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Canzoniere
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E-book492 pagine3 ore

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La vita è un "breve sogno". Queste sono le parole che racchiudono il senso profondo della poesia di Francesco Petrarca. E tutto ciò che fa parte del "breve sogno" è desiderabile oltre ogni misura. Soprattutto l'amore, il corpo desiderato, il "bel velo" che rende meravigliosa la donna amata. Un "velo" destinato a scomparire. Questa è la contraddizione, la frattura, tra ciò che si sa e ciò che si vuole. Per questo Petrarca è il grande poeta che è: per avere messo in dolcissimi versi la contraddizione esistenziale di ogni uomo.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ‘l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

In questa nuova edizione integrale l’introduzione è di Francesco De Sanctis, il massimo critico letterario italiano dell’Ottocento.

EBOOK + AUDIO
LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2020
ISBN9788835815099
Autore

Francesco Petrarch

Born in Italy in 1304, Francesco Petrarch moved with his family to Provence. Petrarch was smitten by the sight of a young woman named Laura. She did not return his love, but it stayed with Petrarch even after Laura’s early death. Laura inspired the 366 poems that make up his Canzoniere, translated here as ‘Scattered Rhymes’. Petrarch lived till 1374, and was writing and revising his sonnets into his last years.

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    Anteprima del libro

    Canzoniere - Francesco Petrarch

    www.latorre-editore.it

    INTRODUZIONE

    FRANCESCO DE SANCTIS

    Dalla STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA

    Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie di sè tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono divina, quasi la parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il libro dell'anima. Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri dell'anima da studiarsi in quaresima, come le Vite de' santi Padri, la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo non ce l'avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, dicta mundi.

    L'impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro più che poesia. Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale era stato concepito.

    Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione. L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura, così coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata ne' minini particolari. L'immaginazione anche più pigra concepisce di un tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico, così ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia o il mistero dell'anima nella più grande varietà delle forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso più serio e più elevato. Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura, l'amor della patria, un certo senso d'ordine, di unità, di pace interiore che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e volgarità, la virilità e la fierezza della tempra, l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio volto a' posteri, e quella fede congiunta con tanto amore, quell'accento di convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità, della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana. Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella superficie, rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.

    Ma l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell'Italia centrale. La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l'esempio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore. E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola immortale, dalla quale era uscita la Commedia. Compariva sulla scena la nuova generazione.

    Lo studio de' classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de' guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione. La superficie si fa più levigata, il gusto più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se stessa. Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l'eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

    Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone. Scopritore instancabile di codici emendava, postillava, copiava: copiò tutto Terenzio. In questa intima familiarità co' più grandi scrittori dell'antichità greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto il medio evo, gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava barbari; gl'italiani chiamava latin sangue gentile; voleva una ristaurazione dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de' costumi. Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito, e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale raccomanda la sua memoria.

    Così appariva l'aurora del Rinnovamento. L'Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e Omero.

    Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con l'orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia potente e gloriosa, l'Italia di Mario. L'orgoglio nazionale e l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro. Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splendore dello stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la misura ne' sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone uno de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.

    In questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che la storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia. Da queste opinioni uscì l'Africa, che al Petrarca dove parere la vera Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale. Questo poema rispondeva così bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe de' poeti, ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai. Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de' Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.

    Ma la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina. Il latino scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la lingua e l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è il più fino e il più intimo dello stile. Perciò schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa. Così si formò una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto eleganza, forma scelta e nobile; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.

    In verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino, come pur voleva parere: potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi. Al Petrarca sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi che all'azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso. Dante alzò Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo. Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.

    Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne' più intimi recessi. Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l'amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma sentimento; e l'amante, che occupa sempre la scena, ti dà la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso. In questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da' miti, da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce, nel tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.

    Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è scala al Fattore, l'amore è il principio delle universe cose. Ma tutto questo è accessorio, è il convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni più delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù. Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè è il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che gli scalda l'immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile, ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia. Ciò che move l'amante e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta la natura eco di Laura.

    Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento, è la musa di Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo. E Laura è poco più che un modello, una bella forma serena, posta lì per essere contemplata e dipinta, creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o simbolo di qualcos'altro, ma la donna come bella. Non ci è ancora l'individuo: ci è il genere. In quella quietudine dell'aspetto, in quella serenità della forma ci è l'ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana. La chiama una dea, ed è una dea; non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Coloro i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi Laura dee parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre.

    La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura celeste. Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non vedi più i capei d'oro e le rosee dita e il bel piede, dal quale l'erbetta verde e i fiori di color mille desiderano d'esser tocchi. Pure questa Laura non dipinta è più bella, e soprattutto più viva, perchè meno altera, meno dea e più donna, quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui. Così il mistero di Laura si scioglie nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell'immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto la donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e Laura cominciano a vivere, appunto quando muoiono.

    E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di Laura, sorge l'opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo spirito. Questo concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo credo cristiano e filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica o spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore. Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a questo spasso. Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa, che li pallia. E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole e le sottigliezze del codice d'amore, soprattutto il concettoso, dotato com'era di uno spirito acuto. Non coglie se stesso nel momento dell'impressione; l'impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione generalizzata e spiegata, come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna, sull'amore, pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l'artista. Ma nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta e l'artista. Quello che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via che al ciel conduce; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo credo trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga: l'educazione classica e l'istinto dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani. Non vi si appaga l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non ben sicuro di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso del senso e tutte le ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione, o il

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