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Nelle terre del Condor e del Colibrì
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E-book282 pagine4 ore

Nelle terre del Condor e del Colibrì

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Info su questo ebook

Due trentenni lasciano tutto per partire alla volta del Sud e Centro America. Cercando un confronto diretto con le popolazioni indigene, portano avanti un'indagine dal gusto antropologico ma soprattutto spirituale, che offre profondi spunti di riflessione sullo stile di vita occidentale. Atterrano in Bolivia, dove la musica tradizionale e il racconto di un artista aymara li introduce alla profonda connessione con la Pacha Mama, la Madre Terra. In Perù riescono a farsi ricevere da uno degli sciamani più famosi del paese, che userà le foglie di coca per predirgli il futuro. Poi raggiungono i Q'Ero, diretti discendenti degli Inca e curanderos che ancora oggi vivono a 5.000 metri sulle Ande. Non mancano gli incontri con sciamani che li iniziano all'uso delle piante sacre della foresta pluviale, come la potente Ayahuasca o "liana dei morti", né gli incidenti di percorso con i ciarlatani. In Ecuador sono spettatori involontari dello scoppio di una crisi economica e politica che vede le popolazioni indigene mettere a ferro e fuoco il paese. Qui incontrano, tra gli altri, una coppia di sciamani esperti nell'utilizzo del cactus San Pedro e del kambo, sostanza curativa estratta da una rana amazzonica. L'ultima tappa del viaggio è il Messico, in cui, tra vecchi tagliatori di agavi, guaritrici, sacerdoti maya e temzacaleros, collezionano un'altra serie di incontri straordinari.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2022
ISBN9791220385541
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    Anteprima del libro

    Nelle terre del Condor e del Colibrì - A. Maiolo

    Indice

    Bolivia

    Bisogna pur fare i conti con il proprio passato

    Siamo noi che dovremmo riconoscere lo stato, non viceversa

    Il mondo aymara a bordo di barche di totora

    Lasceresti mai la foresta per la città?

    Perù

    La testa di Tupac Amaru II

    Volete che vi legga le foglie?

    Senza ruota né ferro

    La liana dei morti

    Siamo gli ultimi discendenti del popolo Inca

    Come se foste Yacumama e Apu Yuraq

    Curanderos con l’iPhone6

    Verso l’Equatore

    Ecuador

    La valle della longevità

    Iwia, il Sole e la Luna

    Cemento e mestizos

    Sempre grati all'achiote

    Messico

    Dove l'aquila mangia il serpente

    Il deserto degli huichol

    Sono un povero tagliatore, ma capo del deserto

    Dio, uomo o serpente?

    Los niños santos

    Mezcal e huipil

    La morte e la rinascita nel temazcal

    Mujeres de medicina

    I Maya Tzotzil e il cattolicesimo tradizionale

    Una sola è la radice degli alberi e delle stelle

    A. Maiolo – F. Ferrauto

    Nelle terre del Condor

    e del Colibrì

    Titolo | Nelle terre del Condor e del Colibrì

    Autore | A. Maiolo - F. Ferrauto

    ISBN | 979-12-20385-54-1

    © 2021 - Tutti i diritti riservati all’Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

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    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

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    A Siku Mamami

    Bolivia

    Bisogna pur fare i conti con il proprio passato

    [Potolo e Potosì]

    Eravamo in viaggio da poco meno di un mese, percorrendo la Bolivia – il cuore del Sud America – da sud a nord. Prima di partire avevamo provato a disegnare una sorta di percorso ideale su una grande mappa di carta, un insieme di puntini rossi e neri sparsi in lungo e in largo su un territorio allora sconosciuto. Ma già in quelle poche settimane ci era apparso chiaro che il nostro itinerario sarebbe stato tutt’altro che lineare e ben diverso da come lo avevamo immaginato. Molte città ci avevano respinto, riempendoci occhi e polmoni con i loro paesaggi artificiali fatti di cemento, smog e clacson assordanti, gli stessi stimoli da cui avevamo deciso di separarci almeno per un po'. La voglia di assaggiare la Bolivia nuda e cruda, campestre, arida o rigogliosa che fosse cresceva sempre di più, così decidemmo di spingerci verso Potolo, un piccolo, minuscolo paesino nell’entroterra.

    Potolo, totalmente al di fuori da qualsiasi rotta turistica, si trova a oltre 3.000 metri sul livello del mare. Il centro abitato è attraversato da un’unica strada non del tutto asfaltata e costeggiata da un piccolo canale d’acqua che scende a irrigare i campi. In giro per il villaggio ci sono più bestie che persone. Galline, asini, vacche e maiali vengono lasciati pascolare liberamente. Le case sono costruite con mattoni di fango e tetti in paglia o lamiera, quando va bene, e le donne, coi capelli raccolti in trecce, indossano le pesanti gonne a falde che, per quanto ormai tipiche nell’immaginario occidentale, non fanno parte dei costumi tradizionali delle popolazioni indigene dell’America Latina. Gli abiti che noi chiamiamo tradizionali sono l’ennesimo retaggio del colonialismo e vennero imposti durante la dominazione spagnola, con il regno di Carlo III di Spagna, copiando quelli indossati dalle lavoratrici dell’Estramadura, oggi comunità autonoma nel sud-ovest della Spagna. Di uomini ne incontrammo pochi, per lo più anziani che gironzolavano senza una meta apparente per il villaggio mentre figli e nipoti erano impegnati a spaccarsi la schiena e le mani nei campi.

    Nella piazzetta centrale le poche case basse e i negozietti di dolciumi con le imposte serrate lasciavano la vista libera di spaziare. Il paesino è circondato da montagne colorate che a valle, al limite del confine con le ultime abitazioni, sfumano in grandi dune di terra rossissima e dura tra cui si snodano i sentieri dei campesinos. Trascorremmo diverse ore a guardare il cielo distesi su quelle dune antiche e desolate, chiedendoci perché in fondo avessimo iniziato quel viaggio e come fossimo finiti lì. Cosa cercavamo? Eravamo semplicemente fuggiti da una routine che ci andava troppo stretta o eravamo alla ricerca di qualcosa che a casa nostra non avremmo potuto trovare? E che forma aveva questo qualcosa? Nei nostri pensieri e nelle nostre conversazioni avvertivamo ancora una foga che derivava, decidemmo, dal fatto che fossimo in viaggio da poco, incapaci ancora di scrollarci di dosso certi atteggiamenti e stati d’animo tipici della vita che ci eravamo lasciati dietro. In quelle terre dove la gente, almeno in parte, vive ancora in sintonia con la natura e la Madre Terra, volevamo trovare una nuova lente attraverso cui vedere il mondo in maniera diversa, oltre a riprenderci il controllo sul tempo che il lavoro e la frenesia della società in cui eravamo nati e cresciuti ci avevano sottratto. L’idea era quella di esplorare le tradizioni dei popoli indigeni, di fare esperienza delle loro pratiche mistiche, certi che la poesia di un continente in cui c’è ancora chi si relaziona col cosmo e sonda l’insondabile ci avrebbe in qualche modo migliorato. Saremmo riusciti nel nostro intento? Se sì, in che modo? Trovavamo difficile persino instaurare una vera e propria conversazione con la gente locale, diffidente e riservata. E, soprattutto, avevamo il diritto di curiosare in un mondo che proprio noi bianchi contribuiamo a distruggere da oltre cinque secoli?

    Per un paio di giorni ci facemmo semplicemente cullare dal nulla e dal silenzio che regnavano in quella piccola vallata. La totale incuranza che fu capace di esprimere Potolo verso il mondo esterno, noi compresi, ci aiutò a portare avanti quel processo di decompressione fisica e mentale necessario a proseguire il nostro viaggio nel cuore dell’America Latina. Il semplice non dover pensare a nulla che non fossero le dune rosse ci aiutò a rimetterci in marcia verso il prossimo puntino segnato sulla mappa e la mattina del terzo giorno decidemmo di saltare sul primo bus in partenza verso Sucre e quindi Potosì.

    «E dove ve ne andate con tutta quella roba?»

    Lucha, una donna quechua sulla sessantina, si era sistemata sul sedile accanto al nostro. Dopo aver riempito l’altro sedile con delle pesanti borse in plastica, si era arrampicata al suo posto in maniera goffa, sempre stringendo in una mano i ferri e la maglia. Era stupita dalle dimensioni e dal peso degli zaini che avevamo caricato sul tetto del piccolo van.

    «In giro per il sud America» le rispondemmo, «sarà un lungo viaggio».

    «Con le vostre grosse zampe sono certa che potrete arrivare ovunque» disse, agitando i piedini che non toccavano terra. Il sorriso che le squarciava il volto rugoso rivelò una dentatura macchiata e contornata da lamine d’oro. Dopo svariate settimane di apparente indolenza e riservatezza boliviane, tanta loquacità ci sorprese. Ci chiese i nostri nomi ma decise che erano troppo difficili da ricordare, così prese a chiamarci Federico e Josephina, come i suoi vicini di casa a Potolo.

    «Sta arrivando l’inverno», lo sguardo basso sul tessuto viola chiaro che prima o poi sarebbe diventato un maglioncino, «questo è per mia figlia. Fa il medico generico a Potosí. I miei figli maschi vivono qui, uno fa l’allevatore a Potolo e l’altro fa l’insegnante di musica a Maragua. Ne avevo un altro ma è morto in un incidente stradale». Solo in quel momento lasciò andare per un attimo i ferri sulle gambe e si asciugò una lacrima con la mano dura e nodosa.

    Fuori dal finestrino le montagne scorrevano aride, striate di rosso e ocra.

    Arrivammo a Sucre dopo qualche ora e saltammo insieme a Lucha su un taxi diretto alla stazione. Qui, tra le grida dei bigliettai e le donne che vendevano succhi gelatinosi e colorati in buste di plastica, montammo sul bus diretto a Potosí, a circa 150 Km di distanza.

    I sedili avevano le molle rotte e i braccioli erano incrostati di solo Dio sa cosa. Tutto l’interno puzzava di umido e il freddo passava facilmente tra le guarnizioni logore dei finestrini sporchi. Un bambino giocava con una bottiglia vuota agitandola fuori dal finestrino per farla riempire d’aria. Sistematasi di nuovo al suo posto, il sorriso d’oro di Lucha si aprì di nuovo. Ci chiese se parlassimo quechua. Alla nostra risposta negativa si fece subito seria e commentò che bisognava assolutamente rimediare.

    «Ti amo si dice munanquichu. Munanquichu acha significa ti amo tanto. Ñuqaps munanquichu acha, anche io ti amo tanto». Continuò per un bel po’ notando con soddisfazione che prendevamo nota di queste espressioni, per quanto non avessimo la più pallida idea di come si scrivessero.

    «Infine sawasqa kashanchis significa ci sposiamo, capito Federico? E tu Josephina? Ora praticate». Le tornò il sorriso d’oro mentre noi cercavamo goffamente di ripetere quello che ci aveva insegnato.

    Quel viaggio passò tutto così, con Lucha che inframezzava la lezione di quechua ai racconti dei suoi parenti sparsi per la Bolivia. Arrivati a Potosí ci congedammo da lei. «Che tutto vi vada bene» ci augurò prima di darci le spalle e mischiarsi alla folla, del tutto inconsapevole di aver contribuito alla collezione di personaggi e storie che avrebbero arricchito il nostro viaggio.

    Eravamo ancora in una fase di esplorazione a tutto tondo per cui qualsiasi angolo della Bolivia ci sembrava incredibilmente degno di nota. Avevamo diligentemente letto quel poco materiale disponibile in italiano sulla storia e la geografia di Potosì e decidemmo che sarebbe valsa la pena di fermarsi per qualche giorno prima di continuare il viaggio verso Nord e proseguire la ricerca, fino a quel momento piuttosto infruttuosa, di un contatto diretto con le popolazioni indigene.

    La stazione degli autobus in cui ci fermammo a fumare una sigaretta sembrava una sorta di strana astronave atterrata per caso nella zona indigena della città. Sembra che la cittadina, con i suoi 4.000 metri sopra il livello del mare, sia la seconda città più alta del mondo dopo La Rinconada, al confine con il Parco Nazionale Madidi in Perù. Ma di stime esatte e attendibili in Sud America è difficile trovarne. Uscimmo all’esterno e con un nuovo senso di familiarità ritrovammo nel quartiere indigeno i tratti tipici dell’urbanizzazione sospesa. Anche qui si vedeva un insieme di costruzioni incompiute e con i mattoni a vista che si espandeva senza una logica apparente, in cui le strutture sembrano in uno stato di perenne trasformazione, senza mai prendere una forma definitiva. Salimmo sul primo colectivo¹ diretto al centro e percorrendo la Avenida Las Banderas sbucammo nel centro storico, un faticoso saliscendi affollato da chiese e palazzi coloniali decadenti con i loro balconi di legno decorati. Un panorama che ricorda i fasti di un passato triste e glorioso.

    Nel 1545 gli spagnoli scoprirono le riserve d’argento nelle viscere del Cerro Rico, il monte dalla forma perfettamente conica che è visibile da ogni punto della città. In meno di trent’anni Potosì subì un’esplosione demografica senza precedenti, raggiungendo per numero di abitanti la Londra dei tempi e surclassando Parigi e Roma. In preda a una ricerca ossessiva e disperata di nuove fonti di introiti per saldare i debiti contratti con le altre corone e i ricchi commercianti europei, la monarchia spagnola diede il via a una vera e propria corsa all’argento sudamericano. Fu così che su quelle terre fredde e desolate nacque Potosí.

    Tutte le colonie divennero in breve tempo terreno di conquista e sopraffazione mentre i grassi banchieri del vecchio continente ne succhiavano via le risorse che gli indigeni, per secoli, avevano custodito e riservato ai propri dei. Nelle miniere potosine persero la vita oltre otto milioni di persone costrette ai lavori forzati, per lo più indigeni e schiavi africani, e chi non moriva con i polmoni infettati dalle polveri o per le condizioni di vita e lavoro disumane, rimaneva vincolato al padrone di turno insieme ai propri figli. Molti europei, laici ed ecclesiastici senza distinzione, si stabilirono a Potosí per godere del lusso e del divertimento sfrenato resi possibili da quella nuova fonte di ricchezza. Come scrive Edoardo Galeano nel suo Le vene aperte dell’America Latina, La spada e la croce marciavano insieme nella conquista e nel saccheggio coloniale. Solo Ouro Preto nello stato di Minas Gerais in Brasile può vantare dei record altrettanto tristi e infami in quanto a mortalità precoce e sfruttamento.

    Poi, verso la metà del 1600 le riserve d’argento iniziarono pian piano a esaurirsi e allo stesso ritmo gli europei lasciarono la città. La gloria di Potosí era finita. La città, che nel sedicesimo secolo era stata uno dei luoghi più famosi e ambiti dai ricchi europei, scomparve presto dalla memoria e con lei tanti altri angoli del continente latino-americano. L’estrazione di risorse non solo materiali ma anche spirituali, lasciò dietro di sé un vuoto che non sarebbe più stato colmato. I potosini, insieme a tutti gli altri popoli vittime del saccheggio, vennero abbandonati senza la benché minima possibilità di assorbire neanche le briciole di quelle conoscenze tecniche che loro stessi avevano contribuito a creare e che avevano reso possibile la rivoluzione industriale europea. Uno schema che si continua a ripetere anche oggi in tutti i paesi del sud del mondo, o quantomeno in quelli che posseggono manodopera a basso costo e risorse naturali in abbondanza, dall’acqua, al legno e ai minerali. Il Cerro come lo si vede oggi è ben diverso da quello che conquistarono gli spagnoli a causa della dinamite e degli scavi forsennati che ne hanno modificato in maniera irrecuperabile colore e altezza. Oggi i potosini continuano a morire nella pancia del mostro per estrarre lo stagno. Non appena lo straniero mette piede a Potosí, si trova assalito dalle agenzie che fanno a gomitate per vendergli il tour delle miniere e assistere al veloce e inesorabile decorso dei minatori che qui, in media, vivono fino ai trentacinque o quarant’anni. Un voyeurismo mercanteggiato senza ritegno e travestito da supporto economico, condito dalle raccomandazioni di portare con sé foglie di coca e alcool da regalare a quei disgraziati. «I minatori vi ringrazieranno», sentimmo dire da una guida allegra che stava vendendo il tour a una famigliola in vacanza a due passi da noi.

    Provammo a non essere troppo bruschi nel declinare le numerose offerte per quel macabro tour e ci dirigemmo quasi di corsa verso la piazza centrale, dove ci accolse un gran trambusto e numerose guardie a bloccare il passaggio. Era in corso una parata di giovani in costume. Le ragazze indossavano abiti seicenteschi, i ragazzi erano invece travestiti da minatori o da preti. Da una posizione rialzata, come se li sorvegliassero pronti a ghermirli, un diavolo e l’angelo della morte seguivano il corteo di ragazzini. Si trattava chiaramente di una rappresentazione del passato opulento della città. Accalcati ai lati della strada a osservare quello spettacolo notammo molti visi perplessi, soprattutto di anziani. Chiedemmo spiegazioni a una donna sulla cinquantina che portava un bambino fasciato sulla schiena, anche lei immobile sul largo marciapiede ad assistere alla scena.

    «Non lo so» rispose con tono burbero.

    Alla stessa domanda, un vecchio ci guardò di sbieco per qualche secondo. Poi si voltò di nuovo a guardare la strada e i giovani che gli sfilavano accanto lasciandoci lì senza risposta. Due ragazze sulla ventina che non partecipavano alla sfilata ci confermarono divertite che si trattava di una rappresentazione dell’antica Potosí ma non ce ne seppero spiegare il motivo. Per allontanarci dalla bolgia ci rifugiammo nella vicina Casa Real de la Moneda, la zecca di Potosí. Nel cortile, fissato su un grande arco in pietra, si affaccia il Mascarón, la grossa e inquietante scultura di un volto col capo decorato da grappoli d’uva. C’è chi dice che questo volto dal sorriso distorto rappresenti Bacco e chi invece che sia quello di un ex direttore della Casa. C’è anche chi sostiene che sia il pastore indigeno Diego Huallpa, colui che diede inizio alla febbre dell’argento. Una notte del 1544 Huallpa, finito sul Cerro Rico per inseguire una lama allontanatosi dal pascolo, accese un fuoco per riscaldarsi. La luce del fuoco fece luccicare una vena d’argento in superficie e venne così scritto il destino di Potosì.

    Mentre stavamo ancora fissando l’inquietante scultura, entrò una ragazzina vestita con un abito d’epoca, evidentemente a riposo dalla sfilata. Si mise in posa davanti alla fontana del cortile, giusto sotto al Mascarón, e il padre le scattò una foto orgoglioso.

    «Perché questa sfilata? Non vi ricorda un capitolo atroce della vostra storia?» chiedemmo con un pizzico di ingenuità occidentale.

    «Si, è un capitolo brutto, ma bisogna pur fare i conti con il proprio passato».

    Siamo noi che dovremmo riconoscere lo stato, non viceversa

    [La Paz e El Alto]

    «Potosì? Siete passati da quelle parti? Sono stato molto male una volta a Potosì, probabilmente a causa degli spiriti di quelli che ci sono morti per l'argento. Tutta quella povera gente continua a far sentire la propria voce dopo secoli. Decisi di fare un'offerta con le foglie di coca e suonai una canzone col mio flauto e il malore improvvisamente scomparve».

    Conoscere Siku Mamani, musicista aymara, fu l’esperienza inaspettata che diede senso alla nostra permanenza a La Paz.

    Per tante settimane La Paz era stata soltanto un altro puntino sulla nostra mappa, uno di quelli da cui per altro cercavamo di tenerci lontani. A un certo punto però, fummo costretti ad arrenderci all’evidenza. Esiste infatti una linea di confine invisibile superata la quale tutte le strade, asfaltate o meno, confluiscono verso la capitale e se vuoi andare oltre, volente o nolente, devi passarci almeno una notte. Avevamo deciso di fermarci a La Paz il minimo indispensabile, giusto il tempo di riposarci dall’estenuante viaggio in bus che dal sud del paese ci portò sulla Cordigliera Real e sbrigare alcune di quelle commissioni che sono possibili solo nelle città, per quanto spiacevoli e inquinate.

    Partimmo da Uyuni dopo aver esplorato il deserto di sale boliviano, un’infinita e freddissima distesa di un bianco quasi assoluto. Avete presente la sensazione e i pensieri che suscita un buon documentario naturalistico? Qualcosa tipo: Wow! Bellissimo! Meraviglioso! Ma non lo vedrò mai in vita mia… luoghi come questi sono impenetrabili se non per una troupe del National Geographic? Ebbene, quando si è difronte alla bellezza immensa del Salar de Uyuni, oltre a sentirsi minuscoli rispetto alla grandezza e alla imprevedibile creatività della Natura, si ha esattamente la sensazione di essere finiti in uno di quei documentari. Viaggiammo su un bus notturno per arrivare l’indomani mattina presto, impiegando più di nove ore per percorrere quasi 600 chilometri. Dopo la solita notte quasi insonne tra buche, strade sterrate e soste interminabili nel bel mezzo del nulla, salimmo sul primo taxi che ci offrirono all’uscita dal terminal terrestre, senza neanche provare a tirare sul prezzo. Raggiunto il centro, pagammo i pochi bolivianos² per la corsa e prima di congedarci dall’autista chiedemmo conferma di dove ci avesse lasciato. «Plaza San Francisco» rispose quando stava già richiudendo lo sportello della macchina. Avevamo gli indirizzi di un paio di ostelli segnati su un quadernetto tascabile e ci mettemmo subito in marcia tra le viuzze a quell’ora deserte. Dopo 10 minuti buoni ci trovammo con le mani intirizzite dal freddo a suonare ripetutamente un campanello appeso a un muro rosso scrostato. A quanto diceva il cartello affisso all’ingresso con dello scotch ingiallito, un letto costava 30 bolivianos, nemmeno cinque dollari. Era appena l’alba e dei passi lenti si avvicinarono alla pesante porta in legno. Ci aprì un uomo dall’età indefinibile.

    «Pase, pase, pase» disse gesticolando con una mano e stropicciandosi gli occhi con l’altra. Notati i grossi zaini che portavamo sulle spalle, si spostò subito di lato, appiattendosi contro il muro del corridoio claustrofobico e sfoggiando un sorriso sdentato avvolto da sottili lamine dorate, come ne avevamo già visti parecchi in quella parte di mondo. I sonrisas de oro sono infatti molto comuni tra i boliviani, soprattutto tra i campesinos e le classi meno abbienti. L’usanza è iniziata dopo la Rivoluzione Agraria degli anni ’50, quando ai braccianti fu concesso il diritto di diventare proprietari terrieri e, proprio per emulare questi ultimi e nascondere le loro origini umili, presero a farsi avvolgere i denti in sottili corone dorate. Il trattamento è spesso un investimento per la vita, poiché prima di morire i denti vengono ripartiti e lasciati in eredità ai familiari.

    Sbrigammo le formalità di rito e ci facemmo guidare al dormitorio, dove, facendo attenzione a non svegliare nessuno, ci infilammo sotto le lenzuola per cadere immediatamente in un sonno profondo. Ci svegliammo dopo poche ore, ancora frastornati dal viaggio. Senza pensare troppo a che ora fosse e se avessimo dovuto fare colazione o pranzare, lasciammo l’ostello in cerca di cibo. Tornati in strada ci trovammo dinanzi a quel folle, curioso e sudicio paesaggio urbano che dopo Santa Cruz de la Sierra e Potosì ci risultava ormai familiare. I rumori assordanti delle macchine, degli autobus e dei motorini intasavano le strade e i piani bassi degli edifici, per lo più incompleti e coi mattoni a vista, erano anneriti dai gas di scarico. Quella parte di città era un susseguirsi quasi ininterrotto di negozietti, botteghe, spacci alimentari, negozi di elettronica, ristoranti e foto-copisterie. Evitammo di buttarci subito nel vialone principale che avevamo notato scorrere alle spalle dell’ostello come un fiume di cemento. Passeggiammo tra le viuzze strette tra due file di palazzoni e sopra le nostre teste un intrico di fili elettrici sorretto da pali pericolanti si sovrapponeva al cielo azzurro delle Ande per tutta la lunghezza della strada. Con difficoltà – dopotutto eravamo a oltre 3.600 metri sopra il livello del mare – ci facemmo strada fino a Plaza San Francisco, dove il caos di clacson e marmitte si

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