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Il treno della Barranca e altri binari
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E-book227 pagine3 ore

Il treno della Barranca e altri binari

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Info su questo ebook

Racconti su strade ferrate, le più singolari al mondo.
Viaggi insoliti su binari paralleli, uniti solo nell’orizzonte ultimo della prospettiva.
Culture e radici inedite ad ogni immaginario.
Dal Nord Africa all’Asia, fino all’America Latina: nella consapevolezza di raggiungere la meta del viaggio, apprezzando e valorizzando la strada.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2014
ISBN9788868270872
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    Anteprima del libro

    Il treno della Barranca e altri binari - Vittoria Sangiorgio

    cuore

    Premessa

    Letteratura e viaggio, due grandi passioni che nella vita di molti, così come nella mia, si intersecano intrecciandosi tra loro e dove spesso l’una non può prescindere dall’altra. Un intreccio di mondi che disegna mappe personali, in una geografia affettiva di luoghi e di storie che affascinano o respingono.

    Ogni viaggio che intraprendo è solitamente preceduto dalla lettura di carte e guide per una minima documentazione sui luoghi da esplorare. Durante il viaggio, però, abbandono quasi sempre le carte e mi affido all’istinto; navigo a vista accompagnata dalle pagine degli autori locali, contemporanei o del passato, che trovano sempre posto in valigia, a discapito di altri oggetti che la logica riterrebbe più utile portare con sé. Dopo il ritorno a casa il viaggio prosegue attraverso la lettura di chi ha visto quelle terre con altri occhi. Una rete di informazioni storiche, culturali, letterarie e a volte frivole per indovinare l’essenza del Paese, l’anima e la saggezza della sua gente.

    La scrittura, invece, scaturisce nel momento esatto in cui prendo la valigia e parto. Annoto ciò che osservo dal finestrino di un treno, rubo i pettegolezzi di due amiche durante la sosta in un’ombrosa casa del tè, catturo le voci dei pendolari di una stazione dove un autobus non arriva mai o seduta su una panchina del parco, tra famiglie in cerca di refrigerio in un pomeriggio di atroce caldo asiatico. Ascolto l’eco delle loro parole pronunciate nelle sonorità delle lingue del mondo per coglierne il temperamento. Anche le parole hanno una geografia.

    Mi diverto poi a raccogliere oggetti apparentemente insignificanti, come etichette di birra o di acqua minerale, biglietti d’autobus o di ingresso a un museo. Ma soprattutto mi appunto gli incontri con le persone: le loro voci e le loro storie mi permettono di cogliere, pur se in maniera del tutto estemporanea e soggettiva, una briciola dell’anima di un popolo e uno scorcio umano del Paese che mi ospita. Il viaggio prende allora la forma di racconto e continua nel tempo, intrecciandosi indissolubilmente con la trama della vita.

    Mi sposto solitamente con i mezzi pubblici là dove è possibile farlo. Una scelta che, a detta di molti, non si rivela sempre intelligente. A volte, forse, questo è anche vero, di sicuro non è quasi mai la scelta più comoda. D’altro canto spostarsi con traghetti, autobus, dolmuş o marshrutka permette di osservare da un punto di vista privilegiato, e con la necessaria lentezza, lo stile di vita della gente e di condividerne una parte di storia quotidiana. Nel corso degli anni ho maturato l’idea che non si viaggia unicamente per arrivare in un luogo, la meta del viaggio è la strada stessa, che di sicuro ci porta sempre da qualche parte, a volte proprio nel luogo giusto.

    Fra i tanti mezzi di trasporto a disposizione, ne esiste uno che ancora oggi continua a rivestire un ruolo centrale per molti viaggiatori e che, per eccellenza, entra a far parte di una vasta fetta di letteratura di viaggio, classica e non: il treno. Dai capolavori come Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie al Treno d’Istanbul di Graham Greene, da Siberiana di Luciana Castellina a L’Italia in seconda classe o Trans Europa Express di Paolo Rumiz, e poi George Simenon, Dacia Maraini, Mauro Buffa, Andrea de Carlo, Luis Sepúlveda e chissà quanti altri ancora, sono molti i viaggiatori e gli scrittori che hanno vissuto esperienze uniche in qualche stazione sperduta, tra lingue che non si comprendono, in terre sconosciute e climi poco favorevoli.

    Questo libro racconta di cinque viaggi che ho effettuato nell’ultimo decennio in ferrovia, alcuni su treni non del tutto convenzionali, altri su treni di ogni giorno, comunque sempre treni poco frequentati dalle rotte del turismo italiano.

    Percorrendo lentamente alcune delle strade ferrate tra le più singolari al mondo e vivendo il gusto antico della scoperta graduale della realtà, racconto di persone, luoghi, storie piacevoli o drammi legati ai territori che ho attraversato. Dal Nord Africa, all’Asia, all’America latina, spesso l’incontro con l’altro mi ha rivelato da un punto di vista inedito gli aspetti meno scontati di un Paese, delle culture in cui affonda le radici, della gente che lo abita col suo carico di disperazioni e di speranze.

    Non mi stancherò mai, a questo proposito, di citare le parole del grande Ryszard Kapuściński, reporter e viaggiatore di straordinaria sensibilità e intelligenza, i cui insegnamenti continuano a guidarmi, viaggio dopo viaggio, sulle strade del mondo:

    Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un evento di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa. Tanto per cominciare, siamo responsabili della strada che percorriamo. Spesso sappiamo perfettamente che la percorreremo quell’unica volta, che non ci torneremo mai più, e quindi che non abbiamo il diritto di trascurarne o perderne il minimo dettaglio. Dettagli di cui renderemo conto, su cui scriveremo relazioni o racconti e che riepilogheremo nel nostro esame di coscienza. Per questo viaggiamo concentrati e con l’orecchio sempre in ascolto. La strada che si percorre è importante, poiché ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. È per questo che ci siamo messi in viaggio. Quale altro motivo avrebbe potuto indurci ad affrontare fatiche, rischi, scomodità e pericoli?

    Vittoria Sangiorgio

    El Chepe

    (Ferrocarril Chihuahua al Pacifico)

    Messico 2011

    www.amejicoconaviamex.es

    Se dice que hace mucho tiempo, el cuervo hizo las sierras la tierra era plana. No había sierra para que se fuera el agua.

    Por eso, me cuentan, el cuervo caminó por la tierra e hizo zanjas para que corriera el agua. Por eso ahora hay muchas sierras. En algunos lados son muy profundas. Hasta hay cañadas angostas abajo, en las sierra.

    Leyenda Rarámuri

    Burgess, Don (compilador) 1895:149

    La prima cosa che mi colpì appena usciti da quel minuscolo aeroporto sul Pacifico fu il caldo umido che bloccava il respiro. L’aria pesante di Los Mochis quasi mi paralizzò. Rimasi immobile per alcuni minuti, incapace di prendere una qualsiasi decisione. I tassisti si fecero intorno in pochi secondi, insistendo nel chiedere la nostra destinazione e togliendoci anche quel poco d’aria che riuscivamo a malapena a percepire.

    Salimmo su una di quelle auto in attesa dei clienti lì fuori e percorremmo una strada che attraversava una vasta distesa bassa e sabbiosa, costellata da cactus a candelabro dai bracci alti, protesi nel cielo chiaro e carico di umidità. Eravamo diretti verso il centro città: un insieme di costruzioni basse e bianche, allineate lungo un reticolo di silenziose strade perpendicolari, pressoché deserte nell’ora della siesta.

    Alle nostre spalle lasciavamo la costa del Sinaloa con la baia di Topolobampo, il porto d’imbarco per il sud della Baja California, un paradiso per gli appassionati di pesca sportiva.

    Ci facemmo accompagnare dal taxista in un semplice hotel a due piani dove avremmo passato la notte prima di raggiungere in autobus la città di El Fuerte, da lì avremmo poi preso il treno per Chihuahua.

    Il vecchio condizionatore della camera produceva uno strano e continuo gorgoglio, ma in quel pomeriggio infernale fu comunque gradita la sua rumorosa quanto indispensabile presenza. Non aprimmo neppure le valigie, l’indolenza che ci aveva colti a causa di quell’afa disumana ci impediva di sprecare preziose energie in attività inutili.

    Una doccia fresca, un poco di riposo dopo l’interminabile viaggio dall’Europa durante il quale avevamo perso anche la coincidenza col volo interno, e subito fuori, alla ricerca di un posto non troppo distante per la cena. Il sopraggiungere della sera non aveva affatto reso l’aria più clemente. Svoltato l’angolo dell’ampia strada vedemmo un’insegna luminosa che prometteva cene luculliane. Entrammo nel salone del ristorante España, ampio e completamente vuoto. Non era certo invitante quella desolazione, ma la stanchezza ebbe la meglio, perciò ci sedemmo comunque e ascoltammo il cameriere proporci senza esitazione pasta ai gamberi con birra. Il bizzarro menù di quel sabato sera era dettato dalla coppia di sposi che stavano festeggiando le loro nozze al piano superiore. Pensammo che dopotutto ci sarebbe potuta andare decisamente peggio.

    Di sera il centro della città continuava a essere inanimato. L’illuminazione delle vie era scarsa, i numerosi empori ormai quasi tutti chiusi. Solo alcuni gruppi di ragazzotti chiassosi in larghi bermuda si attardavano davanti agli angusti e spartani fast food del centro; in mano reggevano gonfi sacchetti di plastica colmi di lattine di birra e vaschette di polistirolo che facevano presagire etiliche bisbocce notturne.

    La prospera e dinamica città costiera della regione di Sinaloa, centro agricolo e della pesca più grande del Nordovest messicano, si predisponeva al riposo notturno. Con molta probabilità la movida si sarebbe spostata in altri quartieri. Ma la cosa non ci riguardava, quella sera un letto più o meno comodo in una stanza sufficientemente fresca e senza il tormento delle zanzare era l’unico nostro miraggio. Tornammo immediatamente in albergo e sprofondammo in un lungo sonno letargico fino all’alba.

    ***

    Los Mochis, il cui nome significa luogo delle tartarughe terrestri, aveva da poco compiuto i suoi primi cent’anni. L’unico motivo che ci aveva portati in questo luogo al di fuori delle rotte più conosciute del turismo messicano era stata la più fantastica tra le ferrovie del Sudamerica: il Chepe. Una sorprendente opera d’ingegneria ferroviaria che collega l’oceano Pacifico alla città di Chihuahua, oltrepassando gli interminabili e profondi burroni della Sierra Madre Occidentale, attraverso gli impervi, e per questo a lungo inesplorati, territori degli indios tarahumara.

    L’opera ferroviaria fu pensata da Albert Kimsey Owen, un inguaribile ingegnere sognatore della Pennsylvania che amava progettare ferrovie irrealizzabili e non solo. Dopo una storia alquanto travagliata durata ben sessantatré anni, la rotta Chihuahua al Pacifico, considerata fin dall’inizio un’autentica pazzia, nel 1961 divenne una realtà che ancora oggi riesce a sopravvivere e a fronteggiare dignitosamente l’era degli spostamenti aerei.

    Owen, dopo una vita trascorsa a sognare collegamenti ferroviari e porti che mettessero in relazione città perfette, basate su principi di cooperazione tra operai, artigiani e intellettuali, escludendo ogni forma di proprietà privata, morì nel 1916 nel giardino della sua casa in seguito a un attacco cardiaco. Non vide mai realizzato il suo ambizioso sogno ferroviario, contrastato da innumerevoli difficoltà tecniche e dalla mancanza di fondi, che verrà inaugurato solo quarantacinque anni dopo la sua morte.

    ***

    Il baretto sotto l’hotel offriva pancake e frutta tropicale per colazione, accompagnati da succo d’acero e tè. Ci incamminammo quindi di buonora, bagaglio alla mano, verso la vicina stazione dei bus di Los Mochis in cerca di un mezzo diretto a El Fuerte, secondo punto di partenza del treno prima di affrontare i seicentosettantatré chilometri di sogno owaniano che separano la cittadina dalla capitale dello stato di Chihuahua.

    L’autobus di seconda classe sul quale salimmo era vecchio e malandato. Non c’era aria condizionata e durante la mattinata il caldo umido andò via via crescendo, così come il numero dei passeggeri che salivano a ogni punto del percorso. L’anziano autista, di tanto in tanto, azionava un ventilatore elettrico posto davanti a sé sul vetro anteriore, tenuto in piedi da non si sa quale strano artificio meccanico. Comunque fosse, funzionava. Un poco di quell’aria riusciva a raggiungere i primi sedili dove stavamo noi e a ritemprarci per qualche minuto, almeno fino a che altri passeggeri, per lo più anziani contadini, non chiedevano all’autista di spegnerlo perché quell’aria fresca li disturbava e li avrebbe fatti sicuramente ammalare. Ricominciava così il tormento del caldo torrido e appiccicaticcio, caratteristico di quella fertile pianura messicana ai margini del deserto del Sonora.

    Il vecchio bus, dopo due ore di viaggio tra spianate di campi coltivati e piccoli villaggi rurali, dove in quel giorno festivo erano in corso manifestazioni popolari per la pace, si arrestò nel caotico centro cittadino di El Fuerte, all’angolo con l’avenida Juarez. Un luogo cruciale nel cuore della città, con negozi e numerose bancarelle gastronomiche animate dal viavai della gente locale.

    Il caldo misto a polvere, quella polvere del Messico resa celebre da Pino Cacucci nei suoi affascinanti racconti messicani, ci investì con una certa violenza, lasciandoci lì sul marciapiede, immobili e un po’ inebetiti, per alcuni istanti. Ma percepimmo subito la sensazione che non fossero solo il caldo e la polvere a renderci così frastornati. Scendendo dall’autobus ci parve di esser stati catapultati d’improvviso in un centro rurale d’epoca coloniale, dentro un’animata e attiva cittadina commerciale del XVI secolo. Solamente i roboanti pick up che circolavano per le vie del centro e le sproporzionate insegne della coca-cola sopra le porte dei caffè ci richiamarono ben presto alla realtà.

    Le nostre aspettative da viaggiatori erano di arrivare in una pittoresca cittadina dal passato coloniale, come assicurava anche la nostra guida Lonely Planet, con un’attività turistica sviluppata, una bella e piacevole località coloniale come tante in Messico. Ma El Fuerte aveva qualcosa di diverso da tutte le altre città messicane che avevamo conosciuto fino ad allora. Vi si respirava un’atmosfera autenticamente coloniale: non c’era ombra di turista per le strade, neppure negli alberghi più caratteristici né nei ristoranti più rinomati, che parevano chiusi da tempo. Restavano aperti solo un vecchio albergo polveroso e cadente sulla via centrale e una piccola pensione frequentata da commercianti locali poco distante dal centro. Delle informazioni lette sulla guida, stampata un paio d’anni prima, nulla corrispondeva alla realtà nella quale stavamo faticosamente cercando di orientarci. L’anziano proprietario del vecchio hotel ci disse che oramai non avevamo molta scelta per il pernottamento in città. Sapeva che non ci saremmo fermati nel suo albergo abitato da una colonia di gatti spelacchiati che si aggiravano tra vecchie suppellettili sparse qua e là nel patio, così ci indicò un altro alloggio poco lontano da lì.

    Prima di andarcene l’uomo ci informò che negli ultimi tempi il turismo cittadino, piuttosto fiorente negli anni passati, era andato via via scemando fino a sparire del tutto, provocando di conseguenza la chiusura dei numerosi locali e delle attività commerciali che di questo turismo vivevano.

    Persino la casa di Don Alejandro de la Vega, padre del celebre cavaliere difensore dei poveri, conosciuto in tutto il mondo col nome di Zorro, aveva il portone serrato. Il famoso personaggio visse qui per i primi dieci anni della sua vita, fin quando, a causa della morte della madre, nel 1804 la sua famiglia si trasferì a Los Angeles. La casa era da tempo occupata da un ristorante e una posada dove la musica dei mariachi aveva accolto per anni, giorno dopo giorno, comitive di turisti desiderosi di alloggiare nella residenza del leggendario El Zorro. Le comitive di turisti erano ora sparite e la celebre posada aveva definitivamente chiuso i battenti.

    La causa di tutto questo abbandono era facilmente imputabile all’inasprimento della lotta senza pari che da anni lo stato messicano, guidato da Felipe Calderòn, aveva deciso di intraprendere contro le bande del narcotraffico.

    Il crimine organizzato e la delinquenza nell’ultimo decennio si erano fatti incontrollabili, e lo testimoniavano anche le ultime notizie che passavano in quei giorni alla televisione o che leggevamo sui giornali. I media davano quotidianamente conto di efferati assassinii e tremende sparatorie nella regione in cui eravamo da poco atterrati. Un’escalation di omicidi, anche interni ai vari cartelli, che si contendevano il controllo dei traffici di stupefacenti e dietro ai quali spesso si nascondevano personaggi potenti.

    Proprio il cartello di Sinaloa, regione che stavamo attraversando, chiamato anche cartello del Pacifico, con a capo Ignacio Coronel Villareal e Joaquin Guzman Lorea, detto El Chapo, esercitava un forte controllo sul mercato delle droghe in ben diciassette stati messicani, compiendo fatti criminali di una violenza inaudita.

    Scoprimmo sul web che l’ultima novità di quei mesi estivi fu l’apertura in Messico di un singolare sito dall’inequivocabile nome: Wikinarcos. Praticamente un sito dedicato ai crimini legati al narcotraffico messicano, dove chiunque, dopo essersi registrato, poteva render noto a tutti un fatto di cronaca nera: l’omicidio della giornata che li aveva visti testimoni, piuttosto che la segnalazione di avvenimenti legati alla criminalità organizzata, come la scoperta di fosse comuni e altri reati. Il tutto con la sicurezza garantita dall’anonimato.

    Prima di partire per questa zona così calda del Messico avevamo seguito con molto interesse in Italia le vicende legate ai cartelli dei narcos. Ingenuamente pensavamo che le zone più pericolose fossero solo quelle limitrofe alla linea di confine con gli Stati Uniti. In Italia le informazioni reperibili attorno al fenomeno risultavano piuttosto rare e superficiali, si citava esclusivamente Ciudad Juarez e quasi mai veniva puntato l’accento sulle problematiche riguardanti l’intera regione di Sinaloa.

    Arrivati a El Fuerte, però, la tensione e gli effetti di questa guerra aperta tra lo stato e i narcos fu subito tangibile e apparve ben presto ai nostri occhi in tutta la sua drammatica realtà: un paese in preda alla violenza che viveva in pratica sotto le regole della criminalità organizzata.

    La paura traspariva dai volti degli abitanti che guardavano il forestiero con diffidenza, come un potenziale nemico. E questo accadeva in una città aperta al turismo e accogliente fino a pochi anni prima, dove ora la gente si trovava a vivere senza alcuna sicurezza. Molti sindaci di cittadine del Nord erano stati ammazzati e l’esercito interveniva sempre più spesso militarizzando di fatto la regione nel tentativo di contrastare la violenza del crimine

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