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Il pianto di Camilla
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E-book422 pagine6 ore

Il pianto di Camilla

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Info su questo ebook

In un regno sorto dopo il Secondo Diluvio Universale, il re vieta di piangere. Qual è il mistero di una lacrima? Perché i bambini nascono piangendo? Da queste domande hanno inizio gli amori, le avventure, i sogni di donne, uomini, angeli e animali che vanno alla ricerca della sorgente del pianto. Attraverso un cammino di conoscenza di sé, Camilla scopre una nuova strada per salvare l'umanità e ricondurla nel primo giardino dell'Eden.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2014
ISBN9788865123942
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    Anteprima del libro

    Il pianto di Camilla - Elena Gaiardoni

    fila?

    Capitolo 1

    La bambina che inizierà a piangere dopo questo C’era una volta fra tutte le volte non era una principessa come le altre. A nessuno nel suo regno era concesso di piangere, perché le lacrime erano considerate una vergogna, orme di piedi coperti di fango sulle pagine linde e firmate che gli uomini si vantavano d’essere diventati. In quel tondo, sterminato formicaio di gente, seppur una sola lacrima cancellava il corpo più della morte, la celebrità più della vecchiaia, il desiderio più che la bruttezza.

    Il creato non è una selva oscura e tantomeno un ermo colle soleva proferire suo padre, il re.

    Ovviamente preferisco non inoltrarmi nella questione della valle di lacrime che non è di mia competenza, ma ho certezza di una visione: se il nostro destino è di dover attraversare questa valle, è soltanto perché noi dobbiamo fare in modo che diventi sorgente di una terra di riso. La tristezza non ha parole, ma lamenti. Che orrore! La creazione, miei cari contemporanei, è un evento vitreo, collettivo, gaio, dunque nessun essere visibile e invisibile può piangere e a maggior ragione una creatura umana. Una lacrima è povertà, un sorriso patrimonio. In questa direzione dobbiamo procedere.

    Da quella volta maturò un destino per il quale il re edificò 

    una terra arida di singhiozzi, simile alla miniatura di un villaggio dentro a una bolla di vetro rimasta senz’acqua, ma ecco che invece proprio lei, la principessa Camilla, si abbandonava a luminosi pianti, scorrevoli, fluenti, armonici, così leggeri da salire verso l’alto dove si componevano in nubi di rose, quasi fossero chiome di arcobaleni di pastelli infantili; poi si sfrondavano per rincontrarsi in forme compatte, fino ad apparire come tenere proiezioni di organi interiori che si creavano in aria in corpi fatati, liberati dall’opaca prigionia della carne.

    Anche dalle chiuse palpebre di Camilla uscivano durante il sonno botticelle di purezza come lumi di piogge paradisiache, veementi e carezzevoli, che si addensavano sulle sue guance fino a sembrare i tesori nei seni lacustri dei Firmamenti sopravvissuti a quel secondo, maestoso Diluvio, quando le arche abitate da animali parlanti alzavano vele su onde arrivate oltre Saturno, che si inoltrarono nella via Lattea come libere lune per fecondare i buchi neri, forando l’Universo con gli scudi delle meduse, tra le voci dei venti che in quel tempo, quando il tempo non era ancora stato rinominato dalle parole di un uomo e di una donna uniti nell’amore, e facevano girare i pianeti e le stelle e le stelle al di là delle stelle e la stella oltre tutte le stelle, fino all’eco assopita in una rocca minuscola di rifugio e di conforto, dove tempi e spazi si inginocchiavano ancora al vagito di una vita.

    Leggère per cadere a terra e misteriose per galleggiare in aria, fluttuavano lente sul mento della bimba, di santa luce perché potessero perdersi nel nulla, e raggruppandosi si dividevano in scintille, come appare in forma di diamanti a volte il sole sul volto di un passante, e simili a polle sbocciate sulla luna, che nella notte proteggono le spalle dei viaggiatori malinconici in uno scordato silenzio, in cui le ragioni del loro cammino vanno a perdersi per sfatare ogni possibile rintracciabilità, non appena le lacrime toccavano il pavimento del castello sciabordavano negli angoli più ombrosi, come api che fervevano nel voler rifare tutto più giovane e sano in sempiterno movimento. Quelle unghie di rugiada erano come un battesimo di mani curative che metteva in ordine il contrasto della vita, come se dolore e gioia avessero la stessa madre.

    Alla fine lasciavano una polvere chiara, quasi che quel pianto avesse ossa mai spezzate, e risorte in una cenere di borotalco e di incenso più leggera della cipria delle farfalle, delicata come lo scheletro dei petali eppure caparbia, corrosiva come un soldo di sale che si porta dentro il respiro dei pesci agitati e tristi, la clorofilla delle alghe lussuriose e amabili, le sorgenti dei fiumi annegati in mare dietro l’entusiasmo di una brezza, l’imponderabile caduta delle piume perdute dagli stormi che abbandonano sugli alberi i neri nidi d’inverno, teschi stagionali da cui nasce il grido acuto della nostalgia.

    Il profumo era il tocco di un polpastrello fetale e ricordava le spiegazioni delle forze oleose e imperiali dei gelsomini, quando galleggiano all’aria come flotte che non si scontrano, per aprirsi, come a suggerire che anche gli oceani possedevano una scandita geometria tra le loro correnti finalmente disposte in ordine creativo, nell’aria diffusa d’indaco nei tramonti d’oriente.

    Dopo che il re aveva ufficialmente proclamato che il pianto era l’inutile dimostrazione di un sentimento senza nome, nel regno di Camilla vagava con rispetto ed euforia una specie di ultima estate prima del Giudizio Universale. Neppure i coccodrilli avevano più la forza di piangere e si era deciso di mettere al bando anche le cipolle. Nessuno osava più cercarne, a parte qualche cuoco romantico che lacrimava commosso e contento nel segreto di una cucina, sbucciando l’ortaggio di latte piccante e di resine sudate, come se fosse il suono della purezza, prima di tuffarlo nelle pentole traboccanti di schiuma, dove ribolliva la languida zuppa che il rovente cinguettio degli angeli lodava come uno dei bottoni dell’anima.

    Ogni volta che arrivava un temporale, interpretato dal re in un impeto di reminescenza mitologica come il pianto degli dei dall’invidia veloce e dal perdono ottuso, e quindi caduti per provvidenza dalle cime come fuochi rimasti senza fiato, la corte doveva scherzare e ridere, per dimostrarsi sorda al copioso pianto che, era pur vero, sgravava il rivoluzionario e anche poco estetico popolo delle nubi grigie e straccione per ringiovanire l’azzurro pianeta, ma alla fine era così poco consono a un regno creato dal nulla in secoli e secoli – non molti, secondo il re, se si mettevano in proporzione al risultato – di liturgico quanto geometrico progresso.

    Quando il re usciva dopo la pioggia, nel vedere i passeri al bagno nelle pozzanghere roteare le strette nuche, stirando i gomiti che incurvavano le ali, saltellanti di un godimento che era assai più che una semplice agitazione di gioia, preferiva non farsi domande su quell’acqua scesa anche solo per una trascurabile libidine della creazione che aspirava a rinnovarsi attraverso la commozione di un cielo, da cui nessuno pensava che più potesse venire qualcosa di nuovo.

    Di gran portata e assai più ardimentose ma gestite con delicata sensibilità, eppure non aliene a una virile spietatezza, perché i galanti sorrisi di re Porfirio rilucevano su un’indole tanto leggera da essere trapuntata d’egoismo come la maglia in ferro di un crociato, erano state le gesta del re nei confronti della storia. Da quando era bimbo il sovrano si era reso conto che le pagine dei libri, fossero leggendari, mitologici, letterari, poetici, musicali, politici o sacri, ma soprattutto pubblicitari perché i volumi risultavano così variopinti e popolosi da sembrare solo la pubblicità individuale di una logorroica umanità, grondavano di pianto. Eroi, profeti, storici, poeti ed esegeti non avevano scritto su rocce asciutte, essenze essiccate fino all’osso da ogni residuo di materiale imperfezione, ma sopra muraglie di pianto come se steli, incunaboli, tomi, volumi, fossero in ogni caso solo le rovine di templi possenti distrutti ancor prima di essere creati, e le parole non fossero mai state vergate né con il sangue, l’inchiostro, l’oro o qualche altro prezioso elemento, ma inevitabilmente con lacrime, che secondo Porfirio andavano a finire come i coriandoli dispersi sulle strade nell’ultimo e stanco sospiro di Carnevale.

    La scrittura umana era nata dalle lacrime, misfatto di cui non si doveva lasciar traccia alcuna e Porfirio era certo che, mentre il contadino tirava l’aratro sulla nera terra, rinomata immagine dello scrittore, quel giorno piovesse anche, da qui la paura della pagina bianca, perché superficie lavata da un abominio piagnucoloso.

    Gli eroi verdeggiavano in messi dal cuore grande, insorto dal buio sensuale di acque venusiane, e piangevano. I profeti camminavano su sentieri risorti da fonti di sangue – questi i pensieri del re – non ancora solcate neppure dalle sonde più lievi, e piangevano. I poeti partecipavano direttamente allo svolgersi dei canti angelici, e correvano a perdifiato per sfogliarli, perché gli inni delle schiere guerriere di Dio, secondo il re, non erano solo cantati ma anche contemporaneamente stampati su arie dove i simboli si imprimevano come fuoco sul sughero, e piangevano.

    In tutto questo processo c’era un intervento femmineo e inconcepibile, che si presentava quasi inattaccabile, in modo particolare da quando Porfirio si era convinto che il pianto permeava di sè non solo l’essenza della scrittura, ma anche la sua forma, perché in fondo cos’erano virgole e apostrofi se non la rappresentazione di lacrime di un’arte liquida? Non potendo bandire i libri, anche se l’avrebbe fatto con gusto, a volte infatti sognava di toglierli, cancellando biblioteche e librerie, questi indecorosi cimeli del pianto, il re decise che almeno a corte non fossero più letti in silenzio e individualmente, per tornare a dispiegarsi in letture collettive, in modo che il contatto tra l’occhio e i subdoli fiumi di lacrime fosse mitigato dalle suadenti voci dei lettori, che avevano ricevuto l’ordine di far ritornare il soffio delle parole in una calma ma soprattutto asciutta esecuzione. Sì, proprio esecuzione: con un perfido sorriso così Porfirio l’aveva definita, poiché ubbidiva al suo assoluto principio: sia morte al pianto della scrittura. Neppure la rugiada gli era gradita. Un rifiuto tenace e sdegnoso si era radicato in lui verso quella nube terrestre che peccava di omertà e di oblio, da quando suo fratello Nestore, inventore di teorie e marchingegni che secondo l’unanime parere del regno godevano di vita propria, gli aveva confidato che quello era il pianto impercettibile e indelebile della creazione, cresciuto sotto le ciglia di Dio per far ricordare all’uomo, e dimenticare a se stesso, l’ira e il timore che conseguirono alla cacciata dal Giardino perfetto dove, secondo il re: Di rugiada, nemmeno l’ombra.

    Ormai dovresti sapere com’è la natura, Porfirio – aveva sussurrato Nestore, rosso e solforoso come un cerino, un giorno all’orecchio del re –. Osservala bene! Primo: assomiglia alle donne, di noi maschi ha poco o nulla. Le donne vorrebbero bagnarsi di grandi lacrime, sia al mattino che alla sera. Pare che accada per una loro parentela con la luna, che da sempre è stata considerata la signora dei liquidi, e credo che sia anche vero a causa del suo peso. Che peso potrebbe avere il nostro satellite, Porfirio? Difficile da stabilirsi, perché anche se è stato calcolato, possiamo affermare che questo corpo in cielo ci sia o non ci sia? Non è né magro né in soprappeso, ma di indefinibile stazza. A volte compare persino trasparente. Tu devi comprendere che le donne vivono sotto la sottana di questo cerchio pieno di polvere, tondo e a fette come una particola lacrimosa – aveva continuato a sostenere Nestore strizzando un occhio – e la nostra natura è un po’ simile a tale gioco. Non appena si stacca l’aurora o quando il crepuscolo precipita, eccola che piange, interamente. È stregata dal pianto grazie alla luna e tu non potrai mai confutare questa inspiegabile relazione.

    Non è che sei un po’ stregato anche tu, oggi, caro Nestore? chiese Porfirio alzando il naso.

    "Non temerai un tradimento da parte mia? Dubitare del gene del tuo gene, Porfirio! Allora. Dicevo. Piangono le foglie, i fili d’erba, tutti i fiori, dai narcisi ai nontiscordardimé, i quali vista la lunga poesia che si portano nel nome, una ragione ce l’hanno. Piangono, anzi trasudano di pianto. Lo so, o meglio, posso comprendere. Lacrime lì, a terra, di primo mattino: invasioni di gocce che scorrono sulla nudità terrestre, non sono proprio un buon esempio. Ma che cosa ci vuoi fare: nemmeno gli oceani, quelli di sopra e quelli di sotto, ammesso che siano mai stati in verità separati, possono pesare come l’acqua di una sola donna! Infine c’è stata anche quella storia delle lacrime sulla luna.

    Comunque, il femminile è fragorosamente idrico".

    Quale storia?

    Si dice che sia esistito un eroe, Astolfo, pare si chiamasse, che cavalcò prima degli americani e degli indiani fin sul suolo lunare per cercare un’ampolla, una specie di boccia dove convolano le lacrime degli innamorati, guarda il caso vincendo proprio il peso d’attrazione tra la terra e il satellite. Quella è la vera marea da studiare, mio caro, quella è la vera marea! Le magnifiche onde e progressive dell’amore attratte in una provetta piccola come un mignolo, dove ovuli e spermatozoi sono uguali: gocce, Porfirio, gocce.

    A questa dichiarazione, il re era sobbalzato sulla sua poltrona di velluto blu e poi, dopo aver passato tutta la notte in personali raccomandazioni alla luna, nell’aurora del giorno successivo era sceso nel parco del castello senza neppure accorgersi d’essere nudo, indaffarato com’era con i suoi antichi fazzoletti, ormai considerati oggetti in via di estinzione, e le sue pezze blasonate, ad asciugare il giardino della corona foglia dopo foglia, non osando ovviamente svegliare la regina Samanta, sicuro che, visto l’affetto della sua signora per lui, non stesse trasudando alcun tipo di rugiada.

    Porfirio si sentiva trafitto dal costato ai talloni dalle innumerabili lacrimazioni del creato che intaccavano ogni segmento di conoscenza. "Il pianto – sussurrava ruggendo –. Questo deplorevole segno di scarsa dignità. Traditori, biechi traditori dalle vertebre di serpente, tutti quelli che lo difendono! È umano, sostengono, come se le debolezze che sviliscono il carattere e soprattutto spianano le sublimi cime dell’uomo, non si potessero correggere con la volontà. E ora Nestore mi viene a dire che l’aria in persona, la giovane trasparenza degli elementi, piange! Un tranello inaudito da parte del Creatore, infìda trappola! Proprio a me, che approvo ogni sua legge. Non piangerà anche Zefiro con diritto, come una volta mi è stato detto degli uomini? Gli uomini sono stati donati del diritto di piangere! Capricci, invece, ritengo! Capricci. E queste lacrime! Fasulli frantumi d’acqua senza valore, altro che gemme sconosciute, come quel cappellone di psichiatra di corte un giorno mi disse! Che i miei simili si tengano il fegato in mano di tanto in tanto, perché guardarlo fa bene, e poi si degnino di mettersi in relazione con gli altri abitanti del giardino! Con i grilli, per esempio! Che ne sarebbe dei grilli se ogni tanto li si sentisse scoppiare in singhiozzi nel parco? O dei pavoni, i miei signoreggianti pavoni, virili dandy sul trono! Dove andrebbe a finire tutta la loro fulgida gloria di smeraldo e ametista se al mattino li vedessi impigliati nelle molli ruote delle lacrime? È sufficiente una goccia, una goccia soltanto sul volto di un essere, perché la sua figura si sciolga come un gomitolo di lana in un termitaio.

    Io sto bene, sono in forma, vinco le malattie e ci sarà un perché. Non ho mai pianto. Se piangessi come potrei avere la sicurezza di poter prendere saggi provvedimenti per il regno!"

    Nella concreta traiettoria di queste conclusioni, il re passava da un fiore all’altro con tutti i suoi strumenti d’attacco contro la rugiada. Asciugava e asciugava, lottando come l’inconsapevole mano di una cameriera contro l’immortalità della polvere.

    A parte qualche imprevisto che gli rodeva persino il pudore, tutto andava a meraviglia per Porfirio, o quasi: un temerario delle cipolle o un fanatico dei temporali a volte gli venivano ancora presentati in giudizio con gli occhi arrossati dalla commozione, ma i casi erano diventati talmente smilzi che il re era persino felice di queste eccezioni che ergevano, come è risaputo, marmorea e monumentale la regola.

    Il regno visse asciutto e degno di lode, finché non giunse il giorno in cui la regina Samanta rivelò a Porfirio di essere in attesa di un figlio. Porfirio mise subito il regno in festa: quale occasione migliore per sorridere? Sollecitò banchetti, danze e amori. Il grande parco intorno al castello, che albero dopo albero andava scomparendo tra le enormi e alate danze del mare, prese l’incanto di una nuova spiaggia, perché tutto il reame esprimeva la sua gioia sotto le chiome degli aranci, dei cedri, dei pini e delle magnolie, venendo a portare la sua allegria e i suoi doni alla regina Samanta e alla futura principessa Camilla. Si radunarono angeli, fate, poeti, scienziati e attori.

    In quel tempo Porfirio, raggiunto da un alito d’intrepida e infantile libertà che gli faceva sentire insopportabile qualsiasi forma di catena, ordine, numero, legge, aprì le voliere dei pappagalli e delle tortore, sfilò i recinti dei pavoni, tolse le chiuse al rivo che si immetteva nei laghi dei cigni perché le onde alimentassero di fuoco le umide correnti, riprese a far scorrere nelle fontane l’acqua del mare, accettando, come confessava solo a qualche intimo, che riprendessero di nuovo a zampillare di sale piangente.

    Schiuse tutti i vetri delle serre, fece levigare con raffinatezza le terrazze e i vasi degli agrumeti, affinché vagabondasse con materna misericordia il profumo delle zagare, ricolmo di spirito mistico fino al pianto, e con un gesto domestico scoperchiò la volta dell’osservatorio come se avesse la speranza che anche l’infinito trovasse casa nel regno in quei giorni, tra gli edifici, le strade, i viottoli, le piazzette, i ponti, gli orti senza cipolle, ovvio!

    Anche nelle più azzurre mattinate non lo si vide più nudo ad asciugare la rugiada, e c’era chi andava bisbigliando che il re sospettasse che quando i fiori bevevano le lacrime d’aurora alla sera divenissero più profumati, come se in quel distillato di mattiniero cordoglio scorresse uno dei preziosi transiti della felicità.

    Il parco che da secoli, da quando era stato coltivato da un fantasioso avo del re così remoto da essere rimasto senza biografia, si apriva sul mare non rivelando mai la sua fine, e tanto era rigoglioso ed esperto nella sua creaturale vitalità, e nel contempo sembrava chiuso come la mano di un neonato che, pur minuscola, sembra afferrare uno scettro, forse un capello strappato a chi gli diede un bacio prima di santificarlo o sacrificarlo alla vita, alzava la chioma caduta in frammenti a un’Osanna terrestre.

    Anche le cose che non hanno un limite in apparenza, con la gioia maturano il peso di una dimensione osservava Nestore, fiammeggiante come uno zolfanello in mezzo alla moltitudine della festa che suo fratello aveva voluto in onore di Samanta, e intanto misurava il miracoloso fattore di rimpicciolimento di uno spazio arboreo ritenuto senza una fine.

    Ora, quest’attimo: perché sei pieno? Lo spazio tra gli uomini è la nota di un tasto pigiato in mezzo a un’orchestra, un tasto al di là d’ogni possibile ascolto, eppure se non ci fosse l’intero concerto non sarebbe integro. Il tocco inudibile e necessario. Avessimo le ali per svanire, o la misericordia di percorrere un corridoio invisibile di corrente, dal quale nessuno è in grado di tornare a narrarci che l’esistenza è stata, per un attimo, inascoltabile ma imprescindibile, e che non c’è incarnazione d’amore che possa sfuggirle quando è tanto voluta! Tutto è compiuto e inalterabile nella notte. Sarà forse per nulla? Ce lo chiediamo, ma nel contempo s’avverte che in un luogo il tutto è. E questo cielo, da dove ognuno pare venire alla vita per restarvi, è per sempre? Dov’è il suo cuore?

    Triste e lucente nei suoi pensieri, il piccolo uomo immobile era appollaiato sul ramo dell’albero più antico del parco, mentre l’orizzonte andava al suo nido nell’ultima ferita del sole. Fin da quando era bambino, sapeva salire fino al calore di una comprensione tenera e sconfinata senza che le sue ali, apparentemente di ghiaccio ma calde come se il sangue fosse miele, si bruciassero. Sugli occhi chiari eppure conficcati in un abisso, un velo di commozione sempre dissuasa, tenuta come una belva al guinzaglio. Il suo sguardo dalla sfida incantata, invincibile seppur piagato da uno spillo di sconfitta impresso come un neo di bellezza, scendeva indisturbato in mezzo alle donne e alle cose, in questo mondo disperatamente amato eppure altrettanto temuto, nel desiderio di comprendere in sé ogni natura, per poter ricamare nella frammentazione della realtà la finitezza di un centro, e scoprirvi un filo che, come in certi giocattoli, la facesse muovere in un modo nuovo fino a rivelarne l’aspetto più vero, l’attimo conservatosi perpetuo, infantile dentro la progressiva consapevolezza che il tempo fosse un’eternità solo per celia.

    Una venerazione ingenua verso la nudità del creato, un violento ma educato orgoglio, reso superbo non dal senso d’onore blasfemo e invidioso degli uomini, che antepongono la scienza dei loro concetti alla scorrevolezza profetica e illeggibile della vita, ma dalla regola inflessibile di una strenua quanto mai parlata interiorità, e un’inconfessabile delicatezza d’amore verso le caduche spoglie mortali, erano cresciute in lui nell’indomabile veemenza di una bontà così pudica che lo spremeva a volte verso una rabbia crudele, finché con gli anni non era riuscito a controllare le direzioni contrastanti del suo carattere nell’esercizio di un consapevole coraggio, e così lo stupore con cui i suoi occhi di adolescente avevano colto accensioni, nodi e cadenze intessute e celate nella trama di un vuoto inesistente e segnato dalle ali dei popoli invisibili di cui lui sulla terra distingueva il passo, l’avevano spinto a poco a poco a rivolgersi a un cielo, un giorno messo solamente tra parentesi per non concedersi la banalità di un risultato veloce, e aveva iniziato a volare come il fumo bianco di certi camini, lontano, in alto verso gli archi dei guerrieri celesti dall’ignota genesi semidivina.

    Un’invisibile carezza era diventata il sostegno di una dolorosa dimensione, e ciò che prima nelle sue pupille scuoteva, ora era diventato impenetrabile come una pennellata d’olio nero in un raggio laser.

    Nulla sfuggiva alla sua natura di predatore. Anche in quella felice sera disciolta in rosati tremolii, seguiva il capello della fata Berenice, impigliato a metri e metri di distanza tra le ali dell’angelo Titania, le ali più sensibili che mai si fossero viste nel regno, create per contenere e proteggere una donna, che lui non osava più raccontare nemmeno a se stesso e di cui non pronunciava quasi mai il nome, avendolo un giorno cantato a un cespuglio di biancospino, per poi tacerlo per sempre.

    Nel frattempo Carta, il folletto del re, così chiamato perché ogni sera all’animale ticchettio del crepuscolo volava leggero e inamidato come un foglio di quaderno senza apostrofi né virgole, trasparente sotto la luce della sua lanterna laccata di bianco, stava calpestando il pizzo dell’abito che le sarte del regno avevano creato per la regina Samanta. Il merletto verde, che componeva in nervature di filo di seta, rose, iris e margherite, faceva pensare alle acque minerali di una grotta, quando al ritmo posato delle gambe della regina fluiva dall’erba fino alla sabbia dove il parco scendeva nel mare in una distesa di gigli e liquerizia. Il piccolo uomo sul ramo stava aspettando il momento giusto per andare dal re, perché il suo compito era di rivelare a Porfirio il segreto che ormai custodiva da tempo. Nati lo stesso giorno, il re e lui erano cresciuti insieme, erano stati gemelli fraterni, compagni di studio, per ritrovarsi amici ogni giorno. L’infanzia è madre anche tra i cuori di sangue diverso e li attira fino alla fine in un’armonia sottocutanea: quando si è stati contemporaneamente bambini, e mai per caso, perché la contemporaneità delle infanzie è un tempo disposto da una fioritura promessa, si può arrivare a sovrapporre le proprie vite senza che l’inganno della diversità le separi fino in fondo.

    Su quel ramo allungato sopra la felicità di uomini e donne, distesa tra veli, sete, broccati e i velluti ridenti, l’uomo ricordava la sera in cui la vecchia scrivana del regno gli aveva rivelato che un giorno avrebbe dovuto confidare a Porfirio ciò che, ora, doveva dirgli. Dovrò farlo? – si chiedeva dall’inizio della festa –. Aspetterò che le lucciole vadano a dormire, secondo la nostra prima abitudine. Ci si parla dopo che le lucciole non volano più. Compagnie di lucciole si inarcavano tra gli oleandri, i melograni e le agavi; ampolline d’olio si fissavano in un campo sospeso alle spalle della folla gioiosa e indifferente. Poi si spensero, quindi l’uomo scivolò dall’albero, in silenzio come una goccia, e i suoi occhi d’angelo e di falco osservavano il re sorridente tra gli invitati.

    Camminò deciso verso di lui. Manfredi era un guerriero, il soldato più bello e senza pace, di un regno che si ergeva tra deserti di spiagge sperdute sui frastornanti echi degli oceani in piena, e mille e mille, città crescenti. Gli scudi degli Universi proteggevano il regno come scorze d’arance deposte su una fonte di calore per esalarne il succo dei pori. In quel tempo forse altri eroi conducevano una storia sui mondi che apparivano di tanto in tanto, infuocandosi nell’atmosfera come messaggeri spronati dal nome di Dio, in soffio tra i numeri, in nome tra i verbi, per poi lasciare la storia complessiva del firmamento ancora una volta esatta. Forse altri stirpi d’indole intrepida e mite vivevano oltre i confini del regno oppure avrebbero visto la luce quando Manfredi non ci sarebbe più stato. Ma anche se ripetibile, il coraggio quando viene al mondo è un sentimento di una rarità commovente perché infonde alla vita di tutti gli esseri una spinta; è l’utero da cui rinasce la sprovveduta fiducia nell’uomo, per questo il coraggio cade, spesso vittima del facile disprezzo e di una feroce volontà di estinzione. Scomodo contemporaneo, l’umanità lo ama solo nella benedicente tolleranza del ricordo. Cade, ma è seme.

    Manfredi attraversava la festante moltitudine nella sua andatura solenne, triste eppure scanzonata, come una parentesi leziosa in mezzo a cifre complesse, un acerbo miscuglio di lentezza e velocità, incertezza e stabilità, tanto che i piedi fasciati in calzature di daino amaranto, cucite per galateo del regno dalla regina in persona, non piegavano l’erba ma la scarmigliavano come una brezza, come la mano della madre fra i capelli della figlia. Solo di tanto in tanto, il piede destro, quasi avesse dovuto portare un peso straniero, vacillava in un passo, un solo passo. Era l’unico uomo che gli anni, pur posandosi su di lui come stagioni barbute, avevano abbandonato in un’infanzia audace e innocente, che qualcuno o un fatto aveva osato calpestare prima del tempo.

    Ma una volontà amorevole l’aveva nel contempo raccolta e custodita, impedendo che si aprisse solamente alla vendetta, anzi dandogli l’opportunità di non dischiudersi mai, come una bocciolo che, sfinito in primavera da una tempesta inattesa, autore poi di un fiore marcito, si riscatta in un frutto superbo durante un inverno speciale sotto una nevicata angelica.

    La sofferenza, che gli premeva sul cuore e sul corpo senza piegarlo al rancore, che ogni tanto gli faceva scricchiolare le ossa, e l’ira, che con i suoi chiodi gli bloccava a volte il respiro, gli avevano procurato dei meriti e tra questi il privilegio di essere il custode di tutte le future e segrete vicende del regno. Quelle rivelazioni che come dischiuse pratoline sui fossati, la vecchia scrivana, pingue come un pulcino, coglieva di prima mattina nel recinto del parco riservato solo agli angeli, dove la rugiada si stendeva in vesti mai mostrate neppure a Porfirio, venivano donate a Manfredi quando, sfatto e tremante, raggiungeva di notte la casetta sopra la rossa quercia con le radici nel mare, e distendendosi sul giaciglio riservato solo a lui diceva, ormai coperto dal sonno: Ciao vecchia, sono tornato perché ho bisogno delle tue leggende. Avanti, raccontami l’avvenire. Dormendo Manfredi raccoglieva i segreti, convinto che fosse proprio il sonno il luogo dove siamo più aperti a ricevere la verità creata, sulle cui funi noi possiamo vagare a patto di non farci attrarre dalle gole voraci sotto di lei.

    Le narrazioni, scolpite dall’energia delle stelle nelle implumi gemme del parco e nelle corolle ancora chiuse come ciglia di neonati, vicende che solo la scommessa clandestina del tempo avrebbe forse fatto sbocciare, si posavano in mezzo ai sogni di Manfredi senza tentarli, libere finalmente dall’inaccessibilità dei silenzi celesti per imprimersi come ricami sul manto silente di quello spirito, che accettava di essere uguale giorno dopo giorno, e si riposavano dondolando, come splendidi velieri a cui è concesso, senza aver mai toccato un porto, di affondare sui piani dei più azzurri fondali.

    La vecchia raccontava ciò che l’incalzante futuro le aveva passato e Manfredi nel suo sonno, in cui le dimensioni sconosciute si facevano via via reali grazie a parole di una donna in veglia, raccoglieva tanti inanellati destini in mazzi gentili, bianchi e gialli, così come aveva composto, in quel tempo infante dei primi anni, durante le sue corse lungo la campagna come un’orsa alla ricerca dei suoi cuccioli, i narcisi destinati agli altari.

    Le arcane combinazioni delle vite si mettevano in moto nelle sue notti e scendevano nella profondità della sua memoria dormiente, rimanendo celati, perché uno spirito si schiarisce quanto più sa far spazio all’alba di un segreto, poiché un segreto non ha tempo ed è sempre eterno, e quanto più uno spirito partecipa di questa eternità, tanto più trova in se stesso la bianca pace dell’agnello, così si può avere un’idea più precisa di un uomo a seconda dello spazio di protezione che è disposto ad aprire intorno ai suoi segreti, perché non è la storia che scorre esternamente a proteggerci, siamo noi che dobbiamo proteggere la storia a venire nell’assenza del tempo che s’alza nel braciere della nostra intimità.

    Quando depositiamo una cosa nascosta nell’animo, scendendo la cosa ci fa percepire le valli del suo silenzio ed è proprio da questa profondità che noi possiamo riconoscere l’ombra del nostro cuore. E chi trattiene in se stesso le cose che non devono avere parole, è consapevole che l’importanza di tenerle nascoste non sta nelle possibilità, generalmente nemiche, che esse potrebbero suscitare una volta palesate, perché se così fosse il custode rivelerebbe già una propensione a godere dei fatti e a rivelare il segreto proprio non in quanto tale ma in quanto ragno che tesse tele, che una volta scoperte si incrinano, invece, come per i fiori che stanno in un angolo di terra irraggiungibile, la loro bellezza si ripone nella virtù del fatto che noi ne siamo irraggiati senza saperlo anche da sconfinate lontananze, così anche per gli arcani indicibili è destino che indicibili rimangano proprio per l’amore che fanno crescere intorno nelle cose, perché le uniche parole che trovano sono quelle impresse e non ancora pronunciate se non da un alito di stelle nello spirito di un uomo.

    Un segreto che prospera anzitempo nel cuore di una persona cambia anche il linguaggio ed è la chiave che risolve il destino di molte altre, ecco perché non si deve avere vanità nel bene e piangere inutilmente, con lacrime accorte e facili, nel male, e perché nel confidare un passato giungente non si deve scegliere il confessore dalla saggezza della sua risposta, ma dall’immensità di silenzio che ci mette a disposizione e in cui riconosciamo la parole con le quali quello stesso passato vive in noi, fino ad amarne le ragioni sconosciute delle sua esistenza, consapevoli che la vita dell’umanità si nutre più delle ultime radici dolcemente infiltrate nelle provvidenti aperture del cielo che delle aspre bacche delle quotidiane notizie.

    Allo stesso modo dovremmo diventare silenti nel non conoscere, più che sfacciati nel voler conoscere, soprattutto il futuro, perché ciò che è detto con leggerezza tradirà altrettanto con leggerezza l’inconoscibile linguaggio che nutre la vita. Il nostro compito è di aggiungere olio alle lampade, non di misurare la quantità di olio, altrimenti le lampade bruceranno di fiamme prive di luce.

    Così si può dire che non ci fosse luce in cui il regno di Porfirio vivesse con più gloria e certezza che quella della fiamma di candela in una stanza sopra una quercia, quando la vecchia nutrice raccontava a un ragazzo, ribelle e fasciato dalle ferite delle sue stesse ribellioni, le strade sconosciute del cielo che brillavano dentro l’oceano, il parco, il castello, la stanza delle spolette di filo.

    Dalla notte in cui gli era stata narrata quella storia che un giorno avrebbe dovuto chiarire all’amico, Manfredi aveva tenuto con sé il racconto, come una spina di rovo nel polpaccio, e a volte, guardando il re, lo sentiva bruciare, così, leccandosi la punta dell’indice, si strofinava poi la pelle della gamba. Perché ti lecchi il dito adesso che sei grande, Manfredi? Se non l’hai mai fatto nemmeno quando eravamo più piccoli? chiedeva il re che non si era mai abituato alle stranezze del suo generale.

    C’è sempre una sorpresa sconosciuta e dolce sulla pelle. L’hai mai notato, Porfirio? Non si ha mai la stessa pelle del giorno prima e non è solo una questione di rughe! Invece, sai che le rughe più che il passato indicano il futuro? sussurrava Manfredi, con l’aria di chi si trova a dover leccare la marmellata che non ha mai osato rubare, come se le leggi mai infrante non portassero omertà nell’uomo ligio, ma lo solleticassero con un certo dispetto, per rimproverargli la paura di quanto non ha mai infranto.

    Non importa – Manfredi aveva deciso –. Ora non devo perdermi in ciò che non conta. Ora che le lucciole sono volate a spegnersi in mare, ora è giunto il momento di dire a Porfirio la verità. Avanti, piccolo uomo, non temere.

    Passava assorto tra la gente e mentre sfiorava i loro pensieri, molti si fermavano a guardarlo, perché nessuno, nemmeno donna Verdiana, la donna più desiderata del regno, poteva restargli indifferente, di tanto nitore era il suo volto e pesante la sua bellezza.

    Manfredi era piccolo, levigato e vulnerabile. Il suo corpo aveva imponenti particolari; il naso, il collo, le mani, le ginocchia, e più di un riflesso faceva intravedere in lui, negli occhi celesti, nella curva delle ciglia, le labbra ferme intorno a un desiderio taciuto, il profilo intagliato con delicata fermezza, un profilo di uccello, la mano di un creatore innamorato e presente, soprattutto vigile, come se, anch’Egli invaghito della storia, ad ogni creatura nuova avesse deciso di infondere una maggiore verità del suo aspetto. Di indole chiusa in giochi invisibili, era predisposto agli eccessi. Entusiasmo e tristezza, tenerezza e comando scoppiavano sulle alte catene della fronte come temporali d’aprile, mentre il suo aspetto rimaneva contemporaneamente saldo come una corona di ferro.

    A volte si chiedeva le ragioni del destino eroico in lui tatuato, un fato che fino a poco tempo prima sembrava scomparso dalla storia.

    Solo i pigri hanno una spanna di eroismo, perché non sono vanitosi e la vanità, ringraziando il cielo, non sarà la tua agonia, Manfredi gli aveva detto il suo maestro nell’arte della guerra, e quando, passeggiando ancora adolescente nel parco del castello, si chiedeva chi fosse in verità e perché ancora una volta nella storia ci fosse stato un ragazzo come lui che non poteva separare la coscienza in un bene e in male dai colori comuni, riusciva a spiegarselo mentre, nel vedere un merlo e un gatto con un muro in mezzo e a più di dieci metri di distanza, ascoltarsi come un musicista il suo strumento, avvertiva nella corrente che passava tra loro una vena del suo sangue, in cui almeno un battito del cuore si alzava, contuso e cristallino, per opporgli la resistenza di un agguato.

    Non osava crederlo! Era arrivato anche il tempo di informare Porfirio di quel fastidioso particolare. Sorrise tra sé, come se il presente fosse un filo d’erba tra le dita,

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