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Al di là delle stelle
Al di là delle stelle
Al di là delle stelle
E-book369 pagine4 ore

Al di là delle stelle

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller L’amore arriva sempre al momento sbagliato

Quando Jasmine è arrivata per la prima volta a New Orleans si è sentita a casa. Appartenere alla famiglia di un musicista significa trasferirsi di continuo per seguire i suoi ingaggi e non è sempre facile affezionarsi a qualcosa o qualcuno. Elliot era un ragazzo timido, silenzioso e piuttosto smilzo: il bersaglio perfetto per ogni genere di angherie da parte dei bulli della scuola. Ma Jasmine ricorda perfettamente la prima volta che l’ha sentito suonare il sassofono: è stato il momento in cui ha capito di amarlo. Sono passati anni da quando il destino ha deciso di separare le loro strade. Jasmine ha inseguito un sogno che non le apparteneva, mentre Elliot ha dovuto affrontare i suoi demoni interiori. Ma basta un istante, in cui i loro occhi si incontrano di nuovo, per far capire a entrambi che per quanto la sofferenza li abbia cambiati, la connessione che li unisce è ancora la stessa. E ci sono legami che nemmeno il tempo è in grado di spezzare. 

Un’autrice pubblicata in oltre 18 Paesi

Ci sono melodie che partono dal cuore

«Questo è il libro più romantico e commovente che abbia mai letto. Straordinario.»

«Leggo tutti i libri di questa scrittrice, ma questo è in assoluto il mio preferito.»

«Brittainy C. Cherry è una maga delle parole. La sua scrittura è splendida. Una storia che fa crescere.»

Brittainy C. Cherry
È rimasta incantata dalle parole fin dal momento in cui ha fatto il primo respiro. Si è laureata alla Carroll University in Teatro e in Scrittura creativa. Vive a Milwaukee, nel Wisconsin, con la famiglia. È un’autrice di culto del genere Young e New Adult. La Newton Compton ha pubblicato con successo L’amore arriva sempre al momento sbagliato, Ti amo per caso, Infinite volte, Un posto accanto a te e Hai bussato al mio cuore. 
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2019
ISBN9788822735232
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    Anteprima del libro

    Al di là delle stelle - Brittainy C. Cherry

    Prima parte

    Capitolo uno

    Jasmine

    No.

    Non diventava mai meno difficile ascoltare un rifiuto. Non era mai una parola indifferente e priva di significato quando qualcuno me la rivolgeva. Il modo in cui mi guardavano da capo a piedi quando entravo in una stanza… il loro giudicarmi per tutto ciò che ero e non ero… i loro sussurri mentre stavo lì davanti.

    No. No. Ci dispiace. No, grazie. Per stavolta niente.

    Avevo appena compiuto sedici anni e avevo conosciuto più rifiuti di qualsiasi persona normale. Erano anni che cercavo di farmi notare nel mondo della musica, ma non avevo mai ottenuto altro che rifiuti.

    No.

    No.

    Ci dispiace. No, grazie.

    Per questa volta niente.

    Tutto ciò non aveva impedito a mia madre di accompagnarmi in auto di riunione in riunione, di audizione in audizione, di no in no. Perché io ero la sua stella, il suo astro lucente. Avrei fatto tutto ciò che lei non era riuscita a fare, perché era quello che ci si aspettava dai figli, mi diceva.

    Ci si aspettava che fossimo migliori dei nostri genitori.

    E io lo sarei diventata, un giorno o l’altro. L’unica cosa che mi serviva era la persona giusta che mi dicesse sì.

    Quella settimana ero appena uscita dalla mia terza audizione a New Orleans e guardavo le altre ragazze che si presentavano per il gruppo femminile. Mi ero sempre considerata più come una solista, ma mamma diceva che dovevo essere contenta di qualsiasi opportunità.

    «I gruppi femminili in questo momento vanno molto», diceva. «Il pop vende alla grande».

    Personalmente, non avrei mai scelto la musica pop. Il mio cuore batteva per il soul, ma mamma diceva che lì non c’erano soldi per una ragazza come me, solo delusioni.

    Tutte le altre ragazze dell’audizione mi somigliavano, ma in meglio. Dall’altra parte della sala d’aspetto, mamma sgranò gli occhi speranzosa verso di me. Il senso di colpa mi annodò le viscere mentre mi sforzavo di sorridere.

    «Allora? Com’è andata?», mi chiese alzandosi dalla sua sedia.

    «Bene».

    Si incupì. «Hai sbagliato le parole? Ti avevo detto di ripassare il testo. Questa storia della scuola sta togliendo troppo tempo al tuo vero lavoro», affermò sdegnata.

    «No, no. Non è quello, non ho dimenticato le parole. Le sapevo alla perfezione», mentii. In realtà avevo fatto diversi errori, ma solo perché il direttore del casting mi guardava come se fossi l’esatto opposto del ruolo che serviva; solo che non potevo farlo sapere a mia madre, per non mettere a rischio la mia permanenza alla Canon High School.

    «Avresti dovuto provare di più», mi rimproverò. «Stiamo spendendo tantissimo per le lezioni di canto, recitazione e danza, Jasmine. Non dovresti uscire dalle audizioni dicendo che è andata bene. Dovresti essere la migliore. Altrimenti non sarai nessuno. Devi essere una triplice minaccia».

    Una triplice minaccia.

    Quanto odiavo quell’espressione. Mia madre era stata una cantante, ma la sua carriera non aveva mai preso il volo. Diceva che, proprio quando era a un passo dall’essere scoperta, era rimasta incinta di me e una star col pancione non la voleva nessuno.

    Sosteneva anche che l’aver puntato tutto su un solo cavallo le aveva impedito di sfondare in un altro campo. Ecco perché avrebbe fatto di me una triplice minaccia. Non potevo essere solo una grande cantante, dovevo essere anche la migliore sulla piazza in recitazione e danza. Più talenti davano più opportunità, più opportunità volevano dire più fama, e più fama significava che mamma sarebbe stata orgogliosa di me.

    Era tutto ciò che avevo sempre desiderato.

    «Bene, sarà meglio muoversi», mi disse. «Dobbiamo essere dall’altra parte della città tra quaranta minuti per le prove di danza e, a seguire, lezione di canto. Poi devo tornare a casa a preparare la cena per Ray».

    Ray era il compagno di mia madre praticamente da sempre. Non c’era ricordo della mia vita che non lo includesse. Per tanto tempo avevo pensato che fosse mio padre, ma una notte, rincasando entrambi ubriachi, li avevo sentiti litigare su come ero stata cresciuta, e mamma aveva urlato a Ray che non aveva alcun diritto di parola sulla mia vita dal momento che non ero sua figlia.

    Comunque, Ray mi voleva bene come se lo fossi.

    Era per seguire lui che ci trasferivamo in continuazione. Aveva avuto un discreto successo nella musica, tanto da fare una serie di concerti dal vivo in giro per il mondo. Certo, non era universalmente noto, ma guadagnava abbastanza bene da mantenere sé stesso, mia madre e me. Eravamo le sue più grandi groupie, e per Ray prendersi cura di noi era una priorità.

    Mamma non aveva mai avuto un lavoro vero e proprio. Di tanto in tanto, non spesso, lavorava la sera come barista. Diceva che il suo lavoro era fare di me una star, il che comprendeva darmi lezioni personalmente per non farmi perdere la concentrazione. Studiare a casa era la mia unica opzione e non me ne ero mai lamentata. Ero certa che gli altri bambini se la passassero peggio.

    Eppure, quando smettemmo per un po’ di viaggiare, Ray e io la convincemmo per la prima volta a mandarmi alla scuola pubblica. Non appena seppi che ci saremmo fermati a New Orleans per via di un ingaggio che era stato offerto a Ray, pregai mamma di lasciarmi frequentare il primo anno in una vera scuola superiore, con ragazzi della mia età. Dio, che cosa avrei dato per essere circondata da coetanei che non fossero quelli che si presentavano alle audizioni per il mio stesso ruolo.

    La possibilità di farmi degli amici veri…

    Rimasi quasi scioccata quando acconsentì, grazie a Ray, che ci sapeva fare con le parole.

    Significava il mondo per me, ma per mia madre era solo tempo tolto allo studio delle arti musicali. Per lei, la scuola superiore era un gioco da bambini e io ero ormai troppo grande per giocare.

    «Continuo a pensare che la scuola pubblica non sia una buona idea», affermò sprezzante, mentre ci avviavamo alla fermata dell’autobus. «Ti distrae».

    «Riuscirò a fare tutto», promisi, probabilmente mentendo di nuovo. Non potevo smettere di andare a scuola. Per la prima volta da tantissimo tempo, mi sembrava di appartenere a un luogo. «Mi impegnerò ancora più di prima».

    Sollevò un sopracciglio, incerta. «Se lo dici tu… ma nel momento in cui mi dovessi accorgere che è troppo, ti tolgo».

    «Okay».

    Erano le sei del pomeriggio di sabato quando salimmo sull’autobus ma, invece di tornare a casa, andammo alla lezione di danza. Mamma mi passò un sacchetto di frutta secca pesata da mangiare prima di entrare, per prevenire il calo di zuccheri. Non ero la migliore della mia classe di danza, ma neanche la peggiore. Solo che non c’era niente nel mio corpo che facesse di me una vera ballerina. Avevo lo stesso fisico di mia madre: vita stretta, fianchi larghi. Tutte le curve al posto giusto, ma non per la danza. Nel gruppo, ero quella diversa.

    «Hai mangiato sano?», mi chiese l’istruttrice mentre mi correggeva la posizione.

    «Sì. Stamattina acqua e limone, poi yogurt greco con frutti di bosco».

    «A pranzo?»

    «Insalata di noci e fettine di pollo».

    Mi guardò come se non mi credesse. «Spuntino?»

    «Frutta secca appena prima di entrare».

    «Ah…». Annuì e mi appoggiò le mani sulla vita per tendere la schiena. «Mi sembri gonfia. Magari salta lo spuntino del pomeriggio».

    Alcune ragazze del gruppo ridacchiarono a quel commento e sentii le guance in fiamme. Mi consideravano una sciocca per avere anche solo pensato di iscrivermi a quel corso. Se non fosse stato per la mamma non ci sarei mai andata, ma lei lo considerava importante perché diventassi famosa.

    Solo che così mi facevano sentire una fallita.

    «Be’, è stato umiliante», mi aggredì dopo le prove precipitandosi fuori dallo studio. «Non ti sei esercitata».

    «Sì, invece».

    Si voltò puntandomi un dito contro: «Jasmine Marie Greene, se continui a dire bugie continuerai a fallire e il tuo fallimento non è tuo soltanto. Si riflette anche su di me, ricordatelo. Consideralo il primo strike. Al terzo, niente più scuola pubblica. Forza, adesso, dobbiamo andare in sala prove».

    Gli Acme Studios erano un posticino in Frenchmen Street dove potevo mettermi dietro a un microfono e registrare alcune canzoni. Avrei voluto scriverle da sola, ma mamma diceva che non ero abbastanza portata con le parole.

    Era uno studio magnifico e non tutti avevano la possibilità di lavorarci, ma Ray aveva grossi agganci. A volte mi chiedevo se non fosse quella l’unica ragione per cui mamma stava con lui.

    Non riuscivo a capire cos’altro avessero in comune, a parte l’amore per la musica.

    Appena misi piede in Frenchmen Street sorrisi. C’era un’energia in quel luogo che mi faceva sentire viva. Bourbon Street era famosa tra i turisti, ma era sulla Frenchmen che c’era la magia dei locali. La musica in cui potevi incappare mi elettrizzava. Era sorprendente come una strada potesse trasudare tanto talento, tanta anima.

    Poi il telefono squillò, mia madre si fece da parte per rispondere e fu allora che accadde.

    Fu allora che vidi il ragazzo che suonava.

    Ho sempre detto di averlo visto per prima, ma lui protesterebbe dicendo che non è vero.

    Tecnicamente, all’inizio non lo vidi, lo percepii, ne percepii la musica sulla pelle. A ogni accordo e battuta del suo sassofono corrispondeva un brivido lungo la mia schiena. Era un suono magico, le note che danzavano nell’aria erano di una bellezza inquietante.

    Girai su me stessa e vidi un ragazzo smilzo in piedi all’angolo tra la Frenchmen e Chartres. Giovane, forse della mia età o poco meno, occhiali dalla montatura sottile. Teneva un sassofono e suonava come se dalla perfezione della musica dipendesse la sua vita. Per sua fortuna, era più che perfetta. Non avevo mai sentito niente del genere.

    Mi commossi ad ascoltare ciò che stava creando e mi ritrovai mio malgrado sull’orlo delle lacrime.

    Dove aveva imparato a suonare in quel modo? Come poteva una persona così giovane possedere tanto talento? Per tutta la vita ero stata circondata da musicisti, ma non avevo mai assistito a niente del genere.

    Suonava come se stesse versando il proprio sangue per le vie di New Orleans. Non tralasciava niente, ma dava alla musica tutto sé stesso. In quel momento mi resi conto che non avevo mai dato tutta me stessa a qualcosa. Non come lui, non così.

    La gente iniziò a fermarsi, a gettargli monetine nella custodia aperta. Tirarono fuori i cellulari per riprenderlo. Osservarlo in quell’angolo fu un’esperienza unica. La sicurezza che mostrava era tanta, e le dita danzavano sui tasti come se non temessero di fallire.

    Fallimento probabilmente non era una parola che rientrava nel suo vocabolario.

    La sua musica era stupenda e un po’ sofferente, anche. Non avevo mai immaginato che qualcosa potesse essere così dolorosamente bello prima di quella sera.

    Poi smise di suonare e ciò che accadde mi incuriosì: la sicurezza che aveva emanato fino a quel momento si dissolse del tutto. La sua postura, prima tanto solida, si dissolse e le spalle cedettero in avanti. Le persone gli facevano i complimenti per la musica e lui faticava a guardarle negli occhi.

    «Meraviglioso», gli disse una donna.

    «G… g… grazie», rispose sfregando una mano contro l’altra e poi riponendo lo strumento nella custodia. Nel sentire la sua voce incerta, capii di chi si trattava.

    Elliott.

    Lo conoscevo, cioè, sapevo qualcosa di lui. Frequentava la mia stessa scuola ed era estremamente timido. Non era affatto come il ragazzo che aveva appena smesso di suonare. Sembrava avere due personalità distinte: il potente musicista e l’adolescente bullizzato.

    E i due non si assomigliavano affatto.

    Avanzai di un passo, volevo dire qualcosa, ma non sapevo cosa. Schiusi le labbra in cerca di parole, non mi venne in mente nulla. Meritava qualcosa, un complimento, un sorriso, un pizzico di congratulazioni, qualsiasi cosa, ma non riuscii neanche a farmi guardare in faccia.

    Non guardava negli occhi nessuno.

    «Jasmine», mia madre mi chiamò e dovetti distogliere lo sguardo da Elliott. «Che fai, vieni o no?».

    Gettai un ultimo sguardo da sopra la spalla, con un peso che mi si formava alla bocca dello stomaco mentre mi affrettavo a raggiungerla. «Arrivo».

    Dopo la mia sessione, riprendemmo l’autobus per tornare a casa. Lungo il tragitto, mia madre mi elencò tutto ciò che avevo sbagliato. Ribadì tutti i miei errori e passi falsi anche mentre preparava la cena. Poi sedemmo a tavola, ma senza toccare cibo, perché non si mangiava finché non rincasava Ray.

    Era in ritardo, naturalmente, perché non aveva mai imparato a lasciare lo studio in orario, così il malumore di mia madre crebbe e me lo riversò addosso. Non lo faceva mai con Ray e non capivo perché. Tutto ciò che faceva di sbagliato lui si ritorceva contro di me.

    Non ce l’avevo con lui, però. Anzi, gli ero grata che avesse deciso di amare mamma, perché significava che anch’io potevo amare lui. Era un porto sicuro, in un certo senso. Quando non c’era Ray, mia madre era ombrosa, solitaria, vuota e dura, ma bastava che entrasse nella stanza e i suoi occhi si illuminavano.

    «Ho fatto tardi», disse Ray entrando in casa con una sigaretta tra le labbra. Era mezza consumata e l’appoggiò sul posacenere accanto alla porta d’ingresso. Odiavo quell’odore, quindi si metteva d’impegno a non fumare in casa. Mamma diceva che era un uomo adulto e poteva fumare dove voleva, ma Ray non era un imbecille.

    Mi voleva bene abbastanza da rispettare i miei desideri.

    «Non hai fatto tardi», gli disse mia madre. «Sono io che ho cucinato troppo presto, tutto qui».

    «Perché ti avevo detto che sarei tornato prima», ribatté con un sorrisetto.

    Ray sorrideva sempre e faceva sorridere tutti intorno a lui. Era quel genere di uomo bello senza sforzo. Virile sotto tanti aspetti, dalla corporatura alle maniere. Era il primo a scostare la sedia per far accomodare una signora, a tenere la porta a quaranta persone prima di mettere piede dentro una stanza. Affascinante gentleman vecchia maniera, aveva dei lati teneri, come gli occhi e il sorriso. Il sorriso, soprattutto, era così bello che faceva sentire al sicuro chiunque lo guardasse.

    I suoi occhi gentili sapevano di casa.

    «Non c’è problema», mentì sorridendo mia madre. «Ci siamo sedute solo pochi minuti fa».

    Eravamo a tavola da tre quarti d’ora.

    Ray si avvicinò e mi diede dei colpetti sulla testa. «Ciao, Biancaneve». Mi aveva dato quel nomignolo anni prima, quando ero piccola, e lo adoravo. Lo amavo altrettanto anche a sedici anni.

    «Ciao, Ray», risposi.

    Mi guardò interrogativo. «Hai avuto una bella giornata?». Domanda in codice per Tua madre ti ha fatto dannare, oggi?.

    A volte, anche quando non lo faceva apposta, mamma poteva essere pesante.

    Annuii. «Ho avuto una bella giornata».

    Arricciò il naso, nel dubbio che stessi mentendo, ma non indagò oltre. Non mi chiedeva mai cosa c’era che non andava davanti a mia madre, perché sapeva quanto si risentiva a sentirsi giudicata. Ray la baciò sulla fronte. «Mi vado a lavare e cambiare velocemente, poi mangiamo».

    «Okay», rispose lei.

    E con ciò andò a lavarsi le mani. Mi appoggiai al tavolo e guardai mia madre seguire Ray con lo sguardo mentre spariva in corridoio. Quando tornò a girarsi verso di me, tutto l’amore che c’era svanì; raddrizzò la schiena.

    «Via i gomiti dal tavolo, Jasmine, e sta’ seduta dritta o ti verrà la gobba».

    Ray venne a tavola e parlammo dell’incisione del suo nuovo album. «Adoro New Orleans, è una città con un sentimento autentico. Da nessun’altra parte al mondo la gente fa musica come si fa qui. Così reale, così sofferente».

    Quando Ray parlava di musica mi faceva venire voglia di concentrarmi solo su quello.

    «Sei riuscito a contattare Trevor Su per me?», chiese mia madre riferendosi a un produttore.

    Ray si strinse nelle spalle. «No, te l’ho già detto, non è una brava persona. Non abbiamo bisogno di lui per la carriera di Jasmine».

    Quella risposta non le piacque, a giudicare da come arricciò il naso. «Trevor Su è uno dei più grandi produttori del mondo e tu ci puoi arrivare. Non capisco perché pensi che Jasmine non sia abbastanza brava da lavorare con lui».

    «No», sbottò Ray scuotendo il capo. «Non travisare le mie parole. Non ho detto questo. È lui che non è abbastanza buono per lei».

    «E perché no?»

    «Perché è una serpe».

    Mamma sbuffò. «A chi importa se è una serpe, se fa quello che c’è da fare?».

    Ray non era d’accordo. «No. Il modo in cui si serve delle persone per fare carriera è disgustoso. L’ho visto calpestare brava gente solo per soldi. È uno schifo».

    «Sono affari, Ray», gemette mia madre. «E se lo capissi anche tu, avresti sicuramente più successo di quello che hai».

    «Mamma!», esclamai, senza fiato a quel commento.

    Ray non batté ciglio. Era ormai avvezzo a quelle frecciate. E sufficientemente insensibile ai suoi giudizi.

    Questo non mi rendeva comunque più facile ascoltarli.

    Quando si trattava del settore, erano su piani totalmente diversi. Ray ragionava con il cuore, mamma con la testa.

    «Si chiama fare rete», diceva lei.

    «Si chiama vendersi», obiettava lui. «E poi è… troppo. La spingerebbe oltre i limiti».

    «I suoi limiti vanno forzati».

    «È solo una ragazzina, Heather».

    «E sarebbe straordinaria se tu glielo permettessi».

    Seguì qualche minuto di discussione se fosse o no irrispettoso da parte di mia madre voler incontrare Trevor. Era una manager molto motivata quando si trattava della mia carriera, e non c’era idea che ritenesse troppo estrema. Era la mammager di tutte le mammager, pronta a qualunque cosa pur di portarmi al successo.

    Ray era l’opposto. Credeva nella musica, ma credeva anche che fossi una ragazzina. Con una vita al di fuori della musica.

    «Forse non dovremmo parlare di lavoro a tavola», disse Ray schiarendosi la gola.

    «La musica è il nostro unico argomento di conversazione», dissentì mia madre.

    «Allora forse dovremmo variare. Parliamo di qualcos’altro», propose Ray spostando il cibo nel piatto. «Quando torno a casa, vorrei solo staccare».

    «Guarda che sei tu che ti sei seduto e hai cominciato a parlare di musica, tanto per cominciare!», sbottò mia madre. «Però quando ho proseguito io con la carriera di Jasmine è stato troppo, vero?»

    «Mamma», sussurrai scuotendo il capo.

    «Jasmine, sta’ zitta e finisci l’insalata».

    «Perché mangi solo insalata?», si informò Ray.

    Feci per rispondere, ma mamma si intromise prima che ci riuscissi. «È a dieta».

    Ray rise. «Ha sedici anni e sembra uno stecchino, Heather. Può mangiare quello che le pare».

    E così, puntuali come un orologio, ricominciarono a discutere i vari aspetti di come mia madre mi stava crescendo. Alla fine della discussione, mamma decretò che non aveva diritto di parola perché non era mio padre.

    Non sopportavo sentirglielo rinfacciare ogni volta che ne aveva l’occasione.

    E notavo sempre quanto si facevano tristi gli occhi di Ray a quelle parole.

    Forse non lo era sulla carta, ma non c’erano dubbi che, nel cuore, fosse un papà per me.

    «Vado a prendere una boccata d’aria», disse Ray allontanando la sedia dal tavolo. Uscì di casa con il pacchetto di sigarette per svuotare la mente, il che significava che andava ad ascoltare musica dal vivo. La musica aiutava sempre quando mia madre lo stressava.

    Aiutava anche quando stressava me.

    Dopo cena, andai dritta in camera a fare i compiti. Ero indietro su tutto, ma era importantissimo per me far sembrare che avessi tutto sotto controllo. Altrimenti sarei stata costretta a tornare allo studio privato e non poteva succedere, non dopo aver assaporato una vera vita da adolescente.

    «Hai avuto una buona giornata, Biancaneve?», chiese ore dopo Ray, in piedi nel vano della mia porta con le braccia dietro la schiena.

    Alzai gli occhi dal libro di matematica e scrollai le spalle.

    «Non c’è bisogno di mentire… tua madre dorme. È stata dura con te?»

    «È tutto a posto. È colpa mia, davvero. Ho battuto la fiacca».

    «Ti mette troppa pressione», mi avvisò.

    «La pressione crea i diamanti», affermai scimmiottando mia madre. Poi sorrisi, perché Ray aggrottava la fronte. «Sto bene. Sono solo stanca oggi».

    «Vuoi che provi di nuovo a parlarle?».

    Scossi la testa. Se Ray le avesse detto che ero stressata o oberata si sarebbe sentita in imbarazzo e, ogni volta che accadeva, la cosa mi si ritorceva contro.

    «Perché mangi solo insalata per cena?», mi chiese Ray.

    «Non ho fame».

    «Peccato». Fece una smorfia e tirò fuori una busta del take away. «Perché ho appena preso hamburger e patatine lungo la strada».

    Il mio stomaco gorgogliò non appena vidi la busta.

    «Ma visto che non hai fame, li butto via».

    «No!», gridai scuotendo freneticamente la testa. Poi mi schiarii la voce e raddrizzai la schiena. «Voglio dire… li prendo».

    Ray rise e mi passò la busta. «Sei perfetta così come sei. Non fare la fame per un sogno, Biancaneve, e neanche per tua madre. Non ne vale la pena, per nessuna delle due cose».

    «Grazie».

    Rispose con un cenno del capo. «E se vuoi che le parli, dimmelo. Sto dalla tua parte».

    «Ray?»

    «Sì?»

    «La ami?», chiesi a voce bassa. Da come si comportavano, nessuno dei due sembrava innamorato dell’altro. Almeno da quel che potevo ricordare. Forse un tempo lo erano stati, ma non ne serbavo memoria.

    Ray mi rivolse un sorriso tirato. Era chiaramente un no.

    «È sempre dura con te», commentai.

    «La posso gestire», rispose.

    «Perché ci resti insieme? Perché stai con una donna che neanche ami e che ti tratta in quel modo?».

    Si schiarì la gola e mi fissò con gli occhi più dolci che avessi mai visto. Poi scrollò le spalle. «Dai, Biancaneve», quasi sussurrò. «La sai già la risposta».

    Per me.

    Restava per me.

    «La amo perché mi ha dato te. Non sarai sangue del mio sangue, Biancaneve, ma non pensare neanche per un secondo che io non ti consideri la mia famiglia. Resto per te. Resterò sempre per te».

    Gli occhi mi si offuscarono. «Voglio solo che tu sia felice, Ray».

    Sogghignò. «Sai cosa mi renderebbe felice?»

    «Cosa?»

    «Vedere felice te. Quindi continua a essere felice – e a mangiare – e mi riempirai il cuore, Biancaneve. È tutto ciò che ho sempre voluto. La tua felicità». Mi si avvicinò, mi baciò la fronte e mi rubò una patatina prima di andare a letto.

    Ray poteva non essere il mio genitore biologico, ma non c’erano dubbi che fosse mio papà.

    Capitolo due

    Jasmine

    I momenti più felici della mia vita erano quelli che trascorrevo all’interno dell’edificio scolastico. Se la maggior parte dei miei coetanei sarebbe stata felice di non andarci, per me era la prima volta nella vita in cui mi sentivo esattamente nel posto in cui avrei dovuto essere.

    Prendersi una pausa da mia madre era più piacevole di quanto avessi immaginato. Le volevo bene, ma a volte mi serviva una boccata d’aria e la scuola mi offriva spazio per respirare. Quando percorrevo i corridoi, gli altri mi facevano sentire parte di qualcosa. Non ero circondata da adulti del mondo della musica, che parlavano di cose da adulti. Non ero a un’audizione per ruoli che non volevo. Non dovevo fare di tutto perché mia madre fosse orgogliosa di me.

    Ero una ragazza e basta.

    Ma per altri non era sempre così, a scuola. Io ero tra i fortunati. Altri cadevano vittima dei capricci di Todd Clause, il tipico belloccio dell’ultimo anno che viveva per gli applausi.

    «Ehi, Jasmine!», mi chiamò Todd. In T-shirt bianca e catenina d’oro al collo, si appoggiò a un armadietto e mi rivolse un cenno con la testa. Era uno dei ragazzi più in vista e, per la metà del tempo, faceva l’imbecille con chiunque non spiccasse come lui.

    Per quanto riguardava me, però, mi considerava bellissima, o perlomeno considerava bellissime la mia taglia di reggiseno e le labbra carnose.

    Che fortuna.

    Gli scoccai un sorriso smagliante continuando a camminare. «Ciao, Todd».

    Mi corse dietro e mi mise un braccio sulle spalle. «Come stai? Dov’eri questo fine settimana?»

    «Questo fine settimana?».

    Mi guardò offeso. «Ho

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