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Igitur. L'economia può fare a meno di Dio?
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E-book342 pagine4 ore

Igitur. L'economia può fare a meno di Dio?

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La finanza è stata la causa della crisi globale. La sua egemonia le ha consentito di sconfinare da quei limiti che le avevano permesso per tanto tempo di essere ausilio allo sviluppo. La sua fisionomia è cambiata. Essa è diventata la misura di se stessa. Il suo obiettivo è produrre denaro con altro denaro. Viene maneggiata per procurare ricchezza, attraverso operazioni e strumenti artatamente creati a tale scopo. È cresciuta a dismisura, a tal punto da avere smarrito il senso della sua funzione. È divenuta lo spazio sacro capace di attirare l’attenzione degli stregoni dell’economia, l’eldorado che consente alti guadagni, acquistando e vendendo carta. I suoi rappresentanti sono convincenti e persuasivi. Le leggi per imbrigliarla e darle un assetto più regolato e trasparente sono state abolite. La deregolamentazione ha ampliato la sua libertà di azione. Le transazioni sono aumentate e i guadagni schizzati alle stelle. Intervenuta la bolla, il ciclo si è invertito e la ricchezza si è disintegrata. Gli Stati sono intervenuti a salvataggio non delle vittime ma delle banche, responsabili di quanto era accaduto, con fiumi di liquidità. Il sistema finanziario, tonificato da questo sostegno, è ripartito all’attacco, scagliandosi contro i debiti sovrani dei paesi periferici dell’Eurozona. I Governi, succubi dei mercati, ripetono il solito motivo: la necessità di sacrifici, richiesti sempre ai soliti cirenei e mai ai responsabili.
Occorre mutare la logica che sta dietro l’economia, recuperandone il senso originario, e cioè essere al servizio dell’uomo. La morale è il pilastro su cui fondarlo. Una morale che deve trovare al di fuori di sé le ragioni della sua legittimazione. Non una morale soggettiva, in base alla quale tutto sarebbe accettabile. Se fosse questo il criterio, ogni comportamento sarebbe moralmente plausibile e quindi arbitrario. Occorre stabilire criteri morali condivisi, che impegnano coloro che vi aderiscono. La morale impone la ricerca della verità. Questa operazione richiede la fissazione di un collante comune. Le religioni possono assolvere questa funzione? La parola di Dio, contenuta nelle Scritture, può rappresentare la pietra d’angolo su cui ancorare questa morale?
La Scrittura accredita un’economia che rappresenta gli interessi di coloro che sono graditi agli occhi di Dio, come il povero, lo straniero, l’emarginato ed esprime un ordine che esclude lo sfruttamento e l’avidità. La ricchezza deve essere distribuita in modo equo. L’economia può arrecare grandi vantaggi all’umanità se recupera la dimensione etica, dove la persona assume un rilievo fondamentale.
Andiamo verso il futuro e cerchiamo nuove strade, per intraprenderle occorre avere coraggio. Duc in altum!
LinguaItaliano
Data di uscita19 feb 2013
ISBN9788868220068
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    Anteprima del libro

    Igitur. L'economia può fare a meno di Dio? - Felice Lopresto

    FELICE LOPRESTO

    IGITUR

    L’economia può fare a meno di Dio?

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2013

    Isbn: 978-88-

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mio Padre e a mia Madre

    che mi hanno dato la vita e la fede

    Prefazione

    La prefazione è considerata solitamente una breve introduzione ai contenuti di un libro, una specie di rito dal quale non si può prescindere, invece ne dovrebbe costituire la parte più importante, per dare ai lettori una chiave di lettura del percorso affrontato dall’autore. Muovendomi con questa logica, ho accolto l’invito a scrivere questa prefazione, proponendomi di riuscire a far provare le stesse suggestioni di chi il libro l’ha scritto con la penna e col cuore, facendo anche memoria delle sensazioni provate dopo la lettura de Le regole del mercato senza regole dello stesso Autore.

    Tra gli scopi che può avere uno studio sull’economia c’è quello della funzione dell’utilità generale, intesa come capacità di far conoscere agli altri i caratteri della scienza economica, le leggi del mercato e i valori dei beni economici, che si ritiene possano contribuire al benessere collettivo. In questa direzione si è mosso l’autore di Igitur, L’economia può fare a meno di Dio?

    Alla base della progettazione del libro c’è il convincimento che l’economia è una scienza sociale e in quanto tale si occupa di persone, delle loro necessità e cerca di dare una risposta al modo in cui le risorse si distribuiscono. I concetti dell’economia e la loro interpretazione assumono, nello scorrere delle pagine, una valenza umanistica, proprio perché il fine dell’economia non sta nell’economia stessa, bensì nel senso umano e sociale che essa deve possedere. Perché si attui un umanesimo integrale occorre evitare ogni forma di economia nella versione liberista, pur in senso moderno, per evitare che il concetto di libertà si traduca in individualismo o peggio in egoismo, trascurando così i valori della solidarietà e del bene comune, che sono un prerequisito dell’efficienza economica.

    Il libro si apre con una Introduzione nella quale Felice Lopresto espone le ragioni che lo hanno spinto alla redazione di questo volume: la crisi del debito sovrano, la constatazione delle disuguaglianze economiche e della cattiva distribuzione della ricchezza, l’autoreferenzialità della finanza, l’importanza della centralità della persona nel superamento della crisi attuale. Temi questi che sono trattati con pertinenti ed efficaci riferimenti bibliografici nelle due parti delle quali è costituito il libro.

    Nella prima parte, Il naufragio. Resoconto di una crisi, dopo un approfondito esame della crisi del sistema finanziario, si stigmatizza l’obiettivo del profitto fine a se stesso, l’assenza di un’etica nell’economia e l’instabilità del sistema: «La causa strutturale della crisi attuale è un’economia lasciata alla mercé del libero mercato, accompagnata da una crescita a dismisura del sistema finanziario».

    Di fronte ai disastri provocati dalla crisi, gli Stati anziché soccorrere le vittime, sono intervenuti in aiuto dei responsabili: segno che la crisi economica è diventata crisi di civiltà.

    Serrata appare la critica alle Agenzie di rating, più severe verso i paesi dell’eurozona che verso gli Stati Uniti, loro paese di origine.

    La speculazione finanziaria, con le alchimie create da hedge fund, fondi pensioni ed agenzie di rating, ha messo sotto pressione l’euro ed ha generato quella paura che «consente di fare accettare le politiche fatte di sudore, lacrime e sangue». La conseguenza è inevitabile: gli investimenti sono insufficienti e la disoccupazione rimane alta. E fin quando il sistema finanziario «rimarrà l’unico protagonista dello scenario economico» difficilmente se ne potrà venir fuori.

    Leggendo la prima parte del libro si ha l’impressione di percorrere una strada tutta in salita e senza sbocchi, dove la crisi della finanza e l’economia di mercato sembrano non consentire vie d’uscita; quando poi si scorrono le pagine della seconda parte, L’approdo, si apre un orizzonte di speranza, che il lettore intravede, perché l’Autore lo rende visibile con solidi argomenti, da un sapere maturato attraverso lo studio dell’economia, della filosofia e teologia, e dal convincimentio che Dio rappresenta la risposta che appaga l’ansia e la domanda di senso dell’uomo.

    Nella ricerca delle cause della crisi della finanza, si sostiene che le ragioni del declino economico siano da individuare in un’etica che ha trasferito l’attenzione dall’uomo al dio denaro. L’avidità e l’egoismo sembrano essere i mali che impediscono di «fondare un’economia a misura d’uomo e al suo servizio» e di fronte alla supponenza di chi afferma che la ricchezza non sia una colpa, si deve ricordare che questa invece lo è fino a quando «esistono i poveri, gli affamati, gli assetati e i senza tetto». C’è bisogno, dunque, di un’etica – mette in risalto l’Autore – che si ispiri alla crescita umana e alla società dove trovano posto «le virtù della saggezza, della giustizia e della bontà».

    Alla domanda se è proprio vero che l’etica e l’economia siano mondi a sé stanti pur avendo avuto un’origine comune, la risposta di Lopresto è chiara: occorre liberarsi dalle spirali di un’economia predatoria per dare spazio ad un’economia al servizio dell’uomo. Tale risposta non deriva soltanto da una convinzione personale, ma soprattutto dall’approfondimento di autori passati e recenti, come, per citarne solo alcuni, Kant, Hume, Marx, Latouche, Galbraith, Sen, Krugman, Stiglitz, che propongono modelli culturali capaci di affrontare i problemi economici in funzione delle necessità dell’uomo.

    La legittimazione di un’etica per tutti, presuppone anche l’individuazione di una verità, «una realtà che gli uomini cercano di conoscere e di cogliere nella sua identità più intima», e di una oggettività in etica. Temi che l’Autore affronta con argomentazioni stringenti. Partendo dal pensiero di Rawls ripercorre criticamente le riflessioni di Nagel e Sen, e mettendo a confronto le diverse teorie giunge alla conclusione che diverse concezioni sull’argomento pervengono al risultato di «richiedere l’uguaglianza di qualcosa […] perché si avverte un bisogno di oggettività in etica».

    Come rompere, allora, la prigione della soggettività? Con un’etica individuata nella dottrina dei Padri della Chiesa, e nei principi presenti nelle grandi religioni e in particolar modo nell’ebraismo e nel cristianesimo. Solo Dio, afferma Lopresto, garantisce giustizia e la sua legge tende all’uguaglianza, come obiettivo per una retta economia.

    Nell’ultimo capitolo La fraternità: utopia o realtà? si legge un messaggio di speranza allorché l’Autore mostra di credere nell’adozione del principio di fraternità se solo i grandi attori economici penseranno a un processo che utilizzi le risorse per ridurre le disuguaglianze: «esiste una minoranza profetica, e l’esempio di esperienze di economia di comunione la rappresenta autorevolmente, che ha intrapreso un cammino volto a modificare i modelli ricorrenti di relazioni economiche, secondo criteri di giustizia e solidarietà, in una parola di fraternità».

    Nel contesto in cui viviamo, colpito da scandali, casi di corruzione, da assenza di etica e noncuranza del bene degli altri, proporre una riflessione sul rapporto tra economia e fraternità può apparire di dubbia utilità. L’autore, invece, ritiene che la fraternità sia possibile in campo economico e in qualsiasi processo sociale finalizzato alla costruzione del bene comune.

    Felice Lopresto, con abilità comunicativa e rigorosa scientificità sorretta da una vastissima bibliografia che dà solidità al lavoro, cattura l’attenzione del lettore fino a coinvolgerlo nello sviluppo di un ragionamento inteso a fissare le idee guida per realizzare una società più giusta e più equa. Partendo da una visione antropocentrica, critica ogni forma di tornaconto che trascura la dignità e genera disuguaglianza, come già scriveva già nel suo precedente libro, Le regole del Mercato senza regole, quasi a voler sottolineare la continuità ideale tra questo e quel libro.

    Nel testo ci si imbatte, talvolta, in accostamenti a prima vista contrastanti, si tratta di espedienti letterari con i quali l’Autore cerca di tenere desta l’attenzione del lettore incalzandolo nei ragionamenti. E in ciò si evidenzia una certa funzione pedagogica, non ricercata ma spontanea, che non nuoce affatto alla finalità del testo, anzi ne arricchisce il valore. Per tutte queste cose Igitur. L’economia può fare a meno di Dio? È un libro coinvolgente e fruibile sia dagli addetti ai lavoriche dal lettore comune, i quali troveranno nelle diverse pagine spunti di riflessione, motivi di speranza, il senso di un’economia al servizio dell’uomo e soprattutto le direttrici indispensabili per dare senso alla vita umana.

    Angelo Avignone

    Introduzione

    Per quanto oscuro sia il presente

    l’amore e la speranza sono sempre possibili.

    (George Chakiris)

    Il testo che sottopongo all’attenzione dei lettori vuole essere una sorta di continuazione del mio precedente lavoro, Le regole del mercato senza regole, nel quale non ero riuscito ad affrontare, se non per cenni, la crisi della debito sovrano, che cominciava ad intravedersi proprio contestualmente all’uscita del volume. Per cui ho avvertito la necessità di affrontare l’argomento, cercando di spiegare le logiche, forse le meno evidenti, che ritengo meritevoli di segnalazione e indicando i rischi che possono derivare da un capitalismo autoreferenziale e predatorio contaminato dal morbo della finanza.

    Ancora di più ho desiderato ricercare le ragioni, le ragioni profonde che hanno portato l’economia a rimanere impigliata in un cul de sac, dove la responsabilità maggiore è da imputarsi in primis alla logica intrinseca del capitalismo, il cui scopo è il solo profitto. Se il guadagno in sè ha una sua ragion d’essere, la perde, se è eccessivo. La ricchezza quando è esagerata e conseguita provocando ingiustizie e povertà disturba. La finanza rappresenta la forma evoluta di questo capitalismo, dove la ricchezza cresce a dismisura e il senso di responsabilità si affievolisce. La ricchezza prodotta non crea legami con il territorio, dove si manifestano bisogni di persone in carne e ossa, di esseri umani. Di questi bisogni la finanza è disattenta. Le ragioni profonde sono da ricercarsi in un’economia senza anima, che nel tempo ha smarrito il senso originario della sua vocazione, e cioè essere al servizio dell’uomo. In questo contesto, il lavoro viene considerato, da chi lo utilizza, un fattore che serve esclusivamente a conseguire ricchezza, subordinanato, quindi, alle necessità della produzione. Lo si acquisisce quando è necessario, lo si espelle quando non serve più. Il rischio è che in questo processo di ripiegamento del lavoro venga accantonata la persona. Tutto il senso dell’economia, così, viene stravolto. Disuguaglianze economiche e cattiva distribuzione della ricchezza sono gli esiti naturali di questo processo di regressione, la cui causa va ricercata primariamente nella perdita di quel senso etico, che per tanto tempo ha contrassegnato l’economia. Carattere che occorre recuperare, individuando principi per quanto possibile condivisi, per superare l’evanescenza e la volubilità di concezioni contingenti e relative.

    Il forte squilibrio tra i membri del consorzio umano mondiale deriva dalla graduale dissolvenza della matrice etica che dovrebbe contrassegnare l’economia. Il suo recupero consentirebbe di pervenire a soluzioni più rispondenti ad esigenze di giustizia e solidarietà.

    I principi tratti dalle grandi religioni e dalle Sacre Scritture in particolare danno i criteri primi e rappresentano il collante capace di individuare quelle regole, nell’ambito delle quali l’economia si dovrebbe muovere per rispettare le esigenze umane fondamentali.

    La persona, quale titolare di valore primario, rappresenta il fine che deve vincolare le decisioni in campo economico. La persona non è una variabile dipendente da altre, quali l’impresa, il capitale, il profitto: realtà ontologicamente inferiori, anche se comunemente più apprezzate, per quella sorta di ribaltamento di valori, frutto di quelle follie che frequentemente investono l’umanità, facendole smarrire la gerarchia di ciò che è importante e ciò che non lo è. L’economia deve muoversi in funzione dell’uomo, della sua sua vita, delle sue esigenze, per cui individuare nell’etica e nelle leggi di Dio le sue radici risulta decisivo per orientarne il senso e l’evoluzione.

    Nella prima parte del lavoro viene esaminata la crisi del sistema finanziario quale conseguenza della sua autoreferenzialità e del suo tendenziale allontanamento dall’economia reale. L’obiettivo del guadagno fine a se stesso ha alimentato una espansione del sistema che alla fine ne ha decretato la sua implosione. La ricchezza, quindi, è stata distrutta e sotto le sue macerie abbiamo trovato la povertà. Gli Stati sono intervenuti in aiuto della finanza, consumando risorse che avrebbero meritato ben altra destinazione. Invece di soccorrere le vittime, i Governi hanno ritenuto bene di premiare i colpevoli. La finanza, riacquistata fiducia e sicurezza, come un novello Bruto, si è rivoltata contro i suoi salvatori, gli Stati, indeboliti anche a causa dell’appoggio che le avevano dato. La speculazione finanziaria, con una inaudita foga e un piglio magistrale, si è rivolta contro i debiti sovrani. Le corazzate americane composte da hedge fund, fondi pensioni ed agenzie di rating hanno impiegato le loro divisioni, attrezzate tutto punto, per mettere sotto pressione l’euro che avrebbe potuto soppiantare il biglietto verde nei carnieri dei paesi pieni di riserve in valuta a stelle e a strisce. La crisi dell’eurozona non ne ha incoraggiato la sostituzione. Il sostegno delle autorità monetarie europee ha prodotto sporadici fuochi d’artificio, ma non ha risolto i problemi. La liquidità iniettata è servita a sistemare in parte i bilanci delle banche e ad ammansire la speculazione, per un breve lasso di tempo, esauritisi gli effetti della regalia tutto è tornato come prima. Le banche sono rimaste al palo. Esse portano ancora addosso le ferite della precedente crisi e in più non riescono ad assolvere il loro ruolo perché non sanno se e a chi dare denaro. Le imprese paralizzate dalla morsa della paura non investono e non producono. Le autorità monetarie anziché andare in soccorso agli Stati – come altre più coraggiose, in passato, hanno fatto – hanno aiutato le banche, anche se si intravedono timidi tentativi di correzione di rotta. I limiti di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti. I governi hanno adottato politiche liberiste, fatte di contenimento della spesa, liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del mercato del lavoro, tutte condite da una riduzione dell’intervento pubblico. Con questi strumenti l’economia non pare abbia fatto passi avanti. Di misure a sostegno della domanda non se ne vede traccia e i termini tassazione progressiva e imposte dirette sono stati banditi dai dizionari. Il sistema finanziario anche se riuscirà a superare questa crisi non si risolleverà dallo stato comatoso in cui si trova, finché rimarrà l’unico protagonista dello scenario economico. La malattia della finanza non può essere guarita con il principo attivo che l’ha provocata. La speculazione non può essere sanata con altra liquidità, ma vietando o regolando le operazioni che l’alimentano. Chi ha bevuto la cicuta ha bisogno dell’antidoto.

    Anche la solida Cina soffre la crisi. Non riesce più a sfondare con i suoi prodotti sui mercati oltre la Muraglia e la domanda interna non è sufficiente a bilanciare questo arretramento. Disoccupazione, disagio sociale e manifestazioni di massa sono un vulnus con cui il Dragone deve fare i conti.

    Nella seconda parte sono esaminate le ragioni della crisi, che prima di essere crisi della finanza è crisi morale. Essa è il risultato della pleonexìa, dell’avidità, frutto del cuore deviato dell’uomo.

    Occorre definire un’etica che guidi l’economia, superando quelle concezioni di pensiero contingenti e riduttive, che impediscono di esprimere un’etica su cui fondare un’economia a misura d’uomo e al suo servizio. Le grandi religioni e la religione che nasce dalla Parola di Dio rappresentano un sicuro sostegno per coniare un’etica condivisa, che sposa la causa degli indigenti. L’etica declinata nelle religioni e nelle Scritture fornisce indicazioni illuminanti sui principi ispiratori dei comportamenti che devono essere assunti di fronte alla povertà, nelle sue diverse espressioni.

    Le distanze che intercorrono tra gli uomini possono si dipendere da cause strutturali, ma più frequentemente sono provocate da atteggiamenti egoistici di persone, governi, istituzioni, inclini a conservare i privilegi di cui godono e ad opporsi ad una più equa ripartizione dei beni e delle risorse esistenti, impedendo di realizzare una società migliore, contrassegnata dalla pace, dalla giustizia e dal progresso. I modelli culturali di riferimento, di cui ordinariamente ci si avvale per affrontare i problemi economici, appaiono inadeguati rispetto alle dinamiche in atto, non idonei a cogliere i concreti e pressanti bisogni umani nella loro vasta gamma. Occorre privilegiare, quindi, soluzioni in cui siano presenti criteri di giustizia e tutela della persona, per rendere possibile un nuovo sentiero per l’economia e per le leggi che la regolano.

    I rimedi per superare la crisi devono porre al centro la persona, per immaginare percorsi che consentono di realizzare condizioni di vita più dignitose e più eque.

    Vedere che le cose si muovono a dispetto di quelle che sono le ragioni ed i diritti dell’uomo provoca inquietudine e disagio. Se il contributo di riflessione consentirà di condividere un medesimo orizzonte, e là intravedere uomini protesi a superare tornaconto e interesse personale, per conseguire giustizia e pace, potremo veramente dirci soddisfatti.

    Parte prima. Il naufragio. Resoconto di una crisi

    I preliminari

    L’idea di una fonte sovrannaturale del male non è necessaria,

    gli uomini da soli sono capaci di ogni nequizia.

    (Joseph Conrad)

    La crisi economica, riesplosa nel 2010, rappresenta l’epilogo di ripetute crisi di minor portata e tuttavia localmente devastanti. Nel 1987, in un solo giorno le borse sono crollate di 22 punti in Usa, di 26 in Gran Bretagna, di 45 a Hong Kong. Nel 1997-98, la crisi ha interessato l’Asia orientale, l’America latina e la Russia, con il prodotto interno lordo che ha registrato una caduta rovinosa. Nel 2000-2003 erano ancora gli Stati Uniti a subire la bolla dell’Information technology (It). Bolla, che ha segnato l’inizio della crisi dei subprime. Quando scoppiò, la Federal Reserve (Fed) capì che la domanda aggregata era in declino, e, se lasciata senza controllo, avrebbe trascinato l’economia in piena recessione. Allora tagliò i tassi di interesse da più del 6% all’1%: il più basso livello dal 1957. L’intenzione di Greenspan, presidente dell’Autorità monetaria all’epoca, era di sostenere il mercato della casa per stimolare la domanda, fino a che le società non avessero fatto pulizia nei loro bilanci. Dopodiché, pensava il responsabile della Fed, esse sarebbero ritornate a chiedere prestiti per i loro progetti. I tassi di interesse a questo punto sarebbero saliti, il mercato immobiliare non sarebbe stato più protagonista e la bolla It sarebbe stata solo un ricordo. La strategia funzionò per i primi tre anni. La Fed, ritenendo che i pericoli fossero rientrati, cominciò ad alzare i tassi: ben diciassette volte, dall’1 al 5,25%, a partire dalla metà del 2004 fino al 2006. Il problema si presentò quando le società più solide non manifestarono alcuna intenzione di accedere al credito. Si registrò la sindrome di rifiuto del debito, piaga che aveva già colpito il Giappone. In sostanza, le società non erano più interessate a finanziamenti esterni, perfino dopo aver sistemato i loro bilanci. La conseguenza fu un contenimento dei tassi a lungo termine, che oscillarono tra il 4 e il 5%, e l’ampliamento della platea dei fruitori dei mutui, che annoverava anche i mutui subprime (quelli concessi alla clientela meno affidabile). Il più alto rischio, pensavano le banche, poteva essere compensato con più alte rate; decisero quindi di investire nell’affare, versando circa 1 trilione di dollari. A surriscaldare il sistema si aggiunse la domanda che veniva da economie che cercavano un mercato tranquillo per investire le loro disponibilità. Vi era un forte desiderio da parte di molti paesi «emergenti di assicurarsi contro future crisi economiche, dopo l’ondata che aveva colpito l’America latina e l’Asia durante gli anni novanta e l’inizio degli anni Duemila. Allo stesso tempo i paesi del Medio Oriente andavano alla ricerca di soluzioni per utilizzare i profitti generati dal petrolio, mentre i paesi con sistemi finanziari sottosviluppati, come la Cina, puntavano a una diversificazione in assets più sicuri»[1]. Inoltre, secondo Ben Bernanke, per il rapido invecchiamento delle rispettive popolazioni, alcune economie sviluppate, come il Giappone e la Germania, avevano alti tassi di risparmio. Si avvertiva quindi la necessità di trovare un porto sicuro e dinamico dove canalizzare gli enormi risparmi accumulati e gli Stati Uniti sembravano dare questo affidamento. I fiumi di denaro riversatisi negli Stati Uniti consentirono alle società finanziarie e alle grandi banche universali di aumentare enormemente i loro propri profitti e i loro affari.

    Intanto, l’improvvisa piena di risorse finanziarie determinò una caduta degli standards di prestito, causando un aumento delle percentuali di default sui mutui.

    La bolla che si stava abbattendo sull’economia americana fu sottovalutata dalle autorità monetarie. «È improvabile che assisteremo a un deragliamento della crescita a causa del mercato immobiliare»[2], sentenziò Bernanke, nel 2006, appena nominato Presidente della Federal Reserve; Timothy Geithner, allora presidente della Fed di New York, gli fece eco, nel corso della stessa riunione (26-27 marzo 2006): «I prezzi delle azioni e gli spread suggeriscono che c’è fiducia nella prospettiva di crescita»[3]. Si stima che i mutui concessi nel 2006, con scarsa provabilità di restituzione, ammontassero a 600 miliardi di dollari, pari a un quinto di tutte le ipoteche sulla casa stipulate in quell’anno. Intanto i prezzi delle case lievitarono dal 2000 al 2006 del 120 per cento. I procacciatori dei mutui non avevavo spiegato adeguatamente la clausola contrattuale «a tasso variabile», per cui centinaia di migliaia di proprietari di casa che avevano stipulato il loro mutuo qualche anno prima dovettero fare i conti con rate mensili cresciute enormemente, anche a causa di costi di transazione elevati. Il modesto reddito dei mutuatari non permetteva di farvi fronte, quindi smisero di pagare. Ad un certo punto la bolla scoppiò. I prezzi delle case cominciarono a scendere vertiginosamente, travolgendo un numero sempre maggiore di piccoli proprietari, che videro il loro investimento deprezzarsi rapidamente, ritrovandosi con un mutuo residuo da pagare superiore al valore dell’abitazione. Ne seguì un’ondata di sequestri; il prezzo degli immobili scese ancora. «Nel perdere la casa, molti [… persero] anche i risparmi di una vita e i sogni per il futuro: l’università dei figli, la vecchiaia con una pensione sicura»[4]. Anche gli strumenti finanziari, che rappresentavano queste operazioni, subirono il tracollo, compresi quelli che avevano ricevuto la tripla A dalle agenzie di rating. Nell’estate del 2007, le banche iniziarono «a registrare grosse perdite sulle mortgage-backed securities, gli strumenti finanziari creati vendendo i crediti da riscuotere su un aggregato di mutui ipotecari»[5]. Inoltre questi mutui erano stati cartolarizzati e combinati con altri assets finanziari, per cui il contagio si estese praticamente a tutti gli strumenti strutturati, inclusi quelli che non contenevano componenti subprime. Tutto il settore finanziario ne fu colpito e tutti i paesi del mondo ne avvertirono i contraccolpi. Quelli più attivi nel settore finanziario ne subirono gli effetti più devastanti. Gli «investitori istituzionali – ivi comprese parecchie banche europee – che avevano acquistato migliaia di miliardi di dollari di prodotti finanziari strutturati, in specie obbligazioni tipo le Cdo contenenti migliaia di mutui cartolarizzati, dovettero constatare che il loro portafoglio stava subendo cospicue perdite. Smisero quindi di acquistarli e rivendettero, per quanto fosse stato possibile, le loro quote. Dinanzi al blocco delle vendite dei loro prodotti e alle concomitanti richieste di riscatto, centinaia di Siv [Structured investment vehicle][6], la cui caratteristica predominante è quella di possedere scarsi o nulli capitali propri, si trovarono immediatamente in gravi difficoltà, già nei primi mesi del 2007. [… Il] sostegno ai Siv costò alle banche centinaia di miliardi»[7].

    Un elemento che ha aggravato la crisi negli Stati Uniti è l’essersi presentata quasi in concomitanza delle elezioni, in una fase, quindi, di sospensione delle decisioni politiche, rendendo arduo, così, il compito di fronteggiarla in modo chiaro e convincente.

    Le autorità, a questo punto, hanno deciso di porre sulle spalle di tutti i cittadini, indigenti compresi, e non sui responsabili, i costi dell’intervento riparatore, intervento inteso a sistemare la spavalderia della finanza, che ha tentato di arricchirsi tre volte: una volta sulla concessione dei mutui, soprattutto quelli ad alto rischio (subprime), poi sulla loro cartolarizzazione e successivamente sulla copertura dei rischi di insolvenza (credit default swaps-cds)[8]. I rimedi hanno assorbito ingenti risorse[9] e molti hanno usato il denaro pubblico per metterselo in tasca. Ricorda Joseph E. Stiglitz: «Quando il governo ha fornito alla banche i fondi per ricapitalizzarsi e rimettere in moto il credito, i dirigenti hanno pensato bene di usare quel denaro per pagare i loro stessi bonus da record, evidentemente come premio per le perdite accumulate, anch’esse da record. Nove prestatori che, tutti insieme, avevano prodotto perdite per quasi 100 miliardi di dollari ne hanno ricevuti 175 nell’operazione di salvataggio […] Trentatre miliardi sono stati utilizzati per pagare bonus ai dirigenti, e quasi 5000 di essi hanno ricevuto un milione a testa[10]. Altri soldi sono stati spesi per distribuire dividendi, che in genere corrispondono a una distribuzione degli

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