La custodia di un sogno
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Anteprima del libro
La custodia di un sogno - Francesco Santoro
LA MUSICA, ANCORA UNA VOLTA
brevissima prefazione
Io sono ancora qua, eh già.
È il momento delle citazioni di Vasco, credo; addirittura due in due pagine. Ma giuro che è stato casuale.
La prima mi piace perché quello che vale per le canzoni vale anche per i racconti: un'idea arriva sempre come un dono inaspettato e chiede di essere sviluppata.
Se non lo si fa l'idea può volare via (e tante volte è meglio che vada così.)
Questo lo sanno tutti quelli che hanno provato a immaginare qualcosa che prima non c'era, quindi non è una rivelazione così sconvolgente.
La cosa bella ma strana, almeno per me, è accorgermi che spesso lo sviluppo di un racconto prende una piega totalmente differente dall'idea originale e mi trovo a pensare di essere soltanto un tramite, un veicolo adoperato dai personaggi che immagino per poter finalmente venire fuori nella loro forma autentica, in alcuni casi molto diversa da come mi era apparsa all'inizio. Un autobus in carne e ossa per trasportare qualcuno o qualcosa dal mondo della fantasia a quello dove viviamo tutti noi.
Luigi Pirandello ci ha insegnato qualcosa sulle abitudini di certi personaggi in cerca d'autore
La seconda citazione di Vasco mi pareva bella per cominciare questa prefazione.
L'ho aggiunta con genuino stupore, perché non riesco ancora a capacitarmi di avere concepito una volta ancora tutta una serie di racconti che, raccolti insieme, si possano chiamare Libro
.
E invece sono ancora qua, con tutti i miei limiti e la mia voglia di imparare. Con la curiosità di vedere come va a finire e l'entusiasmo che mi accompagna fin da quando ero bambino.
Parlando per citazioni, Fabio Concato nella sua stupenda canzone intitolata Se non fosse per la musica
canta:
"Comunque provo e metto il turbo in ogni cosa
che mi capiti di fare,
con l'umiltà che mi hai insegnato
e chiedo scusa quando accade di sbagliare.
E se provassimo a cercarla la passione
in tutto quello che è da fare?
Magari è proprio questo il senso della vita
e del nostro cercare "
È questo che cerco? Sinceramente non lo so.
Per adesso racconto storie, e lo faccio senza sapere se ci sarà chi le leggerà.
Ma il bello è anche questo: faccio quello che mi piace e volo basso. Se cadrò mi farò poco male e, comunque, dopo avrò ancora voglia di saltare sul sellino e fare un altro giro.
Sempre se arriverà un'altra idea.
Chi può saperlo?
LA CUSTODIA DI UN SOGNO
Cosa successe allora lo sanno tutti; tutto il mondo ne ha sentito parlare. Hanno girato dei film su quella brutta storia.
Tanti hanno pensato al comportamento di George e dei suoi compagni etichettandolo come folle, assurdo oppure ridicolo. Lo fu davvero? Non credo proprio; semplicemente era così che doveva andare. Sono passati tanti anni ma io ricordo George ancora molto bene.
Mi pare di vederlo lì, mentre mi saluta, bello come un dio, elegante nel suo vestito nero e papillon, i capelli spostati dal vento gelido dell’oceano, un sorriso mesto sotto lo sguardo di chi sa come finirà, per lo meno per quanto lo riguarda, e decide che questo non farà la differenza, che quando accadrà avrà il suo strumento tra le mani, che lo suonerà fino alla fine o comunque ci proverà.
Allora ero una ragazzina, vergine in tutto e per tutto. Primo viaggio, prima volta sul nuovo continente, primi respiri di vita.
E prime passioni. Ancora non lo sapevo, ma la più grande, quella destinata ad accompagnarmi fino a oggi, stava in una bella custodia rigida.
Quando l'apro e annuso il profumo di legno e di velluto che scaturisce da lì dentro, credo sia per me il più inebriante degli aromi; il più magico, esotico, invitante sentore che abbia mai conosciuto.
Ma non allora. Quando avevo tredici anni la stessa custodia conteneva qualcosa di imposto dai miei, qualcosa che non avevo scelto; la fonte delle mie frustrazioni. Il mio primo violino.
La prima volta che vidi George non l’avrei notato se non fosse stato per la custodia che portava sotto al braccio, identica alla mia solo un po’ più vissuta. All’inizio attirò la mia attenzione solo per quello. So che ho detto che era bello come un dio ma, per una ragazzina di tredici anni, un ragazzo di ventitré che viaggia da solo, e che fosse solo si vedeva da lontano credeteci, era un uomo fatto e finito e non avrebbe attirato il mio sguardo.
Oggi invece lo ricordo così, bello come un dio; ho in mente ogni particolare dell’ultima immagine di lui.
Era un uomo, certo, ma quanto era giovane, penso adesso. Troppo giovane.
Camminava sulla passerella che portava verso le cabine di seconda classe, qualche metro davanti a me e alla mia famiglia, fu in quel momento che notai la custodia che portava con sé; proprio nello stesso istante in cui un passeggero distratto mi urtò da dietro facendomi scappare dalle mani e cadere per terra la mia. Mio padre camminava appena davanti a me, si girò e mi fulminò con un’occhiata.
«Cerca di stare attenta Liz quello è un violino, non una bambola di pezza! Non sai quanto l'ho pagato!» disse strattonandomi il braccio.
«Ma papà, è stato quel sign...» e mio padre mi regalò un'altra occhiataccia .
«Non importa! Sempre scuse, vero Liz? Sei tu a dover prestare attenzione al tuo violino. Oppure hai in mente di danneggiarlo apposta, così non ti potrai esercitare? Beh, scordatelo.»
Si voltò e continuò a salire la passerella. Caso chiuso.
«Non è stata colpa mia», dissi imbronciata, «e non l’ho fatto apposta.»
Mio padre si era messo in testa che una parte fondamentale della mia educazione dovesse essere lo studio del violino. Lui non suonava e neanche amava particolarmente la musica; credo lo solleticasse solo l’idea di potermi esibire come attrazione per i suoi ospiti, una volta diventata brava o, perlomeno, ascoltabile. Ovviamente non aveva mai chiesto il mio parere a riguardo.
Fu in quel momento che George si voltò. Solo per vedere una ragazzina stizzita che cammina stringendo il suo violino. Fu solo un attimo, uno sguardo che corse da me alla mia custodia. Poi si girò e salì a bordo.
Il transatlantico visto dal basso faceva paura, sembrava non finire mai. So che adesso ci sono navi più grandi ma, credetemi, nel 1912 nessuno aveva mai visto niente del genere. Quattro enormi fumaioli, lungo, altissimo, imponente. Mentre ci avvicinavamo per l’imbarco lessi sull’enorme scafo quel nome che diventò tristemente famoso.
Titanic.
Non starò qui a raccontare ciò che già molti hanno raccontato prima e meglio di me, giusto per essere chiara da subito. Si sono scritte migliaia di pagine sull’argomento e, come ho già detto, girati alcuni film. Non mi interessa parlare di quello che tutti conoscono, o credono di conoscere. Guardo il mio violino e vi parlerò di un sogno.
Ci sistemammo nella nostra cabina. Mio padre parlava della nostra fortuna, saremmo stati i primi ad adoperare quella struttura, le lenzuola candide, i cuscini soffici e tutto il resto. Mia madre, mia sorella e mio fratello lo ascoltavano rapiti mentre lui faceva loro capire d’essere privilegiati. Un viaggio di quel genere non costava poco e sicuramente sarebbe passato alla storia.
Quanto aveva ragione, mi viene da pensare.
Non riuscivo a prendere parte a quella festa; probabilmente perché un attimo dopo essere entrati in cabina mio padre mi tolse brusco la custodia dalle mani e, dopo averla aperta e controllato che il violino non si fosse danneggiato, l’aveva richiusa e me l’aveva restituita con un grugnito e senza uno sguardo.
Lasciammo Southampton, era il 10 di aprile del 1912. Siamo andati tutti sul nostro ponte per salutare l’Inghilterra. Era un nuovo inizio, diceva mio padre.
Era stato promosso e assegnato dalla sua Compagnia alla direzione della filiale di Boston della J. Williams & Co. London Import Export Chisseloricorda. Quando la gente si stancò di salutare l’aria cominciò a prendere possesso della nave. Ricordo il rinfresco e una passeggiata con Tina, la mia sorella maggiore, lungo uno dei ponti.
Parlava e parlava ancora mentre si guardava intorno per essere certa che la stessero ammirando; impresa complicata dato che tutti intorno a noi sembravano ugualmente ben vestiti e altrettanto belli e desiderosi di mettersi in mostra quanto lei.
Tornai in cabina appena potei, non la reggevo più. Avevo cominciato a detestare quel viaggio ancora prima di vedere la nave.
Non era un nuovo inizio per me, pensavo allora; lo era per Lui, che portava la sua famiglia verso un paese sconosciuto, facendomi lasciare per sempre tutto ciò che avevo amato.
Avessi almeno potuto lasciare in Inghilterra anche quello stramaledetto violino. Non so perché allora l’odiassi tanto, credo fosse solo perché in quel momento non potevo permettermi di odiare allo stesso modo mio padre.
Stavo lì, sulla mia cuccetta a guardare il nulla. La mia famiglia era in giro a passeggiare. Io non avevo voglia di vedere gente ed ero rimasta in cabina.
Non so perché successe, forse per noia; il fatto fu che tirai fuori il mio violino e cominciai a suonare uno dei miei esercizi.
A un tratto bussarono alla porta; mi interruppi e andai ad aprire, convinta di avere disturbato i vicini di cabina o che fosse qualcuno della mia famiglia. Mi ritrovai davanti George. Sorrideva.
«Vedo che ci sono musicisti da queste parti!» aveva uno strano accento, poteva essere francese oppure belga, «Che fortuna, credevo che saremmo stati solo in otto a bordo.»
Vedendo che rimanevo lì ferma, con l’archetto e il violino a mezz’aria, l’espressione sicuramente sorpresa e magari anche spaventata, si affrettò a rassicurarmi:
«Mi scusi signorina, non la volevo spaventare, non sono un pazzo disturbatore; è che quando sento qualcuno suonare mi viene subito voglia di conoscerlo, non posso farci niente. Sa, suono anch’io il violino.»
Io continuavo a fissarlo senza parlare e lui sembrava sempre più in imbarazzo, «Ho sentito i suoi esercizi e... prima di rendermene conto... mi perdoni, vado via.»
Si voltò e fece un paio di passi. Non so se fu per la sua espressione o per il fatto che capii che era davvero inoffensivo; il fatto fu che lo fermai.
«Come si chiama?», gli chiesi. Lui si girò e tornò indietro
«George, il violinista matto. Piacere di conoscerla, signorina...»
«Liz»
«Piacere, Liz! Ma, dica un po’, si diverte davvero a suonare quegli esercizi che ho sentito prima? Cioè, servono, non dico di no; però... non ha mai provato a fare qualcosa di diverso?»
«In che senso?» chiesi.
«Nel senso che esiste musica più divertente da suonare, tipo...» poi cambiò faccia guardandomi all’improvviso con una buffa espressione contrita «...però lei sicuramente ama quello che stava facendo. Che stupido sei George! Sempre a parlare a sproposito! Stupido, stupidissimo George», esclamò picchiettandandosi la fronte col pugno e tenendo gli occhi chiusi.
Mi fece sorridere quel modo confusionario e rispettoso col quale mi parlava. Fu la sua goffaggine tenera che mi fece allentare le difese e confessare il mio grande segreto, quello che mai a nessuno avrei rivelato.
«La odio...»
Mi guardò interdetto.
«Mi odia senza nemmeno conoscermi? Andiamo bene.»
«No, no», risi, «odio la musica che stavo suonando!»
Rise anche lui passandosi il dorso della mano sulla fronte con aria sollevata, «Ah, meno male, avevo capito un'altra cosa! Che ne pensa di darci del tu, così semplifichiamo le cose?»
«D’accordo George.»
Lui si guardò intorno, poi disse:
«Ti va di fare un giro Liz? Sai... non mi sembra il caso di stare a parlare qui da soli dentro la tua cabina.»
C’erano cose che allora non capivo. A me sembrava che non ci fosse niente di male a parlare lì dove eravamo, in ogni caso accettai; sentivo una certa simpatia da bambina nei confronti di George e a pelle percepivo la grande passione per la vita di quella persona, arrivata inaspettatamente facendomi intravedere la possibilità che quel viaggio potesse trasformarsi da noioso a divertente.
Ci trovammo sul ponte dopo esserci vestiti con qualcosa di un po’ più pesante. Il vento dell'oceano Atlantico tagliava la faccia anche ad aprile.
Facemmo solo pochi passi prima che si decidesse a parlare. Cominciò con una domanda, e non era una domanda a caso.
«Come fai a odiare la musica?» mi chiese senza preamboli.
Mi appoggiai al parapetto del ponte. Guardai l’oceano. Difficile spiegare qualcosa che non si è ancora capito.
«È mio padre a volere che suoni, non io.»
George assentì guardando il mare a sua volta.
«Capisco. Sai, senza volere ho sentito cosa ti ha detto stamattina mentre salivamo a bordo. Però è proprio un peccato che una cosa bella come la musica possa essere imposta a qualcuno; la fa sembrare una punizione... cioè... alla fine fa odiare qualcosa che non merita d’essere odiato. Suonare uno strumento è talmente bello. È un qualcosa che nasce dentro, una forza alla quale non ci si può ribellare, alle volte un destino.»
George si passò la mano tra i capelli, che un attimo dopo tornarono a volare nel vento.
«Per me è stato così. Sono stato fortunato; a casa da me si mangiava pane e musica, però nessuno mi ha mai preso e detto», e si mise in posa con schiena dritta, indice puntato, sguardo minaccioso e facendo la voce grossa, «George, tu... sarai... un... MUSICISTA!»
Era buffo e tenero. Ascoltarlo mentre parlava lo faceva sembrare più giovane di quanto non fosse. Non si atteggiava a uomo vissuto. Non ho mai saputo se lo fosse stato. Non abbiamo avuto il tempo di parlarne.
«E come mai ti è venuta voglia di suonare proprio il violino?» chiesi, «A me sembra una tale lagna.»
George ridacchiò, «Mia madre. Lei suona il violino e, permettimi di dirlo, non è una lagna sentirla suonare.»
Misi le mani davanti alla bocca, «Scusa! Non volevo dire che i violinisti sono una lagna, solo...»
«No, so cosa intendevi dire. In effetti quando qualcuno suona il violino senza sapere cosa sta facendo sembra di sentire il lamento di un gatto stonato e personalmente gli taglierei le corde.»
Risi divertita, «Oh povere le mie corde! Mio padre ti rincorrerà per tutta la nave!»
George mi guardò serio, «Le tue corde sono al sicuro, Liz, non sei così male. Però si sente che non metti cuore in quello che fai, e ora ho scoperto anche perché».
«Parlami della tua mamma», chiesi.
George sorrise, «È bravissima e, per me, anche bellissima. Ha suonato per professione fino alla mia nascita, dopo ha lasciato. Per amore mio, capisci? Ma non del tutto. Ama troppo la musica, tutti in famiglia l’amiamo. Quando suona scaturisce qualcosa dalla sua persona. Non è soltanto suono. Lo so cos’è, solo non riesco a descriverlo. Quando ero bambino passavo ore ad ammirarla mentre si esercitava. Mi sembrava il più bello dei giochi. Le sue dita volavano sulla tastiera, l’archetto giocava con le note... no, davvero, era troppo bello stare a guardarla.»
«Mi sembra di vederla», dissi, «quanto vorrei avere qualcuno vicino da ammirare quanto tu ammiri tua madre.»
George mi guardò, «Probabilmente l’hai già, solo che non l’hai ancora scoperto.»
Sorrisi tristemente pensando a mia madre, con i suoi cappellini piumati, la sua cipria e la passione per le festicciole e le sale da tè, «certo, come no... comunque è grazie a lei che sei musicista, vero?»
«È grazie a me», rispose, «mia madre mi ha incoraggiato solo quando si è resa conto che desideravo davvero tanto suonare. Però, sai, i figli ad un certo punto si discostano da quello che furono i genitori; succede ogni volta, credo, e anche per me lo è stato. Non che non mi piacesse la musica che suonava mia madre, anzi, l’adoravo quanto adoro lei. Solo che a un certo punto scoprii qualcosa di meglio, come ti ho detto prima. Qualcosa di super micidialistico!»
«Qualcosa di CHE?!»
«Di super micidialistico! Di sensazionale, di magnifico! Quella sì che è musica!»
«E che musica sarebbe?» chiesi incuriosita,
George mi guardò con un sorriso divertito poi disse, sibillino: «Credo sia meglio dimostrarlo con i fatti, Lizzie. Solo non adesso; tanto so dove stai e, secondo me, mi troverai prima tu. A poi Liz, adesso devo proprio scappare.»
Restai lì a guardarlo allontanarsi mentre mi chiedevo cosa avesse inteso dire.
Lo capii da lì a poche ore, dopo cena.
I miei erano tornati in cabina; la giornata era stata intensa, il viaggio da Londra a Southampton lungo e cominciato di prima mattina li aveva stancati e in quel momento desideravano solo riposare. Siamo stati tra i primi ad arrivare al salone ristorante e a uscire dopo aver mangiato.
Mio padre borbottò che sarebbe passato dalla sala fumatori per scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che aveva conosciuto durante il pomeriggio, mia madre andò verso la nostra cabina portandosi dietro John, mio fratello, che aveva nove anni. Io l'avrei seguita se Tina non mi avesse fermato. Voleva vedere una parte della nave della quale aveva sentito parlare e che ancora non aveva visto.
«Il Café Parisien, Liz! Ho sentito che è un posto molto alla moda, très charmant.»
A me non interessavano la moda e lo charme; soprattutto non mi interessava subire una volta ancora la vista di mia sorella che faceva la stupida con ogni ragazzo che la degnasse di uno sguardo.
«Perché non ci vai da sola?» sbottai.
«Ma cosa dici! È sconveniente che vada in giro da sola, non trovi? Qualcuno potrebbe pensare male di me.» e mi regalò uno dei suoi sorrisi da bimba innocente sbattendo ad arte le palpebre davanti ai suoi