L'isola delle correnti
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Anteprima del libro
L'isola delle correnti - Manuela Curioni
L’ISOLA DELLE CORRENTI
racconti di viaggio
Di
Manuela Corioni
I disegni sono dell’autrice
Prima edizione cartacea: 2014
Prima edizione ebook: 2015
Copyright ©2015 Polaris
ISBN 9788860591678
Casa Editrice Polaris
www.polariseditore.it
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Sommario
Prologo
La partenza
Le Norie dell’Oronte
Inverno veneziano
Sulle rive del lago Turkana
Luce del Nord
Il bagno turco
Le anatre del Regnitz
La peche c’est mauvaise
Il profumo dei chocos
La sposa bambina
Il paradiso terrestre
Acqua e cenere
Il villaggio bavarese
Aguateca
La fotografia
L’oasi
La città più piccola del mondo
All’ombra del vulcano
Il cantastorie
La tomba fantasma
L’orto dei frutti dimenticati
Odore di suq
Templi, scimmie e foreste
La pizza volante
Le voci di Granada
Preghiera tibetana
La città sul Bosforo
Il cielo di Tozeur
Il deserto più triste del mondo
Alla ricerca del sapone perduto
La Casa dos Pastéis de Belém
Stupore africano
Columbia Road
Il paese fra le montagne
La via dei presepi
Puna andina
La capitale dei Nabatei
Il mercato dei fiori
I cortili della storia
Louis
Notte bianca
Calma berbera
I sentieri del colore
Uova di Pasqua e ricordi di bambina
Il letame di Thame
Il viaggio
Il ritorno
Prologo
I capperi dovevano profumare di sale, sull’Isola delle Correnti, perché lì intorno tutto era intriso di salsedine, l’aria, la sabbia, le rocce che affioravano dai due mari... quel gusto salino ti si appiccicava addosso come una seconda pelle.
Mi era piaciuta l’idea di camminare su quella minuscola isola davanti alla quale si fermava uno dei sentieri più lunghi al mondo, dopo un viaggio di oltre seimila chilometri attraverso le Alpi e gli Appennini. Anche se il Sentiero Italia non l’avevo percorso, bastava arrivare in vista dell’Isola per capire che quello era il finis terrae, l’ultimo approdo per occhi e piedi prima del confine incerto dell’acqua.
Quando era la pazienza dell’uomo a vincere, la terra entrava nell’acqua con una lingua di pietra e raggiungere l’Isola diventava una sfida tra ragazzi, con le correnti che annodavano spirali liquide intorno alle gambe. Ma quando era la forza dei due mari a prevalere, quel guscio di conchiglia su cui crescevano capperi e porro selvatico rimaneva isolato. L’avevo vista così, l’Isola delle Correnti, circondata dal Mediterraneo e dallo Ionio che l’abbracciavano come due amanti gelosi, rendendola irraggiungibile.
Respinta dai flutti mi ero accucciata in vista dell’Isola e del profilo del suo vecchio faro, che occupava, con la mole di un fortino in stato di abbandono, quasi l’intero perimetro. Le onde del Mediterraneo lambivano le coste occidentali, solcate da appassionati di kite surf i cui aquiloni vibravano come polmoni gonfi d’aria: erano onde adulte e cattive. Quelle dello Ionio, invece, bagnavano l’Isola da oriente, dopo aver viaggiato lungo un tratto di costa dai bassi fondali che non offriva il riparo di una spiaggia: erano onde bambine e capricciose. Assistevo, proprio di fronte a me, all’incrocio dei due mari che dava il nome all’Isola: nello scontro ciascuno smorzava la rincorsa e lasciava che le correnti si annullassero in uno strano mugghio di acqua che ribolle. Pochi secondi di tregua e già intravedevo lo slancio delle onde successive, in una marcia ostinata e senza senso come lo sono certi destini. La lotta tra i flutti gettava al vento riverberi d’acqua che raccontavano di arrivi e di partenze. Era stato allora che avevo ripensato ai miei viaggi, agli arrivi e alle partenze con cui avevo attraversato confini e città per scoprire come l’uomo si fosse adattato all’ambiente finendo per addomesticarlo. Mi tornavano in mente le città da cui si parte, protese verso l’orizzonte come la cittadella di Bonifacio, e le città a cui si fa ritorno, come quella natale. Rivedevo le città cresciute intorno all’acqua, ragnatele di fiumi e di canali tra cui Budapest e Venezia, e le città che appartenevano invece all’aria, come Granada e Istanbul, percorse da voci e da gabbiani. Ripensavo a luoghi leggendari generati dalla terra e dalla fantasia degli uomini, Aleppo... Timbuctù..., per inseguire i quali in molti avevano rischiato la vita; ma pensavo anche a minuscoli posti sconosciuti come Chaunaca e Thame, così nascosti nel grembo di vallate di montagna da non sfiorare neppure in sogno i viaggiatori.
E sopra l’insieme dei ricordi, sopra le piazze e i mercati, le strade, gli odori di cibo e i volti della gente, sopra a tutto questo si accavallavano le immagini delle città magrebine e del Medio Oriente, dopo quei mesi di sangue che avevano dato ai miei appunti di viaggio il senso che qualcosa fosse finito per sempre, un certo modo di andare in giro per il mondo che ci aveva lasciato ignoranti, noi viaggiatori occidentali, sulla sete di libertà che serpeggiava in quelle terre. Chissà se le parole del signor Rashid Al Halak risuonavano ancora nella penombra dell’antico caffè, davanti al fumo dei narghilè e all’odore di felafel, e se sarebbe esistito un tempo in cui il Cantastorie di Damasco avrebbe narrato le gesta non di personaggi di fiaba ma di uomini in carne ed ossa, che un giorno avevano dato la vita perché credevano in un mondo migliore.
Il vento vorticava intorno all’Isola delle Correnti, mischiando ricordi e albatros sulla costa della Sicilia; su quella sabbia bagnata, dove si era arenato il mio viaggio, le labbra del mare depositavano conchiglie.
Un viaggio parte dall’acqua, fin dalla notte dei tempi.
Prima di ogni mezzo di trasporto fatto da ruota di bicicletta,
dorso d’animale o veicolo a motore,
c’è sempre stata un’onda ad aspettare il piede dell’uomo
che desiderava andare oltre la geografia dei continenti,
diventando esploratore.
Le città d’acqua hanno movimenti insoliti:
sciabordii, risacche, gorghi e marosi;
vivono affacciate all’oceano o sono attraversate da fiumi e canali
che separano e uniscono, come le maree.
Sono città che vanno alla deriva portandosi dietro
altalene di onde trascinate come pesci, all’infinito.
Il mare che circonda Bonifacio, nel sud della Corsica,
è acqua che invita alla partenza, alla fuga in avanti
con lo sguardo per cercare quello che non si vede ancora,
ciò che si nasconde oltre la linea dell’orizzonte.
La partenza
Da qualunque punto la osservavi, non importa se di mare o di terra, la cittadella appariva sempre irraggiungibile, maestosa e fragile al tempo stesso come le falesie su cui era stata costruita. I suoi balconi protesi sopra il vuoto lasciavano lo sguardo libero di dilagare sino all’orizzonte, ma era impossibile varcare quel confine d’acqua senza immaginarsi una partenza, di quelle che ogni persona sa essergli riservata almeno una volta nella vita.
Una partenza così improvvisa da non lasciare nemmeno il tempo di un saluto, ché sarebbe sufficiente a conoscere rimpianti e a provare paura per lo sconosciuto che ci aspetta. Una partenza da sognare come il volo d’un gabbiano, forte e teso contro il vento che la sera sospinge verso il calcare bianco.
Una partenza che non conosce arrivi, e supera d’un fiato la costa dell’Italia che la foschia avvolge in penombre fumose, e si lascia alle spalle i riflessi delle acque, le falesie mangiate da venti secolari, le case alte e strette a inventare lo spazio per viverci, in cima a scale ripide di cui non vedi la fine, le persiane aperte su fili di bucato che qualcuno ha dimenticato ad asciugare, e sul corpo di una donna araba che si gode il passaggio della gente sotto la sua finestra, mentre forse prova nostalgia ripensando a una strada di sassi bianchi che attraversa una città