrivava a illuminarle gli occhi. I vestiti le stavano larghi: evidentemente non mangiava da quando ero stata ricoverata. Chissà quanti chili aveva perso.

    «Ho parlato con lo psicologo», disse. Il suo accento era tanto diverso dal mio, così leggero e musicale.

    Le chiesi di cosa. La mia voce era insignificante, piatta, e mi si era anche abbassata un poco. Avrei voluto non parlare mai più. Avevo i crampi allo stomaco.

    «Di quando sarà opportuno farti tornare a casa. Ho detto che ero preoccupata di cosa potresti fare senza nessuno a sorvegliarti, visto che io non posso prendere altri permessi dal lavoro. Non sopravvivrei

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