Narratori cristiani di un Novecento inquieto
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Anteprima del libro
Narratori cristiani di un Novecento inquieto - Raffaele Nigro
Raffaele Nigro
NARRATORI CRISTIANI di un Novecento inquieto
La collana è peer reviewed
Copyright © 2016 by Edizioni Studium - Roma
Edizione cartacea: ISBN 978-88-382-4404-9
Edizione digitale: ISBN 978-88-382-4441-4
www.edizionistudium.it
ISBN: 978-88-382-4441-4
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
PREMESSA
NARRATORI CRISTIANI DI UN NOVECENTO INQUIETO
Dialoghi con Edda Ducci
Il processo di Diego Fabbri
Luigi Santucci, un Orfeo moderno
Pasquale Festa Campanile trash e inquieto
Gino Montesanto, dai nascondimenti de -La Cupola- agli svelamenti di -Così non sia-
Giorgio Saviane, un antipapa mancato
Il francescanesimo di Mario Pomilio
Un democristiano infelice, Rodolfo Doni
Un Valla dei nostri tempi, Italo Alighiero Chiusano
Tano Citeroni poligrafo
Il doppio volto di Alfredo Cattabiani
Fortunato Pasqualino, Cristo tra le marionette
Gennaro Manna chiede scusa a Dio
Raffaele Crovi: un fratello maggiore
Epilogo
NOTA BIOGRAFICA E CRITICA
Raffaele Nigro
NARRATORI CRISTIANI
di un Novecento inquieto
EDIZIONI STUDIUM - ROMA
A Beppe Tognon e Carmela Di Agresti,
sognando gli amici lungo il Tevere.
PREMESSA
Giuseppe Tognon
Raffaele Nigro ha donato alla comunità universitaria della LUMSA un testo che merita di essere restituito a un pubblico più ampio, affinché, stampato, rinasca in una giusta dimensione civile e letteraria. Questo scritto, esposto a Roma nell'Aula magna dell’Università in occasione della giornata in onore di Edda Ducci nell'ottobre del 2014, è un esempio della difficile arte dell’elogio, che è arte inquieta e multiforme. Chi parla in casa d’altri di una persona di famiglia, non fa altro che testare l’intelligenza emotiva della comunità che l’ha convocato, così da misurare quanto è vitale, capace di fermarsi a ricordare, disponibile a tramandare, aperta alla posterità. Gli scrittori sono dunque, in qualche misura, i veri sacerdoti della vita emotiva di una comunità di studio. Poco importa se il valore oggettivo di ciò che raccontano è specifico o autobiografico: l’importante è che riescano a far rivivere il valore di chi ha veramente amato ciò che ha vissuto. È quanto è accaduto quel giorno.
Questo libro è una testimonianza della presenza di Edda Ducci (1929-2007), una filosofa dell’educazione che ha avuto, tra i molti meriti, anche quello di non essere mai banale e di incardinare l’educativo nel cuore dell’umano attraverso un’esegesi dei filosofi del passato, ma anche del proprio vissuto spirituale. Maestra e collega dell’autore all'università di Bari, Edda Ducci ritorna in questo libro a esserci amica in una misura sovrabbondante, liberando le energie intellettuali, i ricordi e le analogie che conducono Raffaele Nigro a render pubblico un filo della propria trama personale che non poteva rimanere sconosciuto perché rappresenta anche il modo di ringraziare un’intera generazione di amici e di maestri.
I narratori cristiani di un Novecento inquieto, di cui Nigro ricorda qui l’opera e l’umanità, hanno accompagnato la sua intensa attività di scrittore come sentinelle preziose di quella responsabilità di intendere la presenza o l’assenza di una fede religiosa come un impegno per rendere più ricca la vita. Non sono tutti, perché l’inquietudine non è una caratteristica sociologica e non esiste ancora, per fortuna, un catalogo di scrittori inquieti e cristiani, o cristiani perché inquieti. Nigro racconta di Fabbri, Santucci, Festa Campanile, Saviane, Pomilio, Doni, Chiusano, Citeroni, Cattabiani, Pasqualino, Manna, e più a lungo di Gino Montesanto e di Raffaele Crovi. Scrive in presa diretta sui propri ricordi, perché non solo li ha letti, ma li ha anche conosciuti e quasi tutti ospitati o incontrati nella sua terra, tra la Lucania e le Puglie. Narra però anche di suo padre e della sua formazione, e questo inserto personale spiega più di ogni altra considerazione la qualità del legame che lega Nigro a quel gruppo di uomini scrittori tutti così diversi e unici. Il racconto è vivido, rapido, succoso e vale più di tante storie della letteratura.
L’inquietudine per il modo con cui la fede sfuggiva a ogni codifica accomunava scrittori, editori e giornalisti che certo non vivevano sempre secondo i canoni e il buon senso. La fede di cui si sentivano testimoni era una questione talmente grande che se avessero voluto spiegarla con i propri comportamenti non ne avrebbero sempre ricavato un bello spettacolo e dunque si specchiavano nei loro personaggi o inventavano storie a cui aggrapparsi. Le questioni religiose diventavano compagne dell’audacia quotidiana di scrivere e vivere a occhi aperti che era un’impresa della cui difficoltà ci si poteva accorgere solo se la cosa riusciva, se piaceva prima di tutto agli amici. Anche loro, come quasi tutti gli scrittori, vivevano di copie vendute, di premi letterari, di editori prepotenti o suadenti, di invidie e gelosie, ma non era quello a cui in realtà aspiravano, quanto piuttosto alla grazia di pagine che sapessero liberarli dall'inquietudine e dai drammi personali e collettivi senza travolgere tutto. Vale la pena di apprezzare la tenacia letteraria dimostrata da questi narratori cristiani i quali, anche quando la società letteraria li snobbava, si sentivano in pace con loro stessi nel voler scrivere bene e nel raccontare degli umili e degli sconfitti o di grandi figure esemplari della Chiesa. I grandi passaggi civili e religiosi dell’Italia repubblicana in cui vissero – dal fascismo alla democrazia, dalla ricostruzione al consumismo, dal papato ieratico di Pio XII alla collegialità del Concilio Vaticano II – non furono fatti banali tanto è vero che continuano ad emanare, come brace sotto la cenere, un calore che scalda ancora la nostra storia. Leggere di scrittori italiani non dogmatici, ma nemmeno eretici, che insieme ai classici della letteratura praticavano i Vangeli, la patristica e gli autori francesi, le riunioni di partito e le redazioni o le chiese, vuol dire rivivere un’esperienza collettiva che oggi, nel settantesimo della Repubblica, appare ancora autentica. E questo libro di Nigro può essere letto come la mappa di una geografia letteraria che non risponde ai canoni di una scienza astratta ma a quelli della vita.
Come sia possibile in democrazia, ma ciò vale anche nella Chiesa, «vivere una vita buona in una vita falsa», vale a dire falsificata dalla disuguaglianza, dallo sfruttamento, dal perbenismo e dal carrierismo, è stata la do-manda formulata con insistenza da molti intellettuali e scrittori del Secondo dopoguerra che ritroviamo nella maggior parte delle opere dei colleghi di Nigro. Il filosofo critico Th. W. Adorno ha assunto la questione come regola per analizzare la crisi della società contemporanea; più recentemente la filosofa femminista americana J. Butler l’ha riformula in maniera radicale, chiedendosi «quali sono le vite considerate fin dal loro apparire non vite, o solo parzialmente viventi, o già morte e perdute, ancora prima di qualsiasi distruzione o abbandono». Capire che la perdita della propria vita non interessa a nessuno, che non sarà degna di lutto, che nessuno piangerà la nostra scomparsa, diventa, per J. Butler, il paradigma dell’ingiustizia vista dalla parte degli ultimi, ma anche il fondamento di una resistenza precontrattuale e prepolitica dell’uomo contro una cittadinanza che suona falsa o vuota.
La lotta di chi dispone solo di sé, del proprio corpo e del proprio quotidiano, può essere presa in carico in maniera consapevole e politica anche nel XXI secolo. Apre la porta a una teoria sociale personalista diversa da quella che ha guidato le lotte del proletariato nell'Ottocento e nel Novecento, più consapevole dell’importanza che nei processi sociali ed economici hanno le grandi virtù del dovere, della pietà, del rispetto, della cura reciproca, della solidarietà. In questa nuova prospettiva, la vulnerabilità e la fragilità umane sono riconosciute come un dato politico, non come il semplice effetto di uno sfruttamento economico o come una colpa sociale. Sono preziosi indicatori di una sofferenza non ancora presa in carico moralmente, non ancora trattata a fondo o colpevolmente ignorata, che forse solo i poeti e gli scrittori possono talvolta intercettare. Invece, troppo spesso, anche la cosiddetta società della conoscenza, esaltata oggi come la nuova età dell’oro, fa finta di non vedere che proprio il sapere è usato da chi lo possiede per separare i potenti e i ricchi che «non devono morire» e di cui ci si preoccupa, da quei viventi di cui non ci si fa carico e che nascono «come se fossero già morti».
Chissà che ricordare con affetto degli autori quasi dimenticati non accenda nell'animo nostro il sentimento della misericordia verso tutti i limiti e le grandezze della nostra storia privata e collettiva. Leopardi scriveva all'amico P. Giordani (17 dicembre 1819) che «dove manca la speranza non resta più luogo nemmeno all'inquietudine».
NARRATORI CRISTIANI DI UN NOVECENTO INQUIETO
Dialoghi con Edda Ducci
quasi un racconto
Da giovane, al mio paese, nell'alta Basilicata, le domeniche erano lunghe e noi ragazzi non sapevamo che fare se non servire tante messe. Ero iscritto alle fiamme gialle e verdi dell’Azione Cattolica e mi sentivo un soldato di Cristo e del mio parroco, don Filiberto o di padre Salvatore, il priore del convento di Sant'Antonio. Tutto ciò che diceva l’uno o l’altro per me era legge. E mi sembrava naturale che durante le infuocate campagne elettorali venissi sguinzagliato coi miei amici a diffondere volantini. Il nume tutelare nella politica della regione era allora Emilio Colombo, che con disprezzo i comunisti chiamavano il padrone della Basilicata. Arrivava in paese sotto una foresta di bandiere bianche con lo scudo crociato e lo attraversava in una schiera di fan che cantavano O bianco fiore, simbolo d’amore
e chiedendo a gran voce: pane e lavoro!
.
Il paese era allora inabissato in una povertà di contadini, braccianti, disoccupati, con un numero ristretto di piccolo borghesi e di aristocratici.
Mio padre era tornato dall'India dopo sei anni di prigionia, era disoccupato e si rivolse attraverso don Filiberto al vescovo don Domenico Petroni. Don Petroni parlò con Colombo, gli spiegò che si trattava di un giovane attivista democristiano e Colombo disse che avrebbe provvisto. Ma i mesi passavano e allora mio padre in una settimana di ira del ’48 occupò insieme a molti compagni le terre dei Doria, i principi genovesi che dominavano da