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Psicologia e didattica in classe
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E-book359 pagine3 ore

Psicologia e didattica in classe

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La conoscenza della psicologia dell’età evolutiva e dell’apprendimento costituisce una componente essenziale del profilo professionale dell’insegnante, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di II grado. Questo volume è articolato in due parti. Nella prima vengono presentate le principali prospettive culturali della psicologia dal Novecento ai nostri giorni, mentre nella seconda si illustrano in modo dettagliato unità formative ed esperienze di apprendimento, che traducono alcuni orientamenti precedentemente esaminati in prassi didattiche. Teoria e pratica risultano così strettamente interdipendenti e permettono a ogni docente di arricchire il proprio repertorio culturale e didattico, indispensabile oggi per gestire efficacemente le dinamiche di aula.

 
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2020
ISBN9788832761221
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    Anteprima del libro

    Psicologia e didattica in classe - Luciano Rondanini

    seconda

    La scuola nella società

    del rischio: vecchia istituzione

    o nuova comunità?

    di Giancarlo Cerini

    La scuola della comunità

    La scuola di base italiana (infanzia, elementare e media), che sempre più frequentemente si trova a operare sotto il tetto dell’istituto comprensivo, che comprende un lungo percorso che va dai 3 ai 14 anni (e che dovrebbe estendersi almeno fino ai 16 anni), è ben descritta nelle Indicazioni nazionali per il curricolo del primo ciclo (2012), ed è certamente la ‘casa degli italiani’. È una scuola capillarmente presente nel territorio (tante scuole, piccole e grandi) che arricchiscono il paesaggio urbano, dei piccoli borghi, delle campagne e delle vallate. È la scuola della comunità, perché è l’intero contesto sociale che si prende cura della propria scuola.

    "Per educare un bambino serve un villaggio": le buone scuole (quelle che ottengono un più alto valore aggiunto nell’apprendimento dei ragazzi) sono proprio quelle che hanno un rapporto positivo con la comunità in cui operano e con cui intrecciano dialoghi, relazioni, collaborazioni. È la presenza di una rete capillare di scuole (sono 42.000 in tutta Italia, dalla scuola dell’infanzia alle superiori) che alimenta una democrazia diffusa, una società orizzontale, con il gusto della cooperazione, dell’autogoverno, del far crescere in un ambiente protettivo le nuove generazioni di cittadini.

    Una scuola contro vento

    Ma oggi siamo sicuri di ritrovare nell’atteggiamento della società questi valori di solidarietà? C’è ancora fiducia nel ruolo dell’educazione e dell’istruzione che la scuola interpreta? C’è rispetto per la delicata funzione che gli insegnanti svolgono quotidianamente? Quali sono le idee che ruotano attorno al futuro della scuola? Sarà possibile recuperare interesse e passione civile per il miglioramento del nostro sistema educativo?

    Molte delle difficoltà che ritroviamo nelle nostre classi (il mancato senso delle regole, del limite, del rispetto, del silenzio, della curiosità, dello stupore, della disponibilità) dipendono in parte da questa perdita di fiducia nei confronti della scuola. L’autorevolezza degli insegnanti sembra essersi smarrita di fronte alla società della ‘maleducazione mediatica’, del ‘copia e incolla allegramente’, della scomparsa delle ‘virgolette’ (cioè dell’uso di fonti affidabili) e del valore dei testi. Le parole degli insegnanti sembrano perdersi nel vento.

    La società sta costruendo un senso comune quasi di ostilità nei confronti della scuola, una sorta di grande sfiducia mediatica. Andrea De Carlo scriveva qualche anno fa in uno dei suoi romanzi: "La scuola è come un vecchio autobus sfasciato che va per una strada a fondo chiuso guidata da autisti moribondi. Meno sulfuree sono le analisi di studiosi di questi ultimi anni, che però – solo a leggere i titoli dei loro saggi – sembrano non lasciare scampo: L’aula vuota, Distruzione della scuola, Ultimo banco, La disfatta della scuola italiana".

    Se le immagini che si costruiscono attorno alla nostra scuola sono queste, chi lavora in essa giorno per giorno non può che soffrire, perché ha la percezione di non contare, di essere vissuto come un elemento ormai del tutto marginale e inutile.

    Riscoprire una visione ‘esistenziale’ dell’educazione

    Occorre ricostruire un vissuto positivo attorno alla scuola. Non basta più una dimensione tecnica, curricolare, anche con un layout ben strutturato (le aule, le palestre, i laboratori, dove erogare cultura, insegnamento), perché oggi siamo più consapevoli che sono in gioco nuovi fattori ‘esistenziali’ nel rapporto educativo e nell’organizzazione della scuola. Dopo tanti anni di ingegnerie organizzative e curricolari è forse venuto il tempo di una maggiore attenzione alla dimensione ecologica delle relazioni educative. Parole come prendersi cura, ma anche ascoltare, stare vicino, accompagnare sono ‘posture’ che devono ritornare oggi nel modo di essere ‘normale’ della scuola.

    Spesso i ragazzi tornano a casa da scuola dicendo: "Il prof. oggi mi ha ignorato! Non c’ero proprio per lui!". Il rischio è che gli allievi, con le loro fisicità e le loro diversità, diventino invisibili. Occorre riscoprire il valore della relazione, dell’empatia (non è certo la simpatia!), della reciprocità. Gli insegnanti dovrebbero impegnarsi nella conoscenza profonda dei ragazzi che hanno di fronte, piuttosto che nell’accanimento docimologico... La scuola non può dimenticare di essere un ambiente contemporaneamente di relazione, di cura, di apprendimento, come affermano saggiamente le Indicazioni per il curricolo (2012).

    Pedagogia al Bar Sport

    Non è facile farlo perché il senso comune pedagogico sembra pilotato da una disperata richiesta di sicurezza, per esempio, in fatto di ripristino del principio di autorità. I genitori, forse, non ce la fanno più a dire i no ai loro figli e magari si affidano alla scuola: "Diteli voi a scuola i no. Metteteli voi i 5 in condotta". Questo timore di ‘sgretolamento’ del controllo sull’educazione ha reso molto gradito il ritorno dei voti numerici fin dalla classe prima elementare. I numeri sembrano un simbolo più comprensibile, per genitori e per allievi, delle descrizioni, dei profili narrativi, delle certificazioni argomentate. I numeri sono molto chiari, coi numeri si misurano tutti i fenomeni che contano: dal terremoto, al moto ondoso, alla temperatura corporea. Quindi perché non anche l’apprendimento?

    Evidentemente, se Ballando con le stelle usa tanti voti numerici da 1 a 10, se sul la Gazzetta dello Sport il lunedì mattina tutte le prestazioni dei calciatori sono valutate con voti numerici da 1 a 10, facciamo fatica noi pedagogisti disarmati a promuovere un’attenzione un po’ più approfondita sul senso della valutazione formativa. Quella valutazione – come affermano le Indicazioni del 2012 - che precede l’insegnamento, che riconosce gli allievi e li accompagna, che vuole migliorare gli apprendimenti, che non ha la preoccupazione di sanzionare o di interrompere la relazione educativa. Ma questo è molto difficile di fronte a un’opinione pubblica intimorita e disorientata.

    Oltre la banalità dell’andare a scuola

    Occorre riscoprire il gusto di andare a scuola. "Perché al mattino mi sveglio, mi alzo e vado a scuola?" Anche gli insegnanti si interrogano sul senso dell’andare a scuola, su cosa potrà avvenire all’interno di quelle aule, con le molte difficoltà, ambientali, di risorse, di strutture. Noi vorremmo che la scuola fosse l’ambiente più bello di una comunità, di un quartiere, di una città, mentre a volte è l’ambiente meno rinnovato nella sua sicurezza, nella sua luminosità, nella sua dotazione strutturale. Il ben-essere fisico e psicologico rappresenta la condizione minima per vivere l’esperienza scolastica con gusto, con curiosità, con la voglia di crescere. Altrimenti resterà un rito ‘banale’ da celebrare stancamente tutti i giorni all’interno delle aule, mentre vogliamo che la scuola sia l’emblema della società futura, per il clima di coesione sociale e di rispetto reciproco, di tolleranza, ma anche di sviluppo e di promozione di talenti e di creatività.

    L’incidenza del fattore ‘T’: come Territorio

    All’inaugurazione dell’anno scolastico, in una cittadina della Toscana, il sindaco si è rivolto ai 200 insegnanti del suo paese, dicendo: "Cari insegnanti, aiutatemi a diventare un territorio creativo". Questa frase mi ha colpito, perché sembrava quasi spiazzare la scuola, che per mestiere dovrebbe presidiare la conoscenza, la cultura, la creatività. Era emblematico che fosse un sindaco a ricordare questa funzione, legata all’innovazione, alla speranza per il futuro, alla voglia di affrontare le incertezza con un approccio nuovo. È possibile fare questo? Ce la faremo?

    I dati che abbiamo a disposizione non sono molto incoraggianti. Parlano le ricerche dell’OCSE-Pisa, i dati dell’Invalsi, i divari tra Nord e Sud, tra scuola e scuola, tra classe e classe. È aumentata la quota di ragazzi di 15 anni che non sono in grado di comprendere un testo minimamente articolato, argomentativo, pragmatico etc. Quindi esiste circa un 25-30% di allievi che a 15 anni sembra dimostrare una sorta di analfabetismo molto persistente; sono ragazzi out, non in grado di affrontare con autonomia e libertà le scelte future. Come possiamo intervenire di fronte a questo? Gli studiosi in fondo attribuiscono, semplificando, il 50% delle differenze nei risultati scolastici a una sorta di fattore ‘T’ (territorio): cosa c’è attorno alla scuola? Che tipo di comunità? Che tipo di relazioni? Che tipo di legami? Che tipo di fiducia?

    Sembra cioè che la dotazione, come dicono alcuni studiosi, di capitale sociale (es.: tasso di partecipazione civica, lettura dei quotidiani, numero di donatori di sangue, diffusione della pratica sportiva non competitiva…) sia correlata quasi in maniera diretta con l’andar bene a scuola dei ragazzi di quel territorio. Allora, un primo obiettivo è quello di ricostruire una relazione positiva con la propria comunità, fatta di scambi, di dialogo, di posizionamento sociale, a partire dal rapporto con le prime piccole comunità, quelle dei genitori.

    Nasce così il sistema formativo integrato, perché i saperi oggi sono sempre più diffusi nelle strutture produttive, economiche, associative, culturali di un territorio. L’ente locale deve saper fare una buona regia, mettere in contatto, costruire relazioni, investire sulla dimensione cognitiva del territorio. Se vale il 50%, questo valore non ce lo troviamo già dato, lo possiamo far evolvere, interpretando l’autonomia delle scuole non come competizione, ma come rete culturale e formativa di un territorio, per aspirare a essere un potere forte di fronte agli altri poteri forti (l’economia, i mass-media, i social, il senso comune).

    Il fattore ‘S’: cosa succede a Scuola?

    C’è un altro 50% che chiamiamo fattore ‘S’: il fattore ‘effetto scuola’. Chi incontra quel ragazzo in classe? Chi c’è in quell’aula? Chi sono gli insegnanti che operano in quella scuola? Sono personaggi un po’ anonimi o rappresentano una comunità professionale con dei valori? Per i docenti, riscoprire il senso di una buona organizzazione è importante, per sentirsi ben organizzati, con un buon clima comunicativo, in un ambiente stimolante per la professionalità. Non bastano le tecnicalità. Una riforma deve trasformarsi in una ‘ballata popolare’, per far scaturire imprese di cui andare orgogliosi, con uno spazio generativo di rielaborazione, di narrazione, di benessere. Quindi il fattore S è da esplorare non solo in una dimensione pedagogica, ma soprattutto come fattore umano. Non è facile. Agli insegnanti oggi viene chiesto un sovrappiù di impegno esistenziale, quasi a scapito dell’organizzazione tecnica dell’ambiente di apprendimento. Un bravo insegnante deve saper tenere in equilibrio la prospettiva della cura educativa e il ripensamento dell’organizzazione, delle modalità di comunicazione e di gestione della didattica.

    Davanti o a fianco della cattedra?

    Proviamo a immaginare una classe del futuro. Forse la cattedra potrebbe stare al centro (in mezzo all’aula), ma non di fronte (magari con la predella) o a lato (ininfluente). In classe c’è ancora un maestro che non rinuncia a una funzione di leadership educativa, autorevole, sicura, ma svolta insieme agli allievi. I banchi sono attorno alla cattedra e sono postazioni collaborative; all’interno dell’aula ci sono anche tecnologie da cui attingere informazioni, conoscenze, saperi, che magari è difficile prelevare dai libri di testo. L’accesso al sapere avviene con modalità differenziate e personali. "Ma c’è ancora l’ora di lezione?" "Dura 45 minuti e ogni 45 minuti c’è un quarto d’ora di intervallo". Come in Finlandia. La scuola più efficiente d’Europa si permette un quarto d’ora di intervallo per ogni ora di lezione, in cui ben 30 minuti sono dedicati al lavoro (autonomo e guidato) degli allievi.

    Forse la possiamo pensare come una didattica orientata alle competenze (è il grande tormentone che ci accompagna in questi anni). Magari le prove di apprendimento predisposte dagli organismi internazionali le daranno pure ragione. Infatti non valutano porzioni di contenuti legati a ciò che è stato insegnato nei mesi precedenti, perché vogliono piuttosto sondare come un allievo sa mettere a frutto la propria biografia scolastica, cioè come dai 3 ai 15 anni è stato alimentato l’atteggiamento di ricerca, il metodo scientifico, l’attitudine al pensiero critico. Questo è ciò che spesso manca nelle nostre classi.

    Testimonianze e immagini di insegnanti

    In educazione è importante il valore della testimonianza. Rimando a un bel film francese di alcuni anni fa, Essere e Avere, che parla di un insegnante francese, cinquantacinquenne, il maestro Lopez, figlio di immigrati, che ha investito nell’istruzione della Repubblica come senso della sua crescita personale e dell’emancipazione dei ragazzi a lui affidati. Quel film ricrea l’atmosfera delle piccole cose di scuola (la lavagna, i quaderni, i banchi, i pennarelli…) che la società ‘esterna’ non sa più apprezzare, ma che richiamano grandi valori.

    A un certo punto, in una sequenza, il maestro Lopez comincia a dettare un brano, pratica molto diffusa nella scuola francese. Sembra vacillare, quasi pensando: "Ma quanti dettati avrò fatto nella mia vita?. I ragazzi lo aiutano. Fanno i conti… 6.000 dettati. Ho vissuto per fare 6.000 dettati?". Ne è valsa la pena? Penso di sì. Dietro quel gesto, quella cura sapiente (io sono stato maestro elementare), ci sono la capacità di catturare l’attenzione degli alunni, di aiutarli a organizzare le parole, a rendere meno pigro il pensiero, a vedere la realtà meno opaca.

    Un eroe d’altri tempi? Forse no, perché dietro quel dettato c’è una relazione di aiuto, un impegno strutturante, la responsabilità educativa dell’adulto. Senza rinunciare alla propria funzione. Anche il maestro Lopez a un certo punto si fa chiamare Signor Maestro dal bambinetto più impertinente, ma in altri momenti ascolta i piccoli e grandi drammi degli allievi, li accompagna allegramente in una passeggiata, a volte li conduce per mano, anche solo per insegnare il ricciolo della lettera ‘O’: quindi svolge funzioni di coaching, tutoring, mentoring… Un insegnante deve giostrare su molte tonalità la propria capacità di mediazione e di comunicazione, deve sperimentare e deve saper utilizzare un repertorio molto vasto di sfumature didattiche.

    L’arte della cortesia del dialogo (Bruner)

    e della connessione (Gardner)

    È Bruner a indicarci la strada. Del grande pedagogista mi piace ricordare una battuta che ci ha consegnato qualche anno fa in un incontro con tanti insegnanti: "Da un insegnante mi aspetto una sola competenza, l’arte della cortesia del dialogo". Bella questa frase perché non è buonista, anche se può sembrarlo.

    Arte significa che il lavoro dell’insegnante si reinventa, si ricostruisce, con creatività ed espressività.

    Cortesia si può tradurre con cura, ascolto, accompagnamento, non con caramellosa accondiscendenza.

    Dialogo è la scintilla bruneriana della conoscenza: stimolare la curiosità, la voglia di capire, le domande. Nella classe devono circolare tante domande, tanti problemi. La cultura dei grandi che dialoga con la vita dei ragazzi: questa è la nostra grande sfida.

    Da Gardner, scopritore della pluralità dell’intelligenza, abbiamo appreso il gusto dell’incontro di questa con le discipline, con la pluralità dei saperi. Ma a tutti i livelli, dalla scuola primaria alla scuola superiore, l’esigenza della connessione dei saperi è forte almeno quanto quella della specializzazione.

    Cinque menti di fronte al futuro

    Sempre Gardner, nel testo "Five minds in front of future", usa proprio il termine ‘mente’, una bella intuizione per un approccio quasi olistico che gli insegnanti di un team docente dovrebbero mettere in atto. Cosa li ispira? Cosa li unisce? Gardner suggerisce la metafora delle 5 menti.

    Una mente disciplinata ha a che fare con i saperi, con le discipline, con l’organizzazione della conoscenza, tenendo a freno l’enciclopedismo, per coltivare la possibilità di andare a fondo, di appassionarsi a un segmento, a un settore che garantisca al ragazzo senso di fiducia.

    Una mente sintetica: oggi le informazioni sono smisurate. Come facciamo, su Google, a discriminare le fonti, a fare una sintesi, se non abbiamo la capacità di arrivare a scegliere, a costruire quadri fondamentali, a selezionare in maniera originale etc.?

    Una mente creativa: dato che ci sono scenari inediti, domande insolite, è necessaria la capacità di coltivare nuove idee e risposte inattese a domande non scontate.

    Una mente rispettosa: per rispettare le differenze, i punti di vista, per capire gli altri, collaborare.

    Una mente etica: per cercare di spingersi oltre gli interessi personali e preoccuparsi un po’ di più del bene comune.

    Un testo per fondare una solida professionalità docente

    Per tutti i motivi che abbiamo esposto, la conoscenza degli aspetti fondamentali della psicologia dell’educazione e dell’età evolutiva costituisce una dimensione fondativa del profilo professionale degli insegnanti. In tutti i gradi del nostro sistema d’istruzione, la capacità del docente di stabilire molteplici forme di dialogo, di apertura educativa, di coinvolgimento attivo dell’alunno nei processi di insegnamento-apprendimento, rappresenta un tratto fondamentale della professione. Di questi aspetti la psicologia si è occupata sin dalle origini nell’Ottocento dando svariate risposte, che sono oggetto di approfondimento nel volume curato da Luciano Rondanini.

    Però l’approccio allo studio delle principali prospettive psicologiche, per quanto concerne l’ambito scolastico, deve uscire da un’impostazione prettamente teorica.

    Certo, conoscere il pensiero di Piaget, Vygostskij, Bruner, Gardner e di altri esponenti della cultura psico-pedagogica è di importanza capitale. Ma i docenti hanno bisogno di collegare gli aspetti costitutivi dei vari orientamenti culturali alle possibili ricadute educativo-didattiche che i diversi autori possono esercitare sulle concrete pratiche di lavoro.

    Dalle teorie psicologiche alle pratiche didattiche

    Per rispondere a queste esigenze, il volume è articolato in due parti:

    nella prima vengono illustrate in modo sintetico le principali scuole di pensiero della psicologia contemporanea dal Novecento a oggi. La conoscenza delle differenti prospettive esaminate in questa sezione del volume contribuisce ad arricchire la dimensione culturale degli insegnanti e, più in generale, di tutti coloro che si occupano di educazione. La presentazione dei diversi orientamenti risulta di

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