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Varese Non aver paura: Un'indagine del magistrato Elena Macchi
Varese Non aver paura: Un'indagine del magistrato Elena Macchi
Varese Non aver paura: Un'indagine del magistrato Elena Macchi
E-book239 pagine3 ore

Varese Non aver paura: Un'indagine del magistrato Elena Macchi

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Info su questo ebook

“La ragazzina stava correndo lungo la strada che da Brinzio, dove abitava, portava a Castello Cabiaglio. Si stava allenando intensamente. Aveva appena vinto la maratona ai giochi della gioventù”. Improvvisamente un rumore alle sue spalle, poi l’aggressione brutale, selvaggia.
Sono trascorsi venti anni da quel giorno.
Il P.M. Elena Macchi, rientrando dal lavoro, si imbatte in una giovane donna: si tratta di Carla Allevi, la nuova vicina, di professione insegnante, figura complessa ed enigmatica. Fra le due nasce una sincera amicizia. Poi un turpe episodio porta la Macchi ad avvicinarsi al difficile mondo degli adolescenti, attraverso due ragazzine, Sara ed Erika.
Il ritrovamento del corpo senza vita di Rosario Accorsi, brutalmente ucciso, dopo essere stato torturato, darà il via a una complessa indagine, che assumerà presto risvolti sconvolgenti.
L’intera vicenda si svolge tra Varese e i comuni limitrofi, ma il mistero sembra rimandare sempre ai boschi. E sarà proprio in un bosco, all’interno di quello che un tempo era stato un maestoso albergo, il Grand Hotel Campo dei Fiori, luogo ormai fatiscente e abbandonato, che Elena Macchi scoprirà la soluzione del mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2017
ISBN9788869432118
Varese Non aver paura: Un'indagine del magistrato Elena Macchi

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    Anteprima del libro

    Varese Non aver paura - Laura Veroni

    PROLOGO

    La ragazzina stava correndo lungo la strada che da Brinzio, dove abitava, portava a Castello Cabiaglio. Si stava allenando intensamente. Aveva appena vinto la maratona ai giochi della gioventù. Ai piedi le scarpe da ginnastica nuove che suo padre le aveva regalato come premio. In mente le parole del suo insegnante di educazione fisica: Anche se sei solo in prima media, corri più veloce delle tue compagne di terza. Era stata selezionata per partecipare ai campionati regionali. Da giorni si allenava su quella strada, perché non passavano quasi mai auto e non era costretta a respirare i gas di scarico. Invece si respirava aria buona da quelle parti. Era brava, aveva gambe veloci. Pensava al fratello che da qualche giorno non correva con lei. Si era appena slogato una caviglia, scendendo le scale di casa. Te la senti di andare da sola?. Non avrebbe rinunciato per niente al mondo: era determinata a vincere. Già si immaginava sul podio, la medaglia al collo, i flash dei fotografi, le congratulazioni di amici, parenti e conoscenti, la soddisfazione degli insegnanti. Un modello da imitare per tutte le sue compagne. Correva a ritmo sostenuto, si sentiva carica, aveva energie, era motivata. Aveva tutte le carte in regola per salire su quel podio e diventare l’orgoglio di mamma e papà. Fantasticava sul regalo che le avrebbero potuto fare questa volta i suoi genitori. Magari una bici nuova oppure un cagnolino, il suo desiderio più grande, da sempre respinto dalla mamma che non voleva un terzo figlio da accudire, come diceva ogni volta che si affrontava l’argomento. Magari questa volta sarebbe riuscita a convincerla.

    Aveva già percorso circa un chilometro, quando avvertì un rumore alle spalle. Si voltò e vide un individuo che correva dietro di lei. Un altro maratoneta, pensò. Ma da dove era sbucato? Chissà se si allenava anche lui per qualche gara o se era uno dei tanti che correvano unicamente per tenersi in forma! Strano, però, correre con felpa e cappuccio in testa. Non era così freddo da giustificare un simile abbigliamento. Chissà come sudava là dentro! Lui avanzava veloce, una falcata da competizione. La ragazzina pensò che a breve l’avrebbe sorpassata. Sarebbe stato da ganzi riuscire a tenergli testa e mantenere la distanza, ma, per quanto forte lei fosse, non poteva certo pensare di competere con un uomo che era il doppio di lei. Si voltò di nuovo, per calcolare lo spazio che ancora li separava. E fu lì che la curiosità si tramutò in terrore: l’individuo aveva un passamontagna calato sulla faccia.

    E capì.

    Il cuore prese a batterle all’impazzata. Il rumore dei passi che la inseguivano si fece sempre più vicino. Cominciò a correre più veloce, la gola arsa dalla paura.

    Te la senti di andare da sola? Le parole del fratello le martellavano nelle tempie. Perché, perché non gli aveva dato ascolto e non era rimasta a casa con lui? Lanciò occhiate intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, un passante col cane o un’auto che sopraggiungesse, ma la strada era deserta e non c’era un’anima in giro. Aveva già oltrepassato la zona delle villette e delle palazzine. Davanti, solo asfalto; ai lati, solo bosco. I passi dietro di lei erano sempre più marcati. Si voltò un istante e lo vide, così vicino che poteva scorgere uno sguardo feroce, come quello di un felino che stava per raggiungere la preda e già pregustava il suo pasto.

    Decise di buttarsi nel bosco: forse, tra la sterpaglia, era più facile sperare di seminarlo. Si infilò nel fitto della vegetazione, senza rallentare la corsa, nonostante i rami degli alberi le graffiassero le braccia che teneva alte, per impedire che le ferissero il viso. Aveva il fiato corto, le bruciava il petto nell’affanno del respiro. Si infilò in un sentiero tortuoso, saltando gli ostacoli dei rami caduti al suolo, dopo il violento temporale della notte. Affondò nel terreno bagnato, le caviglie incerte nel fango che le schizzava le gambe e le imbrattava la tuta. Si voltò. L’inseguitore non c’era più. Rallentò un poco la corsa, incredula. Poi si fermò a riprendere fiato, chinata in avanti, le mani appoggiate sulle ginocchia piegate, il petto che si alzava e si abbassava seguendo il ritmo del respiro affannoso. Lasciò correre lo sguardo tutto intorno: solo piante e silenzio. Si alzò in posizione eretta e si portò una mano al torace, comprimendo il petto, e l’altra alla milza dolente. Il respiro stava tornando poco a poco regolare. Forse l’ho seminato o forse era uno che si allenava davvero, pensò.

    All’improvviso si sentì afferrare da dietro e sollevare. Scalciò nell’aria, dimenandosi come un’anguilla. Urlò, ma in giro non c’era nessuno che la potesse sentire.

    Una mano vigorosa e callosa le tappò la bocca e nello stesso tempo anche il naso. La presa era forte, la stretta violenta. Nell’impatto, si era morsa il labbro. Avvertì il sapore dolciastro del sangue. Le sembrò di soffocare, con quella mano che le impediva il respiro, e continuava a scalciare nel vuoto con tutte le energie che le erano rimaste. Aiuto, biascicava nell’incavo di quella mano, ma il suono le ritornava in bocca e lo inghiottì con un singulto. Si sentì scaraventare per terra. Avvertì un dolore lancinante alla schiena. Doveva essere piombata su una radice sporgente o peggio su un sasso. Lui le era sopra. Ora lo vedeva chiaramente negli occhi. Aveva paura. Mamma, papà... la sua stanza, il suo letto, suo fratello, il cane che avrebbe voluto... Mamma, papà... Le ginocchia dell’aggressore le premevano sul costato, stringendole le costole con forza. Le sentì scricchiolare. Le mancò il respiro.

    Improvvisamente, nella mano destra dell’uomo comparve un pugnale.

    La ragazzina lo fissò con gli occhi pieni di terrore.

    «Se stai buona e non gridi, poi ti lascio andare», bisbigliò dura la voce del carnefice.

    Decise di assecondarlo: capì che quello era l’unico modo per sperare di salvarsi la pelle. Se avesse fatto come lui voleva, forse non l’avrebbe uccisa. La vista le si appannò: lacrime copiose le scorrevano lungo il viso.

    1

    Sabato 10 marzo 2012 ore 11:00

    La vibrazione del cellulare, singola e secca, la avvisò che aveva appena ricevuto una mail.

    Elena Macchi si stiracchiò sulla poltroncina girevole dietro la scrivania del suo ufficio, inarcando la schiena e portando le braccia dietro allo schienale, intrecciando le dita delle mani e tirando con forza verso la parete alle sue spalle. Sentì scrocchiare la colonna vertebrale. Ritornò in posizione eretta, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e reclinò la testa prima a destra poi a sinistra, infine effettuò una semirotazione del capo all’indietro, prima da un lato poi dall’altro. Avvertì la sensazione di sabbia nel collo, sentendone il rumore fin dentro alle orecchie. Maledetta cervicale! Forse doveva smetterla di caricare l’asta dello squat. Era arrivato il momento di fare i conti con l’età: non era più una ragazzina, tantomeno una giovane donna che poteva permettersi di strafare in palestra, senza troppe conseguenze. Si stava avvicinando al traguardo dei cinquanta, tanto temuto da molte donne. Era un’età che segnava il passaggio dall’essere ancora piuttosto giovane al non esserlo più. Si ritrovò a riflettere sullo scorrere del tempo. Pareva che, negli anni, avesse ingranato la sesta, marcia di riposo. Si sentiva come un’auto di grossa cilindrata che procedeva a velocità di crociera in autostrada. Le energie non erano più le stesse di una volta e il P.M. era stanca di affrontare la vita di corsa. Cinquanta era un’età che faceva pensare. Chissà perché, però, non la spaventava come l’aveva invece spaventata l’idea di compierne quaranta. Ancora ricordava il giorno del quarantesimo compleanno: si era svegliata con addosso un senso di depressione spaventoso. Forse l’idea del giro di boa: i fatidici anta. Si era sentita terrorizzata. Poi, senza nemmeno accorgersene, già il giorno dopo, sembrava averci fatto l’abitudine: in fondo era la stessa di sempre, nulla era cambiato. Ora non le faceva né caldo né freddo l’idea di compierne dieci di più. Elena Macchi non aveva un compagno di vita. Frequentava da qualche giorno un uomo, separato in attesa di divorzio, ma la storia era solo all’inizio e faticava a spiccare il volo. Non era facile, del resto, per una come lei, abituata alla libertà, legarsi affettivamente a qualcuno. Se da giovane la cosa non le era mai pesata, ora, però, il vuoto degli affetti pareva affacciarsi alla sua coscienza come consapevolezza di una vecchiaia in solitudine. Il P.M. non era tipo da sentimentalismi, era piuttosto una donna pratica, decisa, con un carattere forte, sicura di sé. Non aveva avuto nemmeno un grande esempio di amore sponsale nei suoi genitori, la cui vita era fatta di bugie, falsità, inganni, tradimenti. Non aveva molta fiducia negli uomini. A dire il vero, non ne aveva nel genere umano: ne aveva viste troppe nella sua lunga carriera.

    Si passò una mano tra i capelli. Erano ancora lunghi, forse troppo, per una donna della sua età, ma erano belli, corposi, biondo ghiaccio. Da qualche anno, Elena aveva detto addio al proprio colore naturale, il platino. Le prime ciocche bianche le avevano suggerito una tinta più vicina al colore che la natura stava conferendo alla sua chioma. Aveva notato su una rivista di moda quel colore e aveva chiesto a Paolo, il suo parrucchiere di fiducia, di tingerle i capelli allo stesso modo. Come la modella della foto, aveva mantenuto la lunghezza, scalando appena le punte sul davanti. Un lungo ciuffo le ricadeva sulla fronte. Aprì il cassetto della scrivania e prese un mollettone che giaceva sul fondo, pronto all’uso. Era solita raccogliere i capelli, prima di iniziare a lavorare: non sopportava di averli davanti agli occhi, mentre si accingeva a scrivere al pc o a compilare delle carte. Arrotolò la lunghezza in una crocchia e la puntò dietro la nuca, quindi allungò la mano verso il cellulare, digitò il pin e fece scorrere lo schermo fino a far comparire la busta della mail.

    In risalto, in caratteri rossi, spiccava l’inizio di una missiva a nome Galli. Elena Macchi si drizzò sulla sedia: che cosa mai voleva il procuratore capo? Esercitò una lieve pressione con l’indice sul testo e la mail si aprì. Lesse il contenuto del messaggio con un certo stupore: il procuratore capo, ormai prossimo alla pensione, le comunicava che avrebbe avuto piacere che lei prendesse il suo posto. Dopo una serie di convenevoli, concludeva dicendo che avrebbe caldeggiato la cosa con le alte sfere.

    Il P.M. posò il cellulare sulla scrivania e sospirò. Una folla di pensieri si presentò alla sua mente, sensazioni contrastanti. Da una parte si sentiva lusingata, dall’altra non le sarebbe piaciuto diventare una burocrate: lei amava l’azione.

    Si appoggiò allo schienale della sedia e la fece ruotare leggermente da un lato e dall’altro, come a voler cullare i pensieri. Chiuse gli occhi e rivide un po’ tutta la sua vita, la sua carriera. All’improvviso, nella sua mente, si materializzò la poltrona del procuratore. Elena Macchi si ritrovò a sorridere. Se qualcuno l’avesse vista in quel momento, avrebbe creduto che stesse sognando qualcosa di bello, invece stava semplicemente ricordando qualcosa di buffo: la forma dell’abbondante fondoschiena di Galli stampata sulla seduta della poltrona in pelle, quella sulla quale si era accomodata anche lei. Ritornò a quel momento, nell’estate del lontano 19971¹, quella del caso Della Torre. Faceva un gran caldo nell’ufficio del procuratore e lui sudava copiosamente. L’aria era irrespirabile. Galli non era certo un uomo affascinante, grassoccio, stempiatissimo, con quel riportino sempre appiccicato sulla fronte, la pelle bianchiccia e l’aspetto decisamente flaccido. Beh, se avesse accettato l’incarico, la procura avrebbe fatto un salto di qualità quanto a rappresentanza. Riaprì gli occhi e smise di sorridere.

    Il P.M. si ritrovò a provare una certa nostalgia, nel ricordare quel periodo. Era una giovane donna in carriera, allora, una trentacinquenne ambiziosa, una lady d’acciaio, molto temuta dai suoi subalterni, ma anche molto stimata per le sue qualità e la tempra che la rendevano caratterialmente molto simile a un uomo. Quanto tempo era passato! Si scoprì in un gesto involontario: si stava osservando le rughe intorno agli occhi e alla bocca, seguendone il profilo con l’indice della mano destra, riflessa nello schermo del computer in standby.

    Ore 11:30

    Il P.M. uscì dall’ufficio, richiudendo la porta alle sue spalle. Aveva lasciato tutto in ordine, come sempre. Non aveva bisogno di raccomandare che l’inserviente non toccasse nulla e si limitasse a pulire unicamente il pavimento. Non sopportava che qualcuno potesse mettere mano alla sua scrivania. Ormai tutti, lì dentro, sapevano quello che dovevano e quello che non dovevano fare. Percorse il lungo corridoio e raggiunse la scalinata. Scese i gradini tirati a lucido e raggiunse il pian terreno. Attraversò l’ampio atrio e passò davanti al piantone all’ingresso, il quale la salutò ossequiosamente.

    C’era una luce abbagliante nella piazza. Il sole era particolarmente caldo quella mattina: si sentiva la primavera nell’aria. I tavolini del bar di fronte al tribunale erano quasi tutti occupati da avventori che consumavano l’aperitivo. Elena Macchi scorse qualche collega in pausa.

    Attraversò la piazza e imboccò via San Martino. Il profumo della frutta esposta all’esterno del fruttivendolo la investì, solleticandole le narici. Venne attratta da alcuni cestini di fragole. Adorava quel frutto. Indugiò un istante, incerta se acquistarne alcune, poi decise che avrebbe atteso ancora: meglio lasciar crescere la voglia, così avrebbe gustato maggiormente il piacere. Non fece alcuna fatica a resistere a quell’innocente tentazione: era avvezza a una disciplina di ferro.

    Passò davanti alle vetrine dei negozietti che si affacciavano sul vicolo, sbirciando con finta noncuranza i capi esposti, quindi sbucò in piazza Carducci. Era affollata di gente seduta ai tavoli dei numerosi bar che davano sulla zona pedonale. Procedette dritta verso corso Matteotti, percorrendolo al centro della pavimentazione in porfido rosso. L’edicolante del corso, sua vecchia conoscenza – nonché ottima fonte di informazioni, in numerose circostanze, un po’ come la portinaia di un palazzo – vedendola passare, le rivolse un sorriso, sollevando la mano in segno di saluto. Elena Macchi corrispose, abbozzando a sua volta quello che a stento si sarebbe potuto definire sorriso. E poi, in quel momento, aveva altro per la testa: nessuna voglia di carinerie. Doveva prendere una decisione importante: accettare o no l’offerta del procuratore capo Galli.

    Quando raggiunse la piazzetta del Garibaldino, non resistette alla tentazione di soffermarsi davanti alla vetrina della Libreria Del Corso. Da tanto desiderava acquistare un buon libro da leggere la sera, prima di addormentarsi. Era un’abitudine che aveva perso col tempo, soprattutto per la mancanza di spazi da dedicare a quel genere di attività, la lettura, appunto. Il suo comodino era un ricettacolo di scartoffie che si portava spesso a casa dall’ufficio. Doveva riprendere le vecchie consuetudini, quelle che le consentivano di rilassarsi un po’. Sbirciò la vetrina: c’erano tantissimi libri esposti. Sceglierne uno sarebbe stato come tirare il dado: non era molto informata sulle ultime novità. Forse avrebbe fatto bene a entrare e chiedere consiglio. Ricordava di essere stata seguita in più d’una occasione da una commessa molto preparata e competente. Spinse la pesante porta a vetri e guadagnò l’ingresso. L’odore di legno e carta la investì.

    Riconobbe la commessa che stava riordinando alcuni volumi su uno scaffale.

    Il P.M. le si avvicinò. «Buongiorno».

    «Buongiorno a lei, dottoressa Macchi», disse l’altra. «Posso aiutarla?».

    «Direi di sì», rispose il P.M.

    «Dica!». La dipendente posò i libri e si dispose a servirla.

    «Vorrei che mi consigliasse una buona lettura, qualcosa di leggero, non di impegnativo».

    La donna sorrise. Le rughe sottili attorno agli occhi si fecero più marcate. «Quale genere preferisce?».

    «Niente politica o fantascienza», rispose prontamente Elena Macchi. «Il resto va tutto bene».

    «Mi segua». La commessa, una bella presenza che doveva avere all’incirca la stessa età del Pubblico Ministero, fece strada verso il retro del negozio. «Qui ci sono alcune novità accattivanti», esordì. «Se vuole può dare un’occhiata, a meno che desideri un consiglio diretto: io li ho letti tutti».

    Il P.M. si domandò dove trovasse il tempo per leggere tutta quella roba. Decise di concentrarsi sulla quarta di copertina. Se non avesse trovato nulla di particolarmente convincente, si sarebbe affidata al suo consiglio.

    «La lascio sola, allora. Io torno di là a sistemare gli ultimi arrivi. Se avesse bisogno, non esiti a chiamarmi».

    Elena Macchi ringraziò.

    Stava sfogliando un libro con una copertina molto accattivante e un titolo non da meno, quando un flash le attraversò la mente: in quel posto si erano conosciuti e frequentati il pittore Murro e la signora Della Torre. Lì era nata la loro relazione. Ancora il caso del 1997. Pareva che quel giorno tutto la riportasse con la memoria a quella vicenda.

    Si concentrò sui libri. Era indecisa tra due: Venuto al Mondo e L’amore bugiardo. Il

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