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Lettere al fratello Vincenzo. Con un regesto delle carte di famiglia
Lettere al fratello Vincenzo. Con un regesto delle carte di famiglia
Lettere al fratello Vincenzo. Con un regesto delle carte di famiglia
E-book228 pagine2 ore

Lettere al fratello Vincenzo. Con un regesto delle carte di famiglia

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Il carteggio privato di Antonio Jerocades al fratello Vincenzo delinea un ritratto dell’abate massone liberato dalla retorica di tanta letteratura biografica, che ha commentato simbolismo massonico e stile poetico a volte perdendo di vista l’identità sociale e culturale del personaggio. Il commercio, con le sue relazioni dilatate dalla storia internazionale del secolo XVIII, diventa attraverso il filo rosso delle lettere fattore di superamento delle barriere sociali come delle gerarchie spaziali, che troppo spesso hanno giustificato una separazione tra grande e piccola storia. Il piccolo paese di Parghelia, patria dell’abate e luogo di destinazione delle sue lettere, che spesso passano per le mani di mercanti in continuo viaggio per il Mediterraneo e l’Atlantico, si inserisce come interlocutore di grandi centri portuali e nella trama dei coevi rapporti internazionali, commerciali, massonici, filantropici, culturali. Risulta così un affascinante quadro da cui emergono le economie dei luoghi, con le loro specificità produttive; il senso di una famiglia, di una società, con i suoi costitutivi aspetti morali e umani; i modelli di comportamento e di costume che permeano, emblematicamente, il Mezzogiorno dell’epoca dei Lumi.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2014
ISBN9788868222161
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    Anteprima del libro

    Lettere al fratello Vincenzo. Con un regesto delle carte di famiglia - Antonio Jerocades

    Biblioteca di «Voci» / 9

    Collana diretta da Luigi M. Lombardi Satriani

    Antonio Jerocades

    Lettere al fratello Vincenzo

    Con un regesto delle carte di famiglia

    a cura e con Introduzione di

    Francesco Campennì

    Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    ISBN: 978-88-6822-216-1

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.com www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mia madre,

    questa antica storia di una famiglia

    del suo paese

    «Voi andate al negozio, e conquistate robe e denari;

    e tu al sacerdozio, e conquista sapienza e virtù»:

    i viaggi della vita e la nostalgia della patria

    nel carteggio familiare di Jerocades.

    Introduzione

    di Francesco Campennì

    La figura di Antonio Jerocades (1738-1803) è soprattutto nota per la sua opera di propaganda massonica, portata negli anni rivoluzionari di fine Settecento agli esiti del proselitismo giacobino filofrancese[1]. I biografi e gli studiosi dell’abate massone e giacobino, dell’eccentrico e cinico calabrese, hanno in particolare considerato la sua produzione lirica come veicolo dei simboli e dei valori della massoneria, innanzi tutto La Lira Focense, più volte edita e commentata[2]. Non è stato approfondito, invece, l’uso mitografico e letterario del passato antico, messo al servizio dell’idea di una fratellanza tra i Sud dell’Italia e della Francia che si volevano paesi legati da un gemellaggio di popoli marinari. L’idea che il commercio fa avanzare i popoli nella ricerca delle forme del governo democratico[3] e di qui la sollecitazione di una guida francese a un Mezzogiorno italiano che Napoli capitale teneva ancora politicamente avvinto in un secolare ritardo rispetto alle moderne conquiste delle nazioni civili, sono temi da approfondire nell’opera di Jerocades. A questo proposito ho iniziato a occuparmi di quella parte importante ma finora poco nota dell’opera jerocadesiana costituita dai testi di oratoria municipale. Tra questi, il genere degli «elogi», cui il poeta e filosofo affida la sua filosofia del buongoverno della famiglia, della patria, della gerarchia sociale riportata agli onesti princìpi ordinatori, secondo una suggestione tipica del secolo dei Lumi.

    Le biografie di Jerocades hanno utilizzato spesso testimonianze di personaggi coevi (pur sempre voci indirette rispetto alla viva voce del personaggio studiato), oltre che il lavoro di precedenti biografi. Meno numerosi, tra le fonti biografiche adoperate, sono i documenti d’archivio di prima mano, e ancor più rari i documenti autografi, se si eccettuano le opere dello stesso Jerocades da cui è possibile attingere tante informazioni sulla sua vita. Jerocades rimane tuttavia una figura dai molti lati ancora oscuri, cui bisogna ridare voce. E questa non può che emergere nella maniera più autentica se non da un confronto tra la prosa poetica, la poesia lirica e i pochi scritti autografi che ci sono giunti.

    Lo scopo di questa pubblicazione è di favorire tale confronto, mettendo a disposizione dei lettori e degli studiosi una fonte diretta, biografica nel senso più pieno, attraverso cui sentire la voce dell’intellettuale e insieme del familiare lontano da casa, del sacerdote. Le lettere di D. Antonio Jerocades al fratello Vincenzo, negoziante in Tropea e Parghelia: la loro lettura ci fa innanzi tutto scoprire, al contrario di quanto è stato scritto, una coerenza morale e persino stilistica tra la prosa poetica, più e meno nota, e la prosa privata del carteggio domestico. Tra gli aspetti maggiormente trascurati nella biografia di Jerocades vi è stato, non a caso, quello della famiglia, del retroterra sociale e culturale di provenienza[4]. Elemento trascurato perché poco noto o ricostruito attingendo allo stesso manierismo poetico dell’abate, che parlando della sua nascita e delle prime stagioni della sua vita passate tra le reti da pesca del padre Andrea[5], ha fatto pensare a una famiglia di pescatori e naviganti come intenderemmo oggi questa categoria di operai del mare, spesso condannati a una situazione di semi-povertà. L’impresa della pesca per la Parghelia del Settecento era al contrario ancora un’industria fiorente, legata alla trasformazione del prodotto a terra (salagione), all’appalto delle tonnare per tutto il Mezzogiorno, dal golfo di Sant’Eufemia a quello di Napoli, e nel passato per tutto il Mediterraneo occidentale. L’economia del borgo era connessa, in una pluralità di altre attività, al settore terziario e cresceva grazie all’incremento dei viaggi mercantili. La famiglia Jerocades non era dunque quella modestissima di cui si è detto e il contesto socio-economico in cui operava (il più dinamico e ricco dei casali di un’aristocratica ma decadente città regia, come la Tropea del XVIII secolo) attraversava una delle più fortunate epoche della sua storia. Le attività mercantili e finanziarie (tra cui la pratica del prestito a uso e cambio marittimo) mettavano la piccola e civile Parghelia in contatto stabile con i principali porti franchi del Mediterraneo occidentale (Messina, Palermo, Napoli, Livorno, Genova, Marsiglia) ma anche con importanti centri adriatici e levantini (da Trieste a Costantinopoli)[6].

    Qui si presenta per la prima volta in edizione integrale un gruppo di lettere indirizzate da Jerocades al fratello Vincenzo tra il 1782 e il 1795, con una del nipote Andrea Mazzitelli allo stesso Vincenzo, del 1785 da Marsiglia, e una conclusiva, del 1802-1803 circa, indirizzata da D. Antonio alla cognata Maria Mazzitelli, vedova di Vincenzo. Le lettere presentano un intellettuale che fa dell’arte di comporre e improvvisare versi e del mestiere di educatore le sue principali attività quotidiane, che gli consentono di mantenersi nella capitale. Questo mestiere Jerocades svolse per tutta la vita, come rettore di seminaristi e novizi, come professore nei Regi Studi e privatamente, al servizio di numerose famiglie dell’aristocrazia napoletana e della borghesia provinciale, non per ultimo aiutando quei molti giovani originari della sua Parghelia che si trasferivano a Napoli per seguire i corsi universitari. Perfino nel confino di San Pietro a Cesarano, cui venne condannato dal re Ferdinando IV di Borbone nella fase di reazione al proselitismo massonico-giacobino degli anni 1791-1792, Jerocades non interrompe quel magistero morale, che lo vede qui istitutore dei novizi del collegio dei Padri Giuranisti, alla cui custodia era stato affidato, e dei giovani della nobile famiglia Rega di Mugnano del Cardinale, nipoti del rettore del convento, Giuseppe Maria Rega, e del vescovo di Calvi, Andrea de Lucia[7]. Ma il poeta e pedagogo Jerocades appare da questo carteggio, per la prima volta, anche come esponente di una famiglia di mercanti.

    La famiglia e i rapporti familiari si riscoprono, nelle lettere, fondamento e riferimento della formazione morale e civile del personaggio. Massone, ma prima ancora sacerdote, studente emigrato a Napoli per perfezionarsi in diritto, teologia, filologia, filosofia ed economia politica. Allievo di Genovesi (di cui conosce le opere prima di recarsi nella capitale nel 1765 e con cui avvia contatti epistolari dal 1764)[8] e tra i primi che in patria misero a frutto le lezioni sul commercio[9], Jerocades è al tempo stesso componente attivo di una famiglia di «negozianti» che, secondo le tradizionali regole lignatiche, divide i compiti tra i suoi membri, attendendosi da ciascuno una porzione di arricchimento. In quest’epoca e in questo ambiente sociale, la ricchezza non è o non è più soltanto portata dal denaro, ma questo si trasforma in investimento culturale e nell’acquisizione di status. Il Jerocades di queste lettere è dunque, innanzi tutto, restituito alla sua identità originaria di esponente di una famiglia borghese e mercantile del suo tempo, che elabora e utilizza strategicamente una sua etica relazionale.

    Quest’ultima, più di tutto, modella il tratto culturale e politico di un intellettuale che rompe con il «costume» tradizionale, inaugura un nuovo modo di intendere la preminenza sociale e, coerentemente, sperimenta nuovi modelli educativi trasfondendo i concetti illuministici nei temi e nelle forme della cultura classica tradizionale. L’idea di una riforma pedagogica – in linea con la teoria genovesiana e di altri riformatori contemporanei come Gian Vincenzo Gravina, Giovanni Andrea Serrao, Nicola Valletta – che accostasse le discipline scientifiche agli studi di umanità per formare i giovani secondo i propri interessi economici e gli indirizzi professionali cui li chiamava l’ambiente sociale di provenienza, deriva a Jerocades dalla forte identità familiare e dal legame con la comunità d’origine. La cura dei compaesani, che segue negli studi e che ospita spesso in casa sua, a Napoli, è una traccia della nostalgia della patria nativa e assieme del ruolo di mentore che Jerocades riserva alla comunità di Parghelia. Ad essa non risparmia lodi ma neppure censure morali, seguendo nelle diverse fasi della sua vita le vicende civili e i rapporti sociali che scandiscono la vita del villaggio, sempre vivo nella sua memoria[10].

    I temi e i momenti biografici restituiti dal carteggio di Jerocades sono diversi. Essi scavano a fondo nella personalità dell’autore e saggiano alla prova della vita l’idea di rinnovamento culturale e democratico pubblicamente professata nelle sue opere destinate alla stampa[11]. La sensibilità poetica modella nondimeno lo stile della scrittura privata e i suoi contenuti morali. Al linguaggio poetico, capace di parlare all’anima, Jerocades affida la sua riforma dei fondamenti culturali della società, partendo dall’educazione dei giovani[12]. Il carteggio familiare è veicolo di messaggi edificanti e intende costruire una morale domestica destinata a indirizzare i familiari a una regola di vita che si vuole già impartita dai genitori e dagli avi. Ma al tempo stesso esso testimonia che il poeta e mentore della gioventù studiosa non trova in sé il coraggio per trasformare il magistero in lotta politica quando gli eventi sembrano suggerirglielo. La virtù, dovere morale di ogni cittadino, è conquistata attraverso la vita dura, e nelle disavventure della propria vita lo scrivente trova occasione per innalzare lo spirito attraverso la funzione pedagogica e didascalica della poesia. L’improvvisazione dei versi, la loro funzione dedicatoria tende a una terapia dell’anima cui il poeta-vate richiama se stesso e i suoi interlocutori nel momento della necessità, del lutto, della prova. Il tempio delle muse, spesso tempio massonico, casa eterna dei giusti, è dunque il rifugio ideale da un mondo di ingiustizia, mondo che solo il potere evocativo della lirica e del mito che essa pone continuamente a modello può consolare (parlando alle vittime) o ammonire (di fronte ai tirannici persecutori).

    Prima di commentare più in particolare i contenuti del carteggio, occorre però raccontare la vicenda delle lettere e delle altre carte d’archivio che qui si presentano in regesto. Le lettere di Antonio Jerocades al fratello Vincenzo furono per la prima volta consultate nel 1939 dall’erudito Filippo De Nobili, a quel tempo direttore della Biblioteca Comunale di Catanzaro, presso il dottor Federico Collaci, marito di Lavinia Jerocades, ultima discendente della famiglia, che le conservava a Parghelia assieme a qualche manoscritto e opuscolo a stampa di opere dell’abate. De Nobili parafrasò e trascrisse cinquantuno lettere comprese tra il 1782 e il 1794, più altre due, scritte nel 1793 e 1794 dal confino di San Pietro a Cesarano, che la famiglia Jerocades aveva donato in quegli anni, probabilmente a seguito dell’interesse manifestato dallo stesso direttore, alla Biblioteca di Catanzaro. De Nobili trascrisse inoltre una polizza di carico di zucchero nel porto di Marsiglia del 1789 e una lettera di Andrea Mazzitelli (il pilota d’altura nipote dei fratelli Jerocades) scritta da Marsiglia il 6 novembre 1785 allo zio Vincenzo, in cui lo informa delle sue divergenze con lo zio Antonio riguardo ai rituali massonici, ritenuti da Andrea una pratica di smodata e mondana convivialità. Trascrisse infine, integralmente, il manoscritto autografo dell’Orazione per l’apertura della Scuola di Economia e Commercio, che trovò presso i Collaci assieme a un volumetto a stampa – di cui copiò passi, versi e annotazioni riportate a margine – contenente altre operette di Jerocades: Il Padre di famiglia. Discorso al Signor Francesco Mazzitelli, l’Elogio di Andrea Jerocades (dedicato al padre, morto nel 1763, nel primo anniversario) e la raccolta di versi dedicata alla madre: La vedova consolata. Alla Signora Antonia Pietropaolo[13].

    Molto tempo dopo, Lavinia Jerocades Collaci (rimasta vedova dal 1950 e morta nel 1974) ebbe a Parghelia la visita di Pantaleo Minervini, studioso della lingua dell’abate massone. Minervini potè raccogliere dalla viva voce della signora Lavinia alcuni ricordi della vita dell’abate, che evidentemente si tramandavano in famiglia[14], ma del materiale manoscritto già messo a disposizione di De Nobili, solo una parte fu fatta vedere al nuovo studioso, e di questa parte non rimane oggi traccia. Minervini pubblica in appendice al suo studio, apparso nel 1978, ventuno lettere di Jerocades al fratello Vincenzo. Si tratta tuttavia di una parte minoritaria delle lettere già lette, trascritte e parafrasate da De Nobili. Queste ventuno lettere sono pubblicate da Minervini divise in tre piccoli gruppi: datate e firmate da Jerocades, firmate e non datate, non firmate né datate. In realtà di molte tra quelle senza data si poteva dedurre con buona approssimazione il periodo di scrittura dalla nota apposta a tergo dal ricevente, che indica la data di arrivo. Di queste annotazioni, trascritte da De Nobili, Minervini non tiene conto e non le riporta nella sua edizione. Dei manoscritti di opere di Jerocades, poi, Minervini ha modo di vedere in casa Collaci – stando a quato scrive – soltanto la Orazione per l’apertura della Scuola di Economia e Commercio (il cui testo tuttavia forse non riconosce, citandone dei passi come Autobiografia), Il trionfo d’Ercole e Alcide al rogo (che ritiene degli inediti, non avendo evidentemente incontrato nelle sue ricerche esemplari a stampa dei due poemetti, che invece furono pubblicati da Jerocades), il panegirico Per la festa di S. Maria di Porto Salvo (un fascicoletto di 16 pagine «piuttosto malandato»)[15].

    Alla fine degli anni Settanta fu Francesco Tigani Sava a tornare a Parghelia e a visitare il piccolo archivio di casa Jerocades, in quegli anni ancora in custodia ai figli del fu Federico Collaci, Francesco e Marietta, che gliene consentirono la consultazione. Tigani Sava menzionò in un suo primo e ancor oggi fondamentale contributo bibliografico per lo studio della figura e dell’opera di Jerocades, presentato nel 1977 a Catanzaro al VI Congresso storico calabrese, i manoscritti superstiti esistenti in quel fondo. Quanto al solo carteggio, tuttavia, lo studioso numerò in quella occasione soltanto «ventisei lettere autografe inedite» dell’abate indirizzate al fratello Vincenzo (dunque non più le cinquantatre lettere viste da De Nobili). Mentre delle opere manoscritte menzionava l’Orazione di apertura per il corso di Economia e Commercio all’Università di Napoli, la Novena della Madonna di Porto Salvo, l’Orazione recitata ne’ funerali di Domenico Jerocades morto nell’America nel mese di Settembre dell’anno 1779, il dramma Eva ovvero La Madre Dolente[16]. Ancora, nel 1983, in un articolo comparso sulla «Rivista storica calabrese», Tigani Sava concentrava la sua attenzione sul corpus delle lettere familiari dell’abate al fratello, indicandone «circa cinquanta», ricavandone alcuni aspetti della personalità dello scrivente e pubblicandone qualche passaggio, in particolare di quelle scritte da San Pietro a Cesarano[17]. Appare evidente che in questo

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