Senza Posto
Di Simone Dolci
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Anteprima del libro
Senza Posto - Simone Dolci
papà
Capitolo 1
2 Febbraio
Odio alzarmi la mattina.
Maledizione, non che sia pigro, che mi costi fatica, non che sia il tipo che desidera starsene tutto il giorno a letto, ma lo odio, o almeno era così in quel periodo. Era deprimente dover calpestare lo stesso pavimento della notte precedente e del giorno precedente, la sentenza che esistevo, . Quel giorno più degli altri odiavo dover buttare giù dal letto la mia carcassa, era il mio compleanno. Le persone non odiano il proprio compleanno, a meno che non ricordi loro qualche brutta esperienza o quando si accorgono che il meglio della propria esistenza molto probabilmente se ne è andata, ma non era il mio caso, in teoria, avevo tutta la vita davanti (purtroppo) e non avevo alcun tipo di trauma legato a quella giornata. È solo uno stupido giorno in cui festeggi la tua sopravvivenza per altri 365 giorni. È un giorno come lo è il Natale, per esempio, che è come se rappresentasse una promessa non mantenuta, insomma, in quel giorno ti rendi conto che hai buttato via un altro calendario, che ti aspettavi di essere un altro, di aver fatto qualcosa di memorabile, invece eri sempre il solito stronzo. Scesi dal letto evitando la ragazza che mi ero portato a letto la sera prima, Jane, Joanne, neanche ricordavo il nome, di quello schifo di donna, un bel corpo per carità, ma uno schifo di anima, sudicia, come il posto in cui l'avevo incontrata, mi disgustò il suo alito alcolico, cosa aveva bevuto Napalm? Al bagno,lì davanti allo specchio, in uno stato comatoso, cercavo di tirare fuori il dentifricio da quello schifoso tubetto senza tappo. Quel grande stronzo del mio coinquilino non lo rimetteva mai quel tappo e gli avevo chiesto di usare due tubetti differenti, ma non gliene importava niente, per non parlare delle ore che ci passava dentro, quel maledetto segaiolo, e poi il disordine e la puzza che lasciava. Se non si fosse dimostrato in diverse occasioni un buon amico, me ne sarei andato e avrei lasciato la convivenza con lui ad un altro poveretto. Non mi interessava più di tanto, ma quella mattina volevo tirarglielo dietro quel maledetto dentifrcio, ma non potevo entrare in camera sua, sul pomello, c’era la classica cravatta. Che tristezza questo tipo di abitudini, che alla fine avevo anch’io, ero un fottuto ipocrita. Mi dovevo preparare in fretta e sbrigarmi ad arrivare in facoltà per sostenere un esame proprio il giorno del mio stramaledettissimo compleanno, ed ero in ritardo, non mi feci neanche la doccia, mi vestii e andai. Evitai di dire agli altri della data della prova, perché non volevo sentirmi dire in bocca al lupo, buona fortuna ecc., lo odio, ogni volta che qualcuno mi augura il meglio va sempre tutto male. Lascio un post-it sul comodino affianco al letto ‘grazie della serata meravigliosa, ti lascio dieci dollari per il taxi, Au Revoir’. Che schifo di persona stavo diventando, anzi che ero. Prendo Caffè, sigaretta e Prozac che da tempo usavo come se fossero caramelle, e esco di casa. In modo automatico tutte le mattine percorrevo quella decina di minuti tra l’appartamento di Grove street e la facoltà, le strade erano sempre e irrimediabilmente piene di traffico, io andavo a piedi, sempre, con tutte le condizioni meteorologiche, anche quando diluviava. Non portavo neanche l’ombrello. Ho sempre avuto un grande amore per la pioggia, ti accompagna, quella meravigliosa sensazione dei vestiti bagnati e poi quando cade, non c’è niente di più puro. La pioggia è come se lavasse per qualche minuto il catrame dentro di me. Facevo quei quattro passi per arrivare in facoltà, in quei pochi momenti potevo rilassarmi, sentire me stesso, mettevo le cuffie, la musica per me era come la pioggia, una compagna. Il più delle volte la mattina ascoltavo Girl from the North country, quella voce di Dylan lontana che canta della ragazza che ha amato, questa meravigliosa Lei delle terre di frontiera e poi apriva Cash, O Cash il graffio della tua voce per me è come un cerotto, vecchio drogato. Dopo quella canzone ne potevo ascoltare solo altre due prima di arrivare al college, queste erano quasi sempre Blues Run the game, di Jackson C. Frank, povero stronzo che dalla vita ha avuto solo fiamme, letteralmente. La terza era sempre un pezzo del ragazzo cresciuto sull’altra sponda dell’Hudson, Springsteen. Canta le strade quel tronfio istrione, le strade, quante ne avrei volute percorrere, quanto avrei voluto accanto a me una donna dinamica con un motore 3000 di cilindrata al posto del cuore. Così non è purtroppo, io sono io, il corpo il mio limite, la mia esistenza è la gabbia stessa. Mentre ascoltavo la musica e percorrevo il cuore del Village mi lasciavo andare e potevo pensare in pace. Pensavo a quella sottospecie di romanzo che stavo scrivendo. Parlava di un cantautore folk, e l’amore per una ragazza troppo ricca per lui. Volevo portarlo a termine, ma io non portavo mai niente a termine, sempre tutto a metà. Quello che stavo scrivendo faceva abbastanza schifo comunque.In quei momenti liberi pensavo troppo, su troppe cose. Durante quei mesi mi sentivo distaccato dal mondo, stanco, l’ectoplasma di me stesso, le giornate scorrevano ed io ero solo uno spettatore, bloccato in un castello di cristallo, era come se la mia anima stesse vivendo un inverno nucleare. Era parecchio tempo che mi sentivo così, forse mi sono sempre sentito così. Non capivo perché il mio cuore dovesse continuare a contrarsi e a spingere il sangue nelle arterie, perché i miei occhi si dovessero aprire al mattino, perché maledizione io dovessi essere io, se ci fosse qualche scopo nella mia fottuta esistenza. Cazzo, avevo scelto il college per essere qualcuno, avevo scelto lettere, anche contro il parere dei più, per il mio amore verso la letteratura e il sogno di scrivere qualcosa di mio in futuro, ma queste cose in quel momento mi sembravano solo idee di un altro me stesso, come se il Jude che aveva appena finito il liceo ora fosse scomparso. I suoi desideri, la sua essenza caduta in una palude melmosa. Non credevo più in quello che facevo, anche se lo facevo e fino a qualche tempo fa, anche con discreti risultati, ma sentivo che quella tensione per andare avanti si era bloccata. Io ero bloccato. Io ero nelle sabbie mobili e più mi muovevo o pensavo e andavo sempre più a fondo. Ero nauseato dall’ambiente universitario, da quelle facce di culo, classici figli di papà, che dovevo sopportare ogni mattina, la loro spocchia, odiavo vederli e capire che loro si trovavano nel posto che desideravano, loro erano quello che volevano essere oppure non ci pensavano proprio, vivevano, così come si butta giù un Whiskey secco, io invece ero in un limbo senza uscita. Odiavo sentirli parlare i miei colleghi universitari. I loro discorsi erano annebbiati da uno sciatto egocentrismo. Parlavano solo di stessi, esami e cazzate. Quante cazzate dovevo sentire, ne avevo sentite talmente tante che ero diventato bravo a dirle anch’io. Il vuoto, nei loro discorsi, solo il vuoto, le persone che avevo intorno non facevano altro che farmi pensare di più all’inutilità della vita, soprattutto della mia di vita.Perché io non potevo essere tranquillo come loro. Perché non ero in grado di accontentarmi di andare in qualche sudicio locale la sera, rimorchiarmi una ragazza o divertirsi semplicemente, eppure lo facevo, ma mi lasciava sempre più vuoto. Probabilmente io ero diverso, non mi bastava mai niente e desideravo sempre qualcos’altro, fondamentalmente un idiota che no sa quel che cazzo vuole. Forse volevo solo sentirmi di essere diverso, come uno stupido tentativo di giustificare le sensazioni o il mio essere inadatto a una normale e soddisfacente vita sociale, esprimendo un latente comportamento da intellettuale incompreso e sofferente. So solo che la mia mente e la mia sicurezza erano appannate e anche miei risultati accademici avevano cominciato a far cagare. Ma non mi interessava come sarebbe andato l’esame, o i miei voti, non mi interessava niente di niente di qualsiasi cosa, chiunque poteva farmi quello che voleva non sarebbe uscita una goccia di sangue da una coltellata, ero a due dimensioni, piatto. Decisi così, per provare ad uscire da questo pantano ad andare in psicoterapia. Per