Un'altra vita
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Un’altra vita. Un racconto in capitoli trattato con ironia e fraseggio interiore dialettale (tradotto). Uno scambio di battute con la coscienza vigile descrivono l’attuale vita dell’autore tra avventure amorose, amicizie sincere e veleggiate sul suo Koala 38.
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Anteprima del libro
Un'altra vita - Alessandro Marazzato
Note
UN’ALTRA VITA
racconti di un italiano a creta
ALESSANDRO MARAZZATO
Illustrazione di copertina: Alessandro Marazzato
Editing e impaginazione: Emanuela Navone
© 2019 PubMe, Alessandro Marazzato
Tutti i diritti riservati
A chi ha avuto un pensiero amorevole per me.
Mia figlia sorrideva triste e io mi domandavo se quello non fosse l’ultimo dolore che le recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho sempre amata e le sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi ogni giorno e alzano la mano in segno di saluto. Non rimaneva altro che un sorriso, una carezza: tutto lì.
La mia vita ormai era altrove.
Ultimi giorni di angoscia e di preparazione, poi via verso l’isola sconosciuta, speranzoso di ricominciare e lasciare tutto e tutti alle spalle.
Un’altra vita.
PROLOGO
Sbarcai a Creta un giorno di maggio per un periodo di indagine. Desideravo stabilirmi sull’isola ed eleggerla come seconda patria. Appena attraversato il tunnel mi ritrovai in una selva di corpi che mi stringeva e pressava, un carnaio in cui la cacofonia di lingue mi stordiva. I variopinti abbigliamenti dei turisti ondeggiavano come fiori al vento, profumi e odori si condensavano in un unico miasma soporifero. L’altoparlante sovrastava il brusio insistente. Il tintinnio dei bicchieri e delle tazzine del bar, collocato sotto una finta tettoia di palme, si perdeva cristallino sulla pletora di voci.
Ero turbato e confuso. Scombussolato dai discorsi di quell’ultima cena con gli amici da Maria, la gestrice del ristorante che aveva preparato una tavola degna di un convivio luculliano, ripercorrevo costantemente la serata. Loro mi dicevano: «Tanto Creta è a un tiro di schioppo, in tre ore sei a casa.» Qualcuno mi rammentava che forse un periodo sabbatico mi avrebbe solamente giovato. Qualcun altro mi confortava raccontando delle cazzate che combinavamo imitando il film Amici miei
. La maggior parte ironizzava sulla mia imminente partenza, mancavano dieci giorni, paragonandomi all’emigrante veneto con la valigia di cartone tenuta da uno spago.
Mia figlia, seduta di fronte a me, sorrideva triste e io mi domandavo se quello fosse l’ultimo dolore che le recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho sempre amata e gli sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi ogni giorno alzando la mano in segno di saluto. La mia vita ormai era altrove.
I fuggiaschi, quelli che se ne vanno da una realtà divenuta, nonostante tutti gli sforzi per raddrizzarla, storta e insostenibile, tendono ad annullare, dimenticare e annichilire ogni traccia del passato. Sperimentano di tutto per nascondere e confondere le orme e i segni lasciati dal transitare sulle vestigia di un passato ormai remoto. Io ero consapevole di me stesso, dei miei trascorsi. Non cercavo di scomparire e mi attaccavo agli affetti ancor più di quando li frequentavo, ma me ne dovevo allontanare per salvarli, perché non rimanessero in me come rovine ma semplici e attuali ricordi. Il passato è come un fantasma che appare nei momenti bui e quando meno te lo aspetti ti segue mormorandoti i fallimenti che hanno costellato la vita, dimenticando i successi. Avrei dovuto aver pietà di me e dei miei atti, quell’antica pìetas
che rispecchia, tra l’altro, il sentimento religioso, il rispetto della famiglia, il valore gerarchico che ancora confusamente albergavano in me. Non avevo fatto mai chiarezza e neppure avevo imparato che la pietà è quella parte dell’amore che non chiede nulla ed è di per sé una preghiera. Ora lo sapevo ma sembrava che tutto fosse perduto.
Forse semplicemente accantonato , mi dissi in preda all’angoscia.
Avevo bisogno di respirare. Uscii e mi sedetti sulla panchina dell’ingresso guardando i turisti che trascinavano i trolley o si caricavano in spalla zaini voluminosi dai quali pendevano i più disparati oggetti. File ordinate di nordici stazionavano di fronte ai box delle varie autolinee. Frotte di italiani e spagnoli assalivano corriere e autobus come fossero diligenze nel far west mentre personaggi più distinti e ricchi incedevano, naso all’in su, verso il parcheggio dei taxi.
Ero stanco e frastornato. La decisione di partire mi era costata parecchio in emozioni e convinzioni. Il tempo per i se e i ma era scaduto, e mi trovavo solo in un paese straniero con una lingua incomprensibile. Una vita di successi e disastri alle spalle non mi aveva insegnato niente dell’amore, della tolleranza e della pace: avevo gustato solo avventure. Portavo sulle spalle le azioni passate come Atlante la volta celeste. Esausto, mi sentivo imbrigliato in una ragnatela di crucci e rincrescimenti. Più progettavo di riemergere e più affondavo invischiato in una densa melassa che m’impediva movimenti fluidi. Nuotavo nell’affanno e avevo paura. L’ego si ribellava alla situazione di stasi e all’accondiscendenza supina di una realtà devastante. Pagavo il motto preferito: meglio rimorsi che rimpianti. Non sono ubbidiente per natura e tanto meno il mio carattere si adatta all’inerzia.
«Cerco pace, anche se dolorosa» mormorai guardandomi ancora una volta attorno alla ricerca di un segno, di un indizio che rivelasse che quanto stavo facendo fosse la cosa giusta. «Perché qui?»
Era vero che avevo accettato un invito ed era altrettanto vero che Creta era la meta ideale per lontananza e, al contempo, per vicinanza al mio paese. Avevo altresì ricevuto proposte dalla Spagna e dal Venezuela, persino dalla Germania da dove alcuni amici mi avevano scritto offrendomi ospitalità. Perfino dalla Norvegia mi aveva telefonato una vecchia morosa
, sperando di riavermi tra le sue braccia. Io avevo scelto Creta senza un preciso motivo se non quello di incontrare una vecchia amicizia.
Da un’ora stavo seduto a pensare, recriminare e immaginare, nell’attesa dell’autobus che da Chania mi avrebbe condotto a Rethymnonn. Quando arrivò, trascinai le valige e mi sedetti al primo posto per avere una visuale migliore del nuovo panorama.
Seduto a osservare il paesaggio, ancora verde della primavera, mi resi conto che mi rimanevano solo due opzioni: o credere in me stesso e nelle mie possibilità, o no; e ciò sarebbe stato come un trampolino o una fossa, una ripida e difficile salita o una fluida e veloce discesa nel precipizio della fine.
Ora percorro le strade dell’isola, che fu patria di Minosse, alla ricerca di una dimensione consona al mio spirito curioso ed errabondo. Nel girovagare peregrinante, senza precise mete, incontri casuali e cercati tingono i giorni di colori vivi, e avvenimenti fortuiti mi donano nuova linfa. Le donne, tutte, sono il leitmotiv. I suggestivi paesaggi di Creta permeano di eros e pathos le mie esperienze di errabondo.
L’EPILOGO
Da giorni le immagini e i ricordi del recente passato tornavano assillanti. Come in un film al rallentatore, fotogramma dopo fotogramma sembravano una locomotiva lanciata contro di lui e, impassibile e immobile, arrivava sbuffante.
Inerte e trasognato attendeva l’urto, la deflagrazione che avrebbe dato inizio a un nuovo corso della vita o alla fine. Era sicuro che tergiversando ancora sarebbe successo così. Allora decise.
«Basta.»
Avrebbe chiuso e racimolato in qualche modo un po’ di soldi e si sarebbe inventato altro. Era stanco di una professione divenuta esclusivamente un mercato nel quale muoversi significava ripudiare ogni idealità costruita sin lì.
Negli ultimi anni e per il luogo dove professava, immaginare l’architettura come arte primaria
non aveva futuro e neppure si prospettavano soluzioni tali da mettere a frutto l’esperienza trentennale e un curriculum di tutto rispetto. Era penoso, triste e drammatico abbandonare il lavoro, nella maturità professionale, che era stato passione, attaccamento, esaltazione e tormento. Era dunque arrivato al capolinea della professione. Mancavano soli due anni alla pensione e non voleva buttarli in inutili e vani tentativi di riemergere.
L’idea era di aprire un ristorante. Ma non sarebbe stato un banale ristorante alla moda ma un’esplosione di idee per gente con idee e con voglia di vivere e curiosità. Pensava a quante valenze erano insite in un luogo ove no se se impenize soeo a panza
(non solo ci si riempie la pancia).
Lo pensava come un angolo di aggregazione con molteplici sfaccettature e possibilità: cucina di ricerca, vini solo veneti, spazio musica, spazio teatro, biblioteca, zona pranzo, angolo relax, area convivio per compagnie, angolo degustazione prodotti autoctoni e un locale privé. Ogni giorno immaginava qualcosa da inserire. Alla fine smise di congetturare.
«No bastaria un capanon da mie metri (non basterebbe un capannone da mille metri).»
Il caso volle che, proprio in quel periodo, ricevesse una richiesta che, lo capì in seguito, avrebbe trasformato e condizionato il resto della sua vita.
L’amico, industriale di successo, tra un caffè e una consulenza aveva discusso con Al della sua follia: aprire un ristorantino. Conosceva la sua passione per la cucina; ogni tanto, infatti, lo reclamava nella sua villa per allestire velocemente una cena per ospiti che capitavano all’improvviso. Al era ben disposto a queste improvvisate performance poiché riteneva che, oltre che a un favore all’amico, fosse un’occasione di conoscenza di personaggi illustri e ben dotati di portafoglio.
Fu chiamato con urgenza al telefono da Piero.
«Vien qua, movete (vieni qui, muoviti).»
«Cossa ghe xe? (che cosa c’è)?»
«Te go dito de vegnar qua, tanto o zo che no te ghe gnente da fare (ti ho detto di venire qui, tanto lo so che non hai nulla da fare).» E aggiunse: «Desbrigate (sbrigati).»
Si recò quindi presso l’ufficio dell’amico, su al terzo piano. Salendo con l’ascensore tutto in vetro ammirava la sua opera mentre scrivanie, scaffali e impiegati sprofondavano velocemente nei piani che si inabissavano sotto di lui.
Sdraiato sul divano finta zebra, l’amico gli fece cenno di versare da bere indicando con la mano il bar. Si sedettero ad analizzare le varie proposte che Piero immaginava per la sua nuova fabbrica. Seguì un’accanita discussione sulle soluzioni organizzative degli spazi esterni. Gli innumerevoli tentativi di farlo desistere dall’idea della sequoia, voleva piantumarne addirittura un viale, a qualcosa approdarono.
Al non cedeva facilmente alle richieste del ricco amico, ci teneva all’integrità del progetto, e l’altro, di contro, non ne voleva sapere di essere contraddetto. Gli sforzi prodotti per fargli comprendere il non luogo che si sarebbe venuto a creare con l’utilizzo delle sequoie approdarono a qualche modifica alla proposta di Piero. Alla fine accettò di organizzare gli spazi esterni con una piantumazione di liquidambar stiracyflua anziché di sequoie.
Poi, su richiesta di Al, ordinò, non nell’interfono ma gridando a squarciagola affinché lo sentissero fino al piano terra, due caffè. La segretaria dell’ufficio accanto partì come un razzo giù per le scale. Con l’ascensore avrebbe perso qualche secondo.
«Però!» esclamò Al. «I xe tuti co a fifa inte el cueo, ma cossa ghe feto aea matina, i morsegheito pena che i riva (sono tutti con la paura piantata nel culo, ma cosa gli fai al mattino, li mordi appena arrivano)?»
Piero sorrise e fissandolo strepitò: «Fin desso ghemo zogà, desso xe ora de robe serie (sinora abbiamo giocato, ora è venuto il momento delle cose serie).» Di fronte al caffè, a bruciapelo, senza tante parafrasi, gli fece la proposta. «Perché non riapri la pizzeria che sta al piano terra del mio centro commerciale? È chiusa da cinque anni ma è completamente arredata, funzionante e con una cucina attrezzatissima.»
«Sì, te ghe razon (sì, hai ragione). Ma è in culo al mondo, non ha spazi esterni o giardino e nessuna visibilità.»
Era infatti posizionata nell’angolo più nascosto del complesso edilizio che dava sull’abitato, difficile da individuare anche da chi transitava a piedi nei paraggi.
«Non si vede dalla strada e c’è da sputare sangue solo a inventarsi qualcosa.»
«Non te la senti, ti mancano le palle» lo schernì Piero.
«Lo sai che quelle non mi mancano. Il fatto è che non ho i soldi sufficienti per quest’avventura. Bisogna trovare l’idea giusta per far funzionare quel locale, e comunque servono almeno tre anni e una montagna di denari, e io da solo non ce la faccio.»
L’amico lo scrutò pensieroso col suo sguardo d’aquila. Al immaginava che stesse per progettare o inventarsi qualcosa per convincerlo ad accettare la proposta e che la chiamata per le variazioni degli spazi esterni era stata solo una scusa. Lo conosceva bene.
Piero fece una telefonata alla moglie richiedendola immediatamente in ufficio. Posò il telefono. «Ti faccio una proposta che non puoi rifiutare.»
«Sentiamo.»
«Aspettiamo che arrivi Lella.»
«Be’, perché? Tanto comunque decidi sempre tu» rispose Al in tono impertinente.
Si era intanto avvicinato alla finestra e l’aveva aperta, accendendosi una sigaretta. A Piero dava fastidio ma tollerava il vizio, e ogni volta gli ingiungeva di usare lo swap, la sigaretta elettronica. Al gli rispondeva: «No me piaze e moeghea de proporme i sufimigi (non mi piace e finiscila di propormi suffumigi).»
«Sempre a cagnarve, valtri do (sempre a bisticciare, voi due).»
Lella era apparsa sull’uscio della parete vetrata e, elegante come al solito, intervenne a tacitare i due. «Moèghea (smettetela).» E rivolta al marito: «Cosa vuoi, cosa significa questa riunione?»
«Sentì qua (State attenti)» ribatté Piero. «Zo drio proporghe che a piseria la gestissa lu (gli sto proponendo la pizzeria in gestione).»
«Fai quello che vuoi purché funzioni. È l’angolo morto dell’edificio.» Lei sfogliava sbadatamente il libro sfilato dallo scaffale ove erano riposti i prototipi.
«Apunto, in cueo al mondo (appunto, in culo al mondo)» protestò Al. «El voe darmea proprio a mi. Cossa ghe goi fato de mae, e parchè proprio a mi? (vuole darla proprio a me. Cosa gli ho fatto di male, e perché proprio a me)?»
Lella poggiò il libro sula scrivania. «Ha ragione. Sappiamo che il tuo studio è in sofferenza e che lo vuoi chiudere, sappiamo delle tue previsioni future, dei tuoi desideri, ne abbiamo già discusso con te qualche sera fa a casa mia.» Per rinforzare la proposta del marito aggiunse: «E poi sono convinta pure io che un personaggio come te ce la può fare. Sei ancora in forze, un bell’uomo che il tempo ha segnato poco. Sei uno sportivo e piaci alla gente.»
«Gnanca par sogno (assolutamente no)» ribatté Al. «No buto chei quatro bessi che go da na parte pa na sparada che podaria finir mae (non butto via quei pochi soldi che ho da parte per una spacconata che potrebbe finire male).»
Piero si alzò dalla poltrona incespicando sul finto tappeto di zebra, in pendant col divano, aggrovigliato attorno alle razze della poltrona per il continuo oscillare sulle ruote che imprimeva col suo nervosismo cronico. Prima di finire il giro attorno alla scrivania incespicò ancora e, per riprendere l’equilibrio, si poggiò a una pila di libri sparpagliandoli sul piano di cristallo. Una sonora bestemmia silenziò la moglie che aveva avuto un azzardo di ilarità.
In quell’ufficio tutto decantava ricchezza e potere, dal soffitto in cartongesso, tinto di un rosa pallido luccicante, alle pareti in encausto veneziano; dai divisori in vetro serigrafato ai costosi arredi che un architetto, che non aveva ancora scelto da che parte stare, aveva allestito come un postribolo e col quale Al aveva avuto un pesante alterco rinfacciandogli, volgarmente, la sua indefinita sessualità.
Osservando l’incedere tronfio e impacciato dell’amico, ricordò un film di Fantozzi e la poltrona di pelle umana
sulla quale sedeva il direttore
. Una risata sonora allibì i due che la credevano indirizzata a loro. Al si scusò spiegando l’aneddoto.
Piero, non convinto, lo guardò torvo. «Ben, femo cussì (bene, facciamo così).» Si era fermato al centro della stanza fissandolo pensieroso. «Pa do ani no te me paghi l’afito, te usi tuto queo che ghe ze rento e te fe queo che te voi e se te ghe bisogno zo qua e... va in cueo (per due anni non mi paghi l’affitto, usi tutto quello che c’è dentro e fai quello che vuoi e se hai bisogno io sono qua e... vai a fare in culo).»
«Ma Piero!» s’indignò ad arte Lella.
«Sì, el me ga roto i cojoni, ghe dao na posibiità, e lu la buta (sì, mi ha rotto i coglioni, io gli do una possibilità e lui la butta via).»
«Non mi sono ancora espresso» rispose Al, passando all’italiano. «L’offerta è interessante ma ci devo pensare. Devo trovare persone affidabili e convinte dell’avventura e che abbiano il coraggio di condividere il progetto.»
«No a xe na ventura (non è un’avventura)!» urlò Piero. «A xe na posibiità che te dao (è una possibilità che ti do).»
«Sei proprio un amico, Piero.» Al sorrise beffardo. «Ma in genere, per quel che ti conosco, le tue proposte convengono solo a te. Ci devo pensare. In settimana ti do la risposta.»
«No te ghe da spendare pi de vintimie euri, e mi me carico i costi de tutti i impianti che serve (non devi spendere più di ventimila euro, e io mi sobbarco tutti i costi per la sistemazione degli impianti)» lo incalzò Piero. Poi con fare condiscendente aggiunse: «Te digo de pì, te garantizo trenta dei me dipendenti ogni medodì (ti garantisco trenta dei miei dipendenti ogni mezzogiorno).»
«Ti co vintimie euro no te te neti gnanca el cueo e in te chel posto co chea cifra no te fe na ostia (tu con ventimila euro non ti pulisci neppure il culo e con quella cifra lì non si combina nulla)» replicò Al. «Comunque devo trovare qualcuno che gestisca la cucina e che partecipi all’impresa. Devo elaborare un progetto, sottoportelo, preventivarlo e metterlo in opera. Ti darò una risposta nel fine settimana.»
«Al, tu conosci un sacco di persone, hai un’esperienza di ristoranti poiché la tua è una famiglia di ristoratori e hai voglia di cambiare» interloquì Lella.
«Grazie della fiducia e grazie della proposta. Fine settimana si decide.»
Nell’androne, Al telefonò a Manuel, emigrato in Germania a lavorare come cuoco in un ristorante stellato. Con lui si era dilettato in gare culinarie e non solo. Era una bella e cara persona. Un amico di condivisioni.
Se n’era andato poiché in Italia aveva perso la casa in una vicenda quasi surreale. Al lo aveva aiutato come aveva potuto ma era stato tutto inutile: una triste storia.
«Assame perdare che stao ben qua (lasciami perdere che io sto bene qui)» fu la risposta secca e asciutta.
Senza Manuel non se la sentiva di affrontare da solo quella sfida. Nonostante il diniego dell’amico e nella speranza di convincerlo a trovare qualche altra soluzione, aveva intanto redatto una bozza di ristrutturazione da pizzeria a ristorantino: da centocinquanta a settanta posti, angolo lettura con divanetti Chesterfield, angolo musica live su pedana, fornitissima libreria. Prevedeva duemilacinquecento volumi, tanto li avrebbe avuti gratis da Piero. Completavano l’ambiente un’enoteca e un angolo assaggi e aperitivi, con affettatrice Berkel rossa a volano in bella vista e un privé per i dirigenti dell’azienda di Piero.
Tuttavia, nonostante la proposta dei due anni gratis e un progetto ambizioso ma realizzabile, non aveva il coraggio di affrontare l’impresa senza l’amico.
Deciso a recarsi