CORRISPONDENZE MEDITERRANEE - viaggio nel sale e nel vento: viaggio nel sale e nel vento
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La domanda sulla fragilità e sul bisogno degli altri per essere felici saranno i nuovi compagni di viaggio.
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CORRISPONDENZE MEDITERRANEE - viaggio nel sale e nel vento - Ilaria Guidantoni
Ilaria Guidantoni
Corrispondenze mediterranee
viaggio nel sale e nel vento
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2015 Oltre edizioni
www.oltre.it
ISBN 9788897264583
Collana * edeia / narrazioni *
diretta da
Elisa Amadori e Diego Zandel
progetto grafico:
Sara Paganetto
Prima edizione agosto 2015
GIÙ AL NORD
Ascolta il consiglio di chi ti fa piangere e non di chi ti fa ridere
«Se oggi mi chiedessi da dove vengo, Filippo, ti direi che sono mediterranea.»
Nessun vezzo intellettualistico né vena romantica. Mi sento una donna mangiata dal sale che da troppo tempo guarda le frontiere solo dal sud. Le ho guardate così a lungo che quelle barriere sono diventate il mio orizzonte, fluido. Disorientata, mi sono persa nel blues della vita, nello sguardo dell'altro e soprattutto negli occhi dei bambini. Ora guardo quella che era la mia vita di un tempo al nord, perfino con tenerezza. A volte nello specchio di quel mondo non riconosco più il mio profilo. La casa alla quale ero morbosamente attaccata devo guardarla sulle foto per non confonderne i particolari. Rue de la Croix, civico 12, il mio numero preferito, nella città vecchia di Lione, vicino la zona dei murales. Da lì è partito il mio viaggio senza ritorno verso il sud, verso quello che credevo la terra del sole dei morenti
mentre è diventata un'alba nuova.
Credo che sia arrivato il momento di raccontare a Filippo la mia storia di questi ultimi anni. Ormai qui a Tunisi abbiamo condiviso tanti giorni insieme, in questa terra, che è diventato il nostro approdo comune, sempre che abbia voglia e tempo di ascoltarmi.
Il suo sguardo è stato come un invito. Gli ho proposto di incontrarci alla terrazza dell'hotel Concorde Les Berges du Lac dove ci siamo visti la prima volta, il mese scorso, quand'era appena arrivato, un po' spaesato.
Era un pomeriggio piovoso e afoso di quelli che sulla Saône nelle giornate di luglio non si dimenticano. Passeggiavo senza guardare, lungo gli argini del fiume all'altezza della prèsque île, sconfortata e un po' arrabbiata con la vita. In poche ore, anni di costruzione faticosa sono stati spazzati via dall'ingordigia dell'esistenza. No, in fondo la vita non ci deve nulla e come diceva Zeno Cosini «non è né brutta né bella, è originale»¹. Accidenti se lo è. Un film surreale. Stavo per trasferirmi in un'altra città, quando tutti i miei progetti sono stati cancellati da un dolore acuto e improvviso che ha fatto la comparsa nell'alba livida di quel giorno maledetto. Ne ricordo ancora in bocca il sapore acre, l'odore che posso solo ricondurre a quello che ormai chiamo con disprezzo profumo di donna, odore di profumerie patinate, di pasticcerie leziose dai dolci colorati e tremendamente finti.
Vuoi sapere com'è accaduto o cos'è successo?
Lavoravo come responsabile della comunicazione al Crédit Lyonnais e in meno di ventiquattr'ore ho perso il mio posto, al lavoro e nel mondo, con molti complimenti, ringraziamenti e tanto di commozione da parte di chi mi dava il ben servito. Se vai a Lione, l'edificio della banca, la matita
, come la chiamano – il missile come lo chiamo io – è quasi una meta di pellegrinaggio, opera dell'architetto Jean Nouvel. A volte l'architettura conserva anche quello che non serve, suo malgrado, e sempre più diventa un monumento a se stessa. Ero in partenza, è vero, ma non stavo abbandonando nulla e nessuno, stavo solo cambiando le regole del gioco.
Ti sembro distaccata, come raccontassi un fatto di cronaca guardato dalla finestra?
Sai, è passato molto tempo, non tanti anni, ma un mare di mezzo ha cambiato il mio corso.
Ora sono nel naòs² e non rinnego il percorso ma mi annoia indugiare su quei primi passi. Io sono altrove. C'è un'altra musica nelle mie orecchie e ormai, per lo più, un'altra lingua.
«Posso solo immaginare. Non ti sentire in obbligo di una confessione. Raccontami quello che vuoi e fino a dove te la senti.»
Il viaggio è iniziato al di là del mare, a Marsiglia. Per un po' sono rimasta dietro la barricata, al riparo. Non riuscivo a saltare il fosso. Ti rendi conto, per quanto abbia viaggiato in lungo e in largo, non ero mai stata nella seconda città della mia Francia, forse perché non era una meta professionale. Ci sono stati anni in cui chi lavorava nella finanza e dintorni non aveva altri spazi nella propria quotidianità che per la produttività e redditività.
Torniamo al punto di partenza, a quel pomeriggio, quando la canicola era particolarmente fastidiosa, sotto un cielo bianco e pesante. Entrai per disperazione, più che per curiosità, in una libreria cercando riparo dall'afa, imbattendomi in un libro di Jean-Claude Izzo³.
Ero già altrove. Passai la notte a leggere. La mattina andai alla stazione e presi il primo treno diretto al sud.
Arrivavo dal nord, con un bagaglio di conoscenze ed esperienze ricche, sofisticate quanto ingombranti. Di solito a Marsiglia si sbarca dal sud. Io mi sentivo nondimeno un'emigrante, quasi clandestina e forse per questo fraternizzai con i pieds noirs più che con i francesi di Francia. In fondo i marsigliesi sono gente di porto, migranti nell'anima. Molti cognomi riecheggiano nomi italiani, tra malavitosi e fuggitivi del regime, al tempo della Seconda Guerra Mondiale e lo stesso commissario Fabio Montale, protagonista delle pagine di Izzo, è un forestiero. Tanti altri si rifugiano là per necessità o inseguendo un sogno. Il mio viaggio è iniziato da quella libreria di Lione e la prima tappa è stata l'incontro in treno con Emma Martirossian, una donna armena docente ad Aix-en-Provence di armeno e russo. Sono stata attratta dalla sua 'straordinaria' bellezza, una singolarità che emanava gioia. Anche se con una vita segnata da molto amore e tanto dolore. Vedova e madre giovanissima con due figli, a loro volta divenuti genitori molto presto, già nonna nonostante i suoi cinquant'anni appena, vive dell'amore per la cultura del suo paese e nel ricordo di un marito molto caro. Un personaggio eccezionalmente inattuale. È lei ad avermi aperto la prima porta su Marsiglia dove vive la più grande comunità armena fuori dall'Armenia. La città ospita ben sedici chiese cristiano-armene perché questo popolo, come mi ha spiegato Emma, ogni qualvolta fondava una comunità cominciava dal centro religioso. Il Cristianesimo d'Oriente, incontrato nel suo gruppo di amici e conoscenti, mi ha fatto capire che avevo bisogno di allargare i miei confini fino a quando l'impulso è diventato irresistibile. Volevo andare incontro al mare, vedere dove e chi arrivava dalle coste africane, chi si fermava senza proseguire verso il centro e il nord della Francia. Decisi di trascorrere le prime settimane in albergo, per concedermi un po' di riposo, prendere confidenza con l'ambiente e cercare con calma un luogo dove restare. Forse a quel tempo ero più abituata a dormire nelle stanze degli hotel che a casa mia per necessità, come anche per virtù: l'ambiente estraneo con un via vai di altre solitudini, vere o presunte, mi aiutava a sentirmi meno sola. Decisi di andare al Grand Hotel Beauvau, proprio sul vecchio porto, un piccolo hotel storico, che nel corso del tempo ha respirato incontri romantici e convivi intellettuali. Sembra che fosse il teatro degli appuntamenti di George Sand con Frédéric François Chopin⁴.
Ho passato settimane girovagando senza meta nella città, in lungo e in largo, ritirandomi la sera nella mia stanza affacciata sul mare o nella caffetteria per guardare il tramonto e le navi in arrivo, il brulicare di un passeggio confuso e gioioso. A Marsiglia la gente si incontra per strada, nelle piazze, nei caffè, soprattutto per caso, con la voglia di raccontarsi, di confrontarsi. Ogni giorno che passava mi avventuravo un po' oltre, spingendomi sempre più a largo, come si fa in mare quando si prende confidenza con l'acqua. Solo che nel caso di Marsiglia, andavo indietro, allontanandomi dal mare. La città è femmina e, guardando il mare, l'ingresso ha la forma del ventre di una donna adagiata sulla schiena le cui gambe piegate, aperte, sono a destra la collinetta del quartiere popolare e brulicante di vita di Le Panier⁵; mentre a sinistra, la forma del ginocchio sale sulla Corniche verso Notre Dame de la Garde.
Con il passare dei giorni pensavo alla mia vita francese con la sensazione di essere in un altro paese, senza sapere esattamente dove ma certamente con l'idea di non trovarmi più in Francia. È stato soprattutto quando sono andata al mercato di Noailles, vicino all'hotel, alle spalle del porto, percorrendo la grande arteria della Canebière. Negli ultimi mesi avevo fatto la spesa di rado mentre ora, ad un tratto, pur essendo in albergo, avevo voglia di normalità e nostalgia dei souq che avevo visitato anni prima. Nei vicoli delle botteghe e delle bancarelle ero una delle poche donne, per non dire la sola, non velata. Ma il velo in Francia non era stato bandito?
Gli odori e i colori mi portavano lontano e guardando la statua di Giovanna d'Arco ho avuto un sussulto, quasi fosse una nota stonata. La contaminazione qui è un lambirsi di mondi che non riescono a fondersi e se alcune vie, piazze, locali, vetrine e musei parlano chiaramente francese, altri angoli ricordano le città del maġrīb.
È impressionante il cambiamento repentino di atmosfera nel quale ci si può imbattere, ad un incrocio, attraversando una piazza, girando intorno ad un palazzo: le due coste, a nord e a sud del Mediterraneo, per un momento si confondono.
Una domanda cominciava a farsi strada dentro di me: com'è possibile che due realtà si costeggino, giorno dopo giorno e non trovino una sintesi?
Forse ero solo io a cercare la sintesi. Passavano i giorni e quel guardare il mare da terra non mi bastava più. Mi ricordo, non la data, ma il momento in cui avvertii chiaro l'impulso a partire di nuovo. Volevo vedere, non tanto cosa ci fosse dall'altra parte, quanto scoprire come appariva la Francia da quel lato del mare. L'immagine con la quale mi ero svegliata una mattina era Alice nel paese delle Meraviglie, che attraversa lo specchio. Camminavo lungomare quando mi sono imbattuta nella vecchia stazione della marina, dove in passato erano trattenute le persone in quarantena, soprattutto dopo lo choc dell'episodio di un'epidemia di peste, venuta dal mare.
La nave Grand Saint-Antoine sbarcò a Marsiglia il 25 maggio del 1720 con un carico di stoffe e cotone dalla Siria e, una brutta sorpresa, la peste. A bordo il contagio era già avvenuto ma una terribile imprudenza causò il dilagare dell'epidemia in tutta la Provenza, giacché i sintomi del morbo, che avevano già portato alla morte nove membri dell'equipaggio, non vennero riconosciuti. Nel frattempo da Smirne arrivò l'autorizzazione allo sbarco. Oltre un quarto della popolazione fu decimato, con picchi che portarono a mille morti il giorno. Non è stata né la prima né l'ultima volta di guai venuti dal mare anche se probabilmente questa fu l'esperienza più virulenta. Una tragedia che ispirò diversi artisti e scrittori e tuttora nelle librerie si trovano molti testi dedicati a Marsiglia e, tra questi, diversi proprio sulla peste, forse anche in concomitanza con la rinascita della città, l'apertura di nuovi musei e il rilancio del turismo.
Proseguendo tra i miei pensieri, lungo la costa, e allontanandomi dal centro città, sono arrivata nella zona dei docks dove arrivano e partono le navi e ho sentito un richiamo sordo a prendre le large. In effetti, negli ultimi tempi – solo in quel momento ne prendevo coscienza – tornavo a casa per dovere ma non appena varcata la soglia mi sentivo smaniosa e malinconica come l'Ulisse di Tennyson⁶, lo sguardo sempre altrove.
Ora il mio altrove era a portata di mano. Ho deciso nello spazio di pochi minuti ma avrei dovuto attendere un mese per ottenere il visto e imbarcarmi per Algeri. Ho pensato di usare anche il mio secondo nome, Ειρήνη, Irène, sperando che la mia lontana origine greca ammorbidisse le frontiere. Come a dire, anche se sono francese vengo in pace in Algeria. Quel mese è stato uno dei più inquieti e densi della mia vita, passato a leggere e riflettere, in bilico tra lo stile della vita di sempre e la voglia di rompere con il passato. Mi sono messa a studiare arabo di buzzo buono con disciplina cartesiana, molto entusiasmo e una goffa ingenuità che mi faceva trascorrere ore nel mercato e in certi quartieri popolari sperando di abituarmi a suoni insoliti.
Gli alveari che pullulano d'immigrati, da decenni in Francia ma sempre stranieri, nel tragitto tra l'aeroporto e la città, mi hanno messo sull'avviso che le carte dovevano essere rimescolate, una volta per tutte. Nel mio paese quando ero nei loro
luoghi ero guardata con sospetto come una straniera, complice della loro ghettizzazione e, soprattutto, mi sentivo un'estranea. Mi chiedevo di chi fosse la colpa, chi avesse spinto quei disperati dentro un recinto diventato sempre più piccolo o se fossero stati loro stessi a essersi costruiti una staccionata intorno, per non perdersi e non confondersi con gli antichi nemici. Nei quartieri popolari, spesso degradati, vivono soprattutto algerini, e in genere maghrebini. Dovevo saperne di più. Il turno dell'Armenia sarebbe venuto poi.
NOTE
1 Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo.
2 naòs, letteralmente cella, la parte più sacra e interna del tempio greco, il cuore.
3 Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo, in questo libro il protagonista è una sorta di Bukowski francese.
4 Compositore romantico polacco, naturalizzato francese, si usa il suo nome nella versione del paese adottivo.
5 Il regno del commissario Montale.
6 L'Ulisse di Alfred Tennyson del 1833 è una composizione poetica che racconta un Ulisse vecchio e stanco, tornato a casa ma incapace di riadattarsi ad una vita che ormai avverte troppo stretta, nella sua Itaca. I versi sono un invito a coltivare l'Ulisse che è in noi.
LA TRAVERSATA
Metti la mano sul cuore,
ti farà male come farà male agli altri¹
Guardo l'orizzonte e sogno ma un nodo alla bocca dello stomaco si stringe. Sento la palpitazione di iniziare un nuovo percorso e l'ansia della traversata. Ho fatto una lunga ricerca su Internet e il biglietto non sembra affatto economico ma sono decisa ad arrivare ad Algeri per mare, sulle orme di Camus. Quai du Maroc, Terminal 1, Algérie Ferry, venti ore di navigazione senza scali. Purtroppo la partenza è fissata alle 12 che vuol dire che non vedrò il tramonto né su una sponda, né sull'altra. Nell'imbarazzo della scelta, mi sono decisa a prendere una poltrona, tanto per avere un appoggio: temo che stare in una cabina mi faccia sentire intrappolata. Non voglio restare da sola la notte. È molto caldo sul molo e vedo la gente addensarsi sulla banchina. Sono quasi tutti con le auto al seguito, carcasse stipate di bagagli di ogni genere e grappoli di bambini. Mi sento sempre più estranea. Soprattutto mi sento sola, più sola dei pochi che viaggiano senza compagnia, carichi di pacchi. Una volta a bordo non faccio neppure la fatica di cercare il mio posto. Lo farò più tardi. Finché si vede la costa voglio restare all'esterno, prendere un po' d'aria. Venti ore sono un'enormità. La nave, che da terra mi sembrava enorme, improvvisamente mi appare angusta. Il ponte si riempie di gente. Mi manca l'aria eppure, malgrado la temperatura alta, soffia un piacevole mistral.
«Ti va se ci muoviamo un po' e facciamo una passeggiata lungo lago?»
«Con piacere. La luce è calda a quest'ora anche se non sarà intrigante come quella di Marsiglia…»
Guardando la città in allontanamento colgo finalmente nella sua pienezza la luce del sud, quella dei pittori impressionisti, della loro smania di restare en plein air che in quest'angolo di Francia, ancora più che sulla Côte d'Azur o in Provence, si apprezza nella sua struggente bellezza. Prendendo il largo mi accorgo che nelle ultime settimane ho tenuto lo sguardo puntato ad altezza d'uomo, spesso rivolto a terra, dentro di me, cercando i percorsi, i tracciati.
Ora finalmente lo libero in alto. Il porto con la sua entrata tortuosa, le costruzioni del Fort Saint-Jean e Saint-Nicolas, la stratificazione dei secoli, mi appare l'incarnazione di un chiasmo mediterraneo che solo la natura è riuscita a realizzare, una sorta di denuncia e di chiamata alle armi per noi passeggeri distratti e arrabbiati. Qui la luce conserva la limpidezza e il nitore del nord, unendoli al calore del sud in un'armonia che incanta. In alto, sulla destra, si staglia l'immagine della statua dorata della Madonna che domina la cattedrale. Senza accorgermene una preghiera prende voce in me. È la prima volta che mi accorgo di essere cristiana.
Non mi guardare come a dire «anche i francesi hanno un'anima e qualche volta si commuovono.» In quel momento non mi sono chiesta se avvertivo la necessità di affidarmi a qualcuno, di credere in qualcosa o quanto ci credessi. Percepivo solo che il mio sentire, qualunque fosse – chiamalo senso religioso, del sacro, bisogno di consolazione, senso di impotenza – era cristiano. Una cristiana tra musulmani. Che banalità mi dirai. Ma io non stavo in mezzo a francesi musulmani, che siano cittadini o no è del tutto secondario, come in tante altre circostanze fortuite. Questa volta condividevo un'esperienza e mi sentivo guardata come l'altro, la minoranza o forse credevo di sentirmi così. Qualche volta anche essere emarginata ti fa sentire meno sola. In qualche modo sentivo di esistere grazie allo sguardo degli altri. Quegli sguardi, perplessi di alcune donne, desiderosi di certi ragazzi, carichi di curiosità dei bambini, volgari in un misto di disprezzo e attrazione degli uomini, erano comunque meglio dell'indifferenza. Circondata da occhi in movimento mi sono ricordata di Valentina, un'amica scultrice che dal nord dell'Italia si è trasferita a Parigi, città della quale apprezzava la riservatezza, il fatto che in Francia nessuno si faccia i fatti altrui, né chieda informazioni sulla vita sentimentale.
Oggi, invece, è proprio questo disagio dettato dall'indiscrezione che mi circonda su questa nave a farmi sentire umana, viva. Forse non sono già più in Francia. Risento dopo molte settimane il mio corpo come parte di me. Provo il bisogno di trovare un ancoraggio e frugo intorno con lo sguardo in cerca di complicità. C'è una ragazza giovane, carina, con il suo zaino enorme sulle spalle, un'aria fresca e sbarazzina. Viene subito avvicinata da alcuni ragazzi che rimette al loro posto con poche parole in arabo. Dev'essere un'algerina, non ci vuole molto per intuirne l'accento e, come apre bocca, perde d'improvviso il suo aspetto francese. Non so cosa le succeda ma è come se riprendesse le sue sembianze originarie. Ha la fierezza e anche un po' l'asprezza con quel misto di civetteria di chi conosce bene ruoli e confini.
La ragazza ha il corpo di una donna matura mentre il viso tradisce l'età acerba, i capelli setosi raccolti e fermati con una matita come fanno tante studentesse parigine in un vezzo che sembra distrazione. Il suo abbigliamento rivela il suo essere a metà tra le due sponde. Mentre sistema il suo sacco e altri pacchetti qualcosa le scivola di mano e io colgo l'occasione per aiutarla e attaccare bottone, deludendo un ragazzo che le faceva la posta da un po', meno veloce di me. «šhoukran jasilān, ismī Nedjma.»
La conversazione prende un ritmo serrato e gradevole senza indugi, nonostante la nostra differenza di età, di…tutto. Vuole sapere che ci faccia io lì. E una risposta vera non ce l'ho. Le dico che mi sono innamorata del sud e lei pensa ovviamente che stia raggiungendo un uomo. Mi chiede com'è e