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Oblivious
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E-book335 pagine5 ore

Oblivious

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Info su questo ebook

Ethan Clark è un docente di lettere presso la scuola media British Columbia di Vancouver. Ogni notte fa sempre lo stesso orribile sogno: durante una cena di mezza estate tra colleghi e amici, la moglie Ashley decide di suicidarsi nello sgomento collettivo. Le immagini gli scorrono davanti agli occhi attraverso il vissuto di ogni persona presente alla serata senza che lui riesca a comprenderne il motivo. Più cerca di capire, più si vede trascinato in un vortice angosciante che sembra non avere fine. Il sogno si fonde con la realtà creando in Ethan dubbi atroci sulla propria esistenza, fino all'agghiacciante scoperta che stravolge i pochi elementi cui aggrapparsi. "Oblivious" è un viaggio nella psiche, un labirintico percorso alla ricerca della verità, in cui nulla è come sembra e anche il più piccolo dettaglio può fornire la chiave di lettura per risolvere l'inquietante enigma che accompagna la vita del protagonista.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2015
ISBN9788892515574
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    Anteprima del libro

    Oblivious - Marco Spadaccini

    Marco Spadaccini

    OBLIVIOUS

    a Carlo

    e a te, caro papà, che continui a brillare nel firmamento dei miei pensieri...

    Prologo

    Che cos'è la vita? Un soffio di vento? Un battito d'ali? La spasmodica ricerca di un qualcosa che nessuno ancora ha compreso? Ognuno ha una sua definizione. Non ne esiste una universale. Univoca. La vita è il qui e ora perchè, come scrisse qualcuno, di doman non v'è certezza. L'unica cosa certa è che l'esistenza è nostra. Di nessun altro. Solo questo ci rimane al  mondo ed è giusto che possiamo farne ciò che vogliamo nel pieno rispetto della vita altrui. Ostinarsi ad escogitare ogni giorno un nuovo modo per controllare la vita degli altri e dominarne le scelte è il reato più grande che possa compiere un essere umano. Ciò ci fa dimenticare la cosa che ci accomuna veramente: l'amore. Non esistono teorie, persone o farmaci che possano dominarne il suo potere; lo stesso che ti assale e ti fa sentire grato solo per il fatto che ti sia stata data la vita. Chiunque miri a condizionare le persone commette un crimine verso l'umanità e non vincerà mai perchè l'amore non passa attraverso la mente, ma attraverso il cuore.

    1

    Correva per non pensare. Correva per dimenticare la routine giornaliera. Correva per trovare un senso a un'esistenza incompiuta. L'ipod di ultima generazione doveva servire a distoglierlo dal torpore dell'inconsistenza della sua vita. Le note di Where the streets have no name che scandivano i suoi passi cadenzati lo stavano conducendo a nord di Vancouver, verso quel luogo in cui la sua mente e il suo cuore si sarebbero incontrati per ritrovare l'equilibrio perduto.

    Erano le 19.08 quando imboccò il sentiero del Lynn Canyon Park, uno dei tanti paradisi verdi che circondavano la città. Ettari di foresta primaria canadese s'infittivano davanti ai suoi piedi come gli intrecci di una ragnatela. Lui sapeva esattamente dove sarebbe voluto arrivare. Più s'inerpicava attraverso lo sterrato della riserva naturale, più la vita sembrava sfuggirgli di mano come un sapone. Ansimava dalla fatica. Digrignava i denti dalla rabbia di chi si è visto strappare via il tesoro più grande, la propria ragione di vita. All'improvviso, circondato dal perfetto ecosistema del parco, si ritrovò davanti, tanto statuario quanto inquietante nella sua magnificenza, il Capilano. Il ponte sospeso attraverso il canyon chiedeva solo di essere attraversato per raggiungere l'altra sponda della foresta. Ethan trattenne il fiato e iniziò a rallentare la sua corsa in corrispondenza delle assi di legno che ricoprivano lo stesso. Iniziò a mancargli il respiro. Non tanto per i cinquanta metri di salto che dispiegavano il vuoto sotto di lui, quanto per ciò che quel ponte simboleggiava per il suo vissuto. Si fermò a metà percorso. Non c'era nessuno attorno a lui. Solo il fruscio degli alberi e il cupo verso di un gufo rintanato nella foresta. L'imbrunire gli fece tornare alla mente che avrebbe dovuto prendere di lì a poco la strada del ritorno, perlomeno per evitare di inciampare in qualche radice infingarda. Eppure non poteva muoversi da quella minuscola porzione di mondo. Era lì che si erano conosciuti ed avevano fantasticato su un futuro comune. In quel punto del ponte i loro occhi avevano trovato l'amore senza nemmeno accorgersene. Lui correva da una parte, lei dall'altra. Un urto involontario e uno sguardo che sapeva d'infinito li condussero uno tra le braccia dell'altra. Ethan non poté non notare il fisico slanciato e i lunghi capelli biondi a circondare un viso pulito che sapeva d'innocenza. Quegli occhi azzurri, brillanti come le acque correnti del fiume Fraser. Lei gli apparve subito come un angelo venuto dal cielo per rapirlo e portarlo dove nessuno avrebbe potuto ferirlo.

       «Scusa, ti ho fatto male?» le disse affranto per l'accaduto.

     «Non ti preoccupare...» lo tranquillizzò la ragazza, che continuò:

       «... a proposito, mi chiamo Ashley».

    Da quando Ethan udì quel nome, per lui la vita prese una piega inaspettata. Iniziò a fare jogging con lei, poi, tra un caffè e un Long Island, scoprì che il loro incontro fortuito non sarebbe stato solo una delle tante occasioni, ma l'evento della sua vita. Si fidanzarono e si sposarono due anni dopo andando a vivere in un piccolo appartamento nella zona Downtown di Vancouver. Lui, docente di lettere alla scuola media British Columbia, e lei, insegnante di danza moderna alla Harbour Dance Centre. Un cocktail curiosamente vincente. A differenza di Ethan, Ashley non rimase particolarmente colpita dal suo aspetto fisico. Capelli ricci, castani e occhi verdi non molto grandi, ma espressivi. Non era alto, circa un metro e settantacinque centimetri, ma prestante nel suo modo di porsi. Questo era Ethan Clark. Una persona come tante se ne vedono in giro, ma che per Ashley Taylor era semplicemente unica: un animale raro conosciuto per caso sopra un ponte sospeso all'interno di uno degli innumerevoli parchi canadesi.

    2

    Quando Ethan si svegliò erano le 2.27 del 16 agosto. Guardò l'ora proiettata sul soffitto dalla sveglia a led, quindi si alzò per andare in bagno.

       «Dannazione! Sempre la stessa ora, sempre lei, lei e ancora lei!» imprecò tra sé e sé orribilmente infastidito per la concomitanza di eventi che si erano verificati nelle numerose notti dell'ultimo mese, da quando la sua povera Ashley era stata trovata morta nel bagno di Connor Campbell. Ethan non aveva mai accettato la cosa e non lo avrebbe mai fatto. Sapeva che non avrebbe dovuto scomodare la medicina tradizionale cinese per capire che lo svegliarsi nel mezzo della notte sempre alla stessa ora era un indizio che la sua salute era cagionevole. Faceva sempre lo stesso sogno: la corsa attraverso il Lynn Canyon Park, il ponte sospeso e l'incontro con lei. Poi il nulla, la sveglia cerebrale nella notte, il letto matrimoniale semivuoto e la corsa in bagno per ingerire le insostituibili compresse di Tavor.

    Da quando il dottor Fisher gliele aveva prescritte, Ethan era diventato il miglior amico delle benzodiazepine e delle loro proprietà ansiolitiche e miorilassanti. Lo aiutavano a non pensare, a non ricordare l'orrore provato nel trovare il corpo esanime della sua Ashley.

    Non c'era giorno in cui non si chiedesse il perché di quanto accaduto, il motivo per il quale la sua compagna di vita aveva deciso di farla finita durante una cena tra amici con un massiccio sovradosaggio di barbiturici. L'unica consolazione era che non aveva sofferto. Si era accasciata a terra e svenendo aveva battuto la testa sul lavandino per poi rimbalzare indietro e colpire con la nuca il bordo vasca. L'immagine di lei a terra e dei suoi occhi spenti era stata parzialmente rimossa dal suo io e dagli psicofarmaci, ma il dolore della perdita sembrava ad Ethan ogni giorno più reale. Sapeva che Ashley stava attraversando un periodo difficile. La caduta dai rollerblade le aveva procurato quella distorsione della caviglia che le aveva impedito di riprendere con passione e dedizione l'insegnamento della danza. Aveva saltato le prove di uno spettacolo che avrebbe dovuto preparare entro qualche mese e la cosa la segnò nell'animo. Eppure era troppo poco per una depressione acuta, soprattutto per una persona energica come Ashley. Almeno così pensava Ethan da quando era successo l'inenarrabile. Non vi era giorno in cui non si ritenesse colpevole dell'accaduto, quasi a giustificare il gesto davanti alla sua immane sofferenza.

    Fu così che anche quell'infinita notte di un vuoto 16 agosto lo condusse a fatica alla sveglia del mattino.

       «Meno male che la nottata è terminata» pensò tra sé e sé trascinando i piedi verso il bagno. Destarsi alle 6.30 del mattino non è mai piacevole, ma Ethan non poteva rinunciare al suo consueto jogging scacciapensieri. Sapeva che a quell'ora avrebbe trovato poche persone pronte a disturbare la sua corsa verso la natura incontaminata che circondava Vancouver. Un'ora per staccare la spina e non dover pensare all'ennesima notte alla ricerca di chi ormai non c'era più. Poi la doccia, la solita colazione con un bicchiere di succo d'arancia, tre biscotti e un uovo all'occhio di bue.

    Da quando era mancata Ashley era diventato routinario. Le novità lo destabilizzavano e lo facevano sentire vittima di un mondo che non sentiva più suo. Anche il dottor Fisher lo aveva stimolato a cercare nella semplicità del quotidiano un modo per risalire dal baratro profondo nel quale si era venuto a trovare. Per certi versi l'autismo forzato di Ethan stava rendendo impenetrabile il suo cervello ai fantasmi del passato, anche se inconsapevolmente. Non vedeva l'ora di ricominciare la scuola,  il nuovo ritmo giornaliero che lo avrebbe salvato dal tracollo. La sua cattedra di lettere, le sue classi, le ore a leggere di questo o quell'autore e ad imbastire i compiti in classe. Andava pazzo per il suo lavoro e non lo avrebbe barattato per null'altro al mondo. Era un insegnante moderno. Basava le lezioni sul dialogo e sul confronto e preferiva l'autorevolezza ragionata alla bieca autorità vuota di intelligenza spicciola. Lui amava la scuola almeno quanto quest'ultima lo faceva sentire degno di fare il docente. Avrebbe dovuto attendere quindici lunghi giorni, ma gli amici e la passione per lo sport lo avrebbero distolto dall'attesa della prima fatidica campanella scolastica. Prese il telefono.

       «Ciao Wilson, sono io» disse con il bicchiere di spremuta ancora in mano.

    Wilson Chambers era suo collega di scienze alla British Columbia e amico fin dall'infanzia. Entrambi originari della Downtown di Vancouver, vivevano nella stessa palazzina e frequentavano la High School. Dopo la laurea in biologia Wilson si era sposato con Elizabeth Convey, storica sua fiamma fin dai tempi del liceo. Ethan la adorava, la vedeva come la ragazza perfetta per il suo migliore amico. Era spassosa, determinata e orgogliosa nella sua attività di ricercatrice all'Università di Vancouver, ma troppo puntigliosa e ossessionata dall'aspetto esteriore per poter essere vista come qualcosa di più di una semplice amica da lui. Elisabeth non aveva dato figli a Wilson e Ethan sapeva che l'amico in passato ne aveva sofferto, ma ora se ne era fatto una ragione. Poi i coniugi Chambers avevano riversato le loro attenzioni sui Vancouver Canucks e sulla National Hockey League che vedeva la squadra canadese  primeggiare da diversi anni.

       «Come mai mi chiami?» chiese sarcasticamente Wilson conoscendo già la risposta che gli avrebbe dato l'amico.

       «Non te lo aspettavi, vero?» rispose divertito  Ethan, che continuò, «Mi sembra che oggi qualcuno compia quarant'anni...» .

       «Non me ne parlare...» cambiò tono Chambers, «... l'anagrafe si oppone al mio spirito goliardico!»

       «Ah ah, auguri Wilson!» gridò al telefono Ethan per risollevargli il morale.

       «Grazie collega. Ricorda che stasera si brinda al Doolin's Irish Pub» puntualizzò l'amico.

       «Come posso mancare?»

       «Ci saranno anche Jeff, Bruce e Connor con  Miranda».

    Ethan ebbe un sussulto. Quei nomi gli ricordarono la cena in cui Ashley aveva messo fine alla sua giovane esistenza. Erano a casa di Connor Campbell, medico chirurgo al General Hospital e di sua moglie Miranda Preach, che avevano deciso di fare una cena di mezza estate per inaugurare il loro nuovo gazebo in noce.

       «Ethan, ci sei?» chiese Wilson davanti al silenzio del cellulare.

       «Eh? Come?»

       «Lo so a cosa stai pensando. Considera piuttosto la bevuta che ci faremo stasera».

       «È dura, amico. È dura...» sospirò Ethan cambiando il tono di voce, e continuò:

       «... a volte la vita non ha un senso».

       «Sono d'accordo con te. La nostra esistenza è costituita da una miriade di frammenti di non senso...» puntualizzò Chambers, che terminò: «... proprio come in quel libro che mi hai prestato lo scorso anno di quell'autore sconosciuto. Ti ricordi?»

       «Certo, Frammenti di non senso».

    Resosi conto che Clark, ripensando alla trama del libro, stava tornando in lui, Wilson lo salutò ricordandogli l'appuntamento delle 21.00 al pub.

    Ethan chiuse il cellulare con la mente divisa tra la preoccupazione di riabbracciare amici e colleghi che aveva allontanato per dolore dalla terribile serata del 15 luglio e la speranza di poter rivedere il sole con occhi diversi grazie al romanzo noir tornatogli alla mente dalla conversazione con il collega. Adorava leggere. Non i libri inflazionati presenti costantemente nelle vetrine delle grandi librerie, ma quelli di nicchia. Era solito, da buon docente di lettere, trascorrere del tempo libero dove avrebbe potuto trovare autori emergenti, ma non per questo meno meritevoli di attenzione. A casa aveva una collezione di opere prime di scrittori venuti dal nulla. Ashley adorava questa sua passione. Lo chiamava l'indefesso scopritore di talenti e, occasionalmente, lo accompagnava a fare incetta di testi tra le piccole librerie e il vecchio mercato dell'usato. Si divertiva ad osservarlo in quel mondo variopinto che gli si apriva davanti. Ethan era come un bambino catapultato all'interno di un negozio di giocattoli. Sfogliava un romanzo attratto dalla copertina, quindi un altro colpito dalla originalità del titolo. Più il libro si trovava in una posizione defilata rispetto agli altri, più era degno della sua attenzione.

    L'uomo si destò dal suo torpore.

       «Oggi vado a cercare qualcosa di interessante...» pensò vestendosi in rapidità.

    A parte le solite commissioni e la ricerca del regalo per l'amico, avrebbe avuto tutto il tempo necessario per poter rovistare nella bottega di qualche vecchio libraio. Uscì di casa con uno spirito ritrovato.

    3

    Erano le 21.00 esatte quando Ethan si trovò davanti al Doolin's Irish Pub. Non sopportava di arrivare in ritardo. Lo vedeva come una mancanza di rispetto verso l'altro e, piuttosto che tardare agli appuntamenti, telefonava anticipatamente per scusarsi dell'eventuale ritardo.

    Jeff Dooley era l'esatto opposto. Arrivò alle 21.10 con la consueta calma serafica che lo contraddistingueva. Docente di matematica, viveva nel suo mondo. Spesso schernito dagli studenti per il suo singolare modo di porsi, si rendeva simpatico ai colleghi per aver sempre la battuta pronta e l'espressione facciale che richiamava il sorriso. Corporatura robusta, bassa statura e occhi leggermente convergenti verso il naso, adorava fumare i sigari cubani, tant'è che ne teneva sempre una scatola all'interno del borsello che si portava dietro. Era un single incallito e qualcuno tra i colleghi ironizzava dicendo che nessuna donna avrebbe potuto sopportare di condividere con il tabacco il proprio uomo. E poi quei ritardi insopportabili. Ethan si doveva mangiare le mani ogni volta per non fargli osservazioni. Cercava di prenderlo per quello che era, un quarantacinquenne riconosciuto da tutti come la macchietta del gruppo.

       «Ciao Jeff» gli dissero i colleghi guardandosi divertiti dopo aver scommesso su quanti minuti di ritardo avrebbe accumulato. Salutò agitando la mano sinistra mentre con la destra si portava il cubano alla bocca. Quando entrarono nel locale erano in undici, tra amici di vecchia data e colleghi.

    Si trattava del tipico pub irlandese in cui la luce soffusa delle lampade in stile, posizionate sapientemente accanto ai tavolini, dava un'impronta calda all'insieme. Delle botti, trasformate in tavoli, rilasciavano quel tipico vecchio aroma di legno che richiama le cantine di fermentazione. Il tutto avvolto da una musica folk in perfetta tradizione celtica. Nell'ala destra del locale vi era un privè con la prenotazione a nome Chambers. Tre grosse botti in rovere erano circondate da vecchie sedie in legno, alcune di esse mangiate dai tarli. Il primo a sedersi fu Bruce Lassiter, collega di educazione fisica. Era un uomo sulla quarantina dal fisico prestante, capelli neri, ricci, lunghi a coprire il collo e barba di tre giorni, segno di quella malcuranza che per certi versi rende l'uomo più maschio. Era accompagnato da Paige Michaels. Sei mesi prima l'aveva presentata come sua fidanzata al gruppo e nessuno gli aveva creduto. Non era mai stato capace di tenersi stretta una donna. Era uno spirito libero e tendeva a stufarsi facilmente dei rapporti piatti e costanti nel tempo. Aveva adescato la signorina Paige, ventottenne originaria della California settentrionale, nel The Shark Club Bar & Grill, locanda in cui lei lavorava come cameriera. Bastarono due battute e qualche sguardo ammiccante e lo scapolo incallito della Downtown fece centro. Si trovò ad uscire con una giovane bionda platinata che stava riuscendo a tenerlo ancorato alla sua gonna come nessuna prima di lei. Ethan e i colleghi scommettevano spesso sulla durata del loro rapporto e fino a quel momento il buon vecchio Bruce stava andando ben oltre ogni pronostico in suo sfavore. Lassiter si sedette accanto alla fidanzata dalla parte della parete perlinata in noce. Accanto a loro Wilson Chambers, ancora eccitato per la serata in suo onore, con la moglie Elisabeth. Di fronte a loro prese posizione Lauren Jones, donna di un'eleganza e di un gusto nel vestirsi più unico che raro. Compagna di classe di Ethan e Wilson alla High School, scelse la laurea in Psicologia con specializzazione in Psicologia clinica. Aveva sempre avuto una certa empatia nei confronti delle persone, cosìcché decise di trasformare una sua attitudine in una vera e propria professione. Da una decina d'anni si occupava dell'attività di prevenzione, valutazione, riabilitazione e sostegno psicologico a livello individuale, familiare e gruppale. Aveva aperto un suo studio nella Downtown e nell'ultimo periodo, dopo la tragedia accorsa all'amico Ethan, gli era stata particolarmente vicina. Non era impegnata con alcun uomo.

       «Ho sposato i miei pazienti» rispondeva sempre a chi le chiedeva come mai a quarant'anni una donna del genere fosse ancora single.

    Ethan si sedette accanto a lei. Notò il suo vestito nero appena sotto il ginocchio, la capigliatura corvina, molto corta, con la frangia che copriva parzialmente le sopracciglia e il leggero eye liner nero che impreziosiva, valorizzandone lo sguardo, i suoi occhi verdi. Era una bella donna, ma di quella bellezza sobria tipica di chi ha savoir-faire scolpito nel dna. Ethan avrebbe voluto sfogarsi con lei più di quanto il suo cervello avesse fatto fino ad allora, ma il suo ruolo di amica psicoterapeuta lo bloccava destabilizzandolo nei suoi propositi. I due erano d'accordo di sentirsi e vedersi solamente quando Ethan lo volesse. Certo, c'erano le occasioni mondane per ritrovarsi come quella serata al Doolin's, ma erano situazioni eccezionali in cui l'aspetto professionale veniva sapientemente accantonato per dare spazio alle frivolezze distensive per i nervi.

       «Che eleganza, Lauren!» le sorrise con un'espressione meravigliata di approvazione.

       «Grazie. Ho indossato la prima cosa che ho trovato e non ho avuto il tempo materiale di sistemarmi come avrei voluto».

    Le sue parole erano sincere. Per chi non la conosceva bene poteva sembrare un atteggiamento altezzoso, per certi versi supponente. Non era così. Era tale e quale nella sua semplicità. Non era una bambola costruita a tavolino, solo una donna consapevole di stessa.

    Arrivò un cameriere per l'ordinazione.

       «Ricordate che stasera siete miei ospiti!» esclamò Wilson Chambers sfregandosi le mani in segno di autocompiacimento.

    Fece portare tre caraffe di ottima birra irlandese con diversi stuzzichini di accompagnamento. I coniugi Campbell strabuzzarono gli occhi davanti al ben di Dio che si presentava  loro.

       «Se avessimo saputo che c'erano così tante cose da mangiare saremmo venuti a stomaco vuoto» disse la donna con un'espressione buffa.

       «Vorrà dire che mangeremo due volte» fece la battuta il marito suscitando l'ilarità del gruppo.

    Connor non era nuovo ad inscenare assieme alla moglie Miranda Preach scenette comiche e finti litigi esasperati per catturare l'attenzione su di sé e nel contempo animare la serata dandole un'impronta goliardica. Lui, amico di vecchia data di Ethan e Wilson, si era distinto nel campo della medicina. Dopo un'intensa carriera universitaria, si era specializzato in chirurgia cardiovascolare ed era divenuto in pochi anni un pilastro del Vancouver General Hospital. Qui aveva conosciuto la moglie Milly, come era solito chiamarla in modo vezzeggiativo. Lei faceva già da anni l'infermiera e, come è facile intuire in queste situazioni, da cosa era nata cosa... I due avevano comprato casa nel quartiere altolocato di Yaletown. Qui, assieme ad un ameno giardino in stile british, possedevano una splendida coppia di cani di razza Golden Retriver, Jules e Vanda.

       «Sono come figli» diceva sempre Campbell innamorato delle due bestiole.

    In realtà la coppia di Yaletown aveva due figlie, Sarah e Grace di otto e sei anni, entrambe alle scuole elementari. Erano una  famiglia deliziosa, tranne per lo sciocco difetto di sentirsi spesso al di sopra di tutto e tutti. Ostentavano la loro posizione sociale creando una sorta di fastidio in chi, come Ethan, professava umiltà o soffriva di bassa autostima. Lui li sopportava in nome di un'amicizia con Connor che durava da più di trent'anni. Aveva imparato ad accettarlo per quello che era. In fin dei conti lo ammirava per la sua determinazione, anche se avrebbe gestito il suo successo professionale in modo diverso. E poi, quando lui e Milly iniziavano a simulare i teatranti in gruppo, tutti i difetti della coppia scomparivano per lasciare spazio a due persone spassose che scendevano tra i comuni mortali.

    Ethan, da buon osservatore, notò i capelli brizzolati di Connor. Il lavoro assorbiva molto il medico e spesso i turni lo portavano ad un alto livello di stress psicofisico.

       «È sempre più bianco» disse tra sé e sé notando come, da un mese a questa parte, il suo cuoio capelluto avesse subito una degenerazione di tipo senile. Gli tornò alla mente l'ultima volta in cui lo aveva visto. Si trattava della tragica serata del 15 luglio, proprio a cena a casa Campbell. Ethan si fece scuro in volto. Quella fu anche l'ultima volta in cui vide Ashley. Ripercorse il film della serata, la disposizione della mobilia, le sensazioni e l'immagine della moglie che si allontanava dal tavolo sotto il gazebo per andare verso il bagno, il luogo degli orrori. Si riprese solamente quando Wilson, riempiti i boccali di birra, si alzò in piedi per fare il brindisi.

       «Grazie a tutti di essere qui...» disse euforico, concludendo «... e ora avanti con altri quaranta». Il clima di ilarità venutosi a creare fece trasalire Ethan e lo riportò all'allegria del momento. L'uomo si ricordò delle giornate trascorse con l'amico, dell'adolescenza spensierata in cui fantasticavano sul futuro e sui primi innamoramenti. Ad Ashley, Wilson Chambers piaceva. Le sue battute e la voglia di vivere la spingevano a cercare la sua compagnia assieme al marito. Condivideva anche la passione per la cucina con Beth Convey, la moglie di Wilson. Le due donne si divertivano a scambiarsi le ricette e a sperimentare creature culinarie nuove ogni volta che organizzavano una cena assieme ai loro mariti. La coppia di amici di Ethan era rimasta sconvolta per la prematura scomparsa di Ashley almeno quanto lui. Gli stavano vicini con discrezione, ma sapevano che sarebbe uscito dal baratro del suo dolore quando lui stesso lo avesse voluto, non certo su suggerimento degli altri.

    Si alzarono tutti per brindare con Wilson. Il tenore alcolico della serata prese subito una piega inaspettata, tant'è che Paige Michaels iniziò ad avere dei forti mal di testa dopo pochi sorsi di birra. La giovane fidanzata di Bruce Lassiter fu costretta a sedersi tra lo stupore del gruppo.

       «Scusate, ma non tengo molto l'alcool». La sua frase sbigottì Ethan e i suoi colleghi.

       «Non ci credo... tre sorsi... solo tre sorsi?!» chiese tra l'incredulo e l'indispettito Wilson sbottonandosi il primo bottone della camicia.

       «Purtroppo è un suo limite» rise Bruce cercando di giustificare la fidanzata.

    La giovane cameriera, con un velo d'imbarazzo, alzò le spalle mostrando quell'espressione buffa tipica di chi si sente gli occhi addosso senza volerlo. Ethan ebbe l'istinto di salvarla da quella scomoda posizione. Non che gli stesse particolarmente simpatica, ma non gli era mai piaciuta l'idea isolare le persone socialmente semplicemente perché diverse nelle loro abitudini e nel loro modo di vivere, soprattutto nelle occasioni mondane.

       «Hanno parlato gli ubriaconi di Vancouver!» esclamò agitando il boccale praticamente vuoto in segno di compiacenza e appartenenza al gruppo. Fu l'azione giusta al momento giusto. Le sue parole volevano difendere chi aveva bisogno di essere difeso e il suo gesto con il bicchiere gli fece recitare una sorta di mea culpa. Tutti compresero le sue intenzioni di rendere la serata distensiva senza lasciare strascichi negativi. Continuarono a scherzare del più e del meno coinvolgendo anche la giovane Paige senza farle pesare  la sua poca resistenza all'alcol.

    La serata terminò all'una di notte quando Lauren si alzò dal tavolo ricordandosi dell'appuntamento fissato per il mattino del giorno seguente con uno dei suoi pazienti. Erano tutti in ferie tranne lei, stakanovista innamorata del suo lavoro. Difficilmente vi rinunciava anche se, opportunamente, nel mese di ottobre, era solita andare a trovare i nonni negli Stati Uniti d'America, nella regione del Montana per circa dieci giorni. Era un ritorno alle origini che non si sarebbe persa per nessuna cosa al mondo. Per il resto dell'anno era sola con i suoi insostituibili pazienti.

    Anche Ethan si congedò.

       «Buonanotte e grazie per la serata».

    Il tono celava il malumore per un'altra notte in cui avrebbe avuto un incontro onirico con la sua Ashley e per la solita corsa notturna al bagno alla ricerca delle benzodiazepine. Più si autoconvinceva che lo avrebbero aiutato a stare meglio, più queste stavano assumendo un ruolo decisivo nel suo equilibrio psicofisico. Ne era assuefatto e non avrebbe mai potuto rinunciarvi.

    4

       «Sbrigati, amore, che facciamo tardi!» esclamò indispettito Ethan nell'attesa che Ashley uscisse dalla doccia. Si trovava sull'uscio con lo sguardo fisso sul cellulare a contare i minuti che mancavano alle ore 20.00 del 15 luglio. Si divertiva a giocare con le simpatiche applicazioni del telefonino. Sarebbe stato ore a smanettare sull'aggeggio di ultima generazione, ma la fresca serata che li attendeva a casa di Connor e la curiosità di vedere il nuovo gazebo dei coniugi Campbell lo elettrizzava non poco.

       «Arrivooo». La ragazza in pochi minuti passò dal vestirsi al truccarsi. Era abituata a farlo per lavoro. Troppe volte aveva dovuto fare un cambio d'abito praticamente istantaneo per poter essere in scena in tempo utile. Ethan spesso la prendeva in giro definendola trasformista, ma era per quel motivo che lui preferiva prepararsi prima di lei. Sapeva che a lei sarebbero bastati dieci minuti per arrivare alla porta di casa pronta per uscire. Quel 15 luglio, però, sua moglie era in terribile ritardo. L'incidente alla caviglia l'aveva rallentata nel suo modo di vivere e affrontare la giornata.

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