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Ritorno alla patria
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E-book315 pagine4 ore

Ritorno alla patria

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Info su questo ebook

Lorenzo Viani pubblica nel 1929, per l'editrice Alpes di Milano, "Ritorno alla Patria", romanzo autobiografico con il quale vince, l'anno successivo, il premio "Viareggio". Qui l'autore rappresenta la drammatica esperienza della guerra e la sua dolente e tragica quotidianità.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2016
ISBN9788892593800
Ritorno alla patria

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    Anteprima del libro

    Ritorno alla patria - Lorenzo Viani

    L’autore

    Lorenzo Viani (Viareggio 1882-Ostia 1936) fu pittore, incisore e scrittore. Abbandonata la scuola fin dalle elementari fu garzone di barbiere. Qualche anno dopo, animatore di un gruppo anarchico chiamato Delenda Carthago, si iscrisse all’Istituto di Belle Arti di Lucca. Dopo un esordio come pittore della tradizione toscana di fine Ottocento, durante i suoi soggiorni a Parigi tra il 1908 e il 1910 rimase suggestionato dalle opere di Cézanne e dell’Espressionismo. Si fece notare come scrittore con una monografia su Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Ceccardo, 1922), ma in seguito la sua narrativa si caratterizzò per l’uso di personaggi bizzarri e di estrazione popolana e per l’uso di una linguistica fortemente intrisa di espressioni dialettali che portarono nella sua prosa, più che un accento realistico, un forte e ricercato lirismo. Tra le sue opere si ricordano le raccolte di racconti Gli ubriachi (1923), I Vàgeri (1926) e i romanzi di impronta autobiografica Angiò, uomo d’acqua (1928), Ritorno alla patria (1929) con il quale vinse il premio Viareggio, Il figlio del pastore (1930), Il Bava (1932), a cui va aggiunto il volume di ricordi Parigi (1925). Postumi sono apparsi Barba e capelli (1939) e i volumi di prose inedite Il cipresso e la vite e Il nano e la statua nera (entrambi del 1943). Negli ultimi anni della sua vita scrisse anche per diverse testate gionalistiche ed in particolar modo per il Corriere della sera.

    i primi letterari

    - 1 -

    Prima edizione ebook: aprile 2016

    © 2016 Partridge edizioni

    ISBN 978-88-925-9380-0

    Copertina elaborata da

    Alessandro F. Pernice

    da un opera di Lorenzo Viani

    Edizione elettronica realizzata da

    Alessandro F. Pernice

    LORENZO VIANI

    RITORNO ALLA PATRIA

    Romanzo

    a cura di Alessandro F. Pernice

    1.

    La Tradotta rullava nella profonda valle della Cisa tra una nuvola di bambagia, l’erbe e l’arie argentate dalla notte, che spolverava d’oro anche il cielo, velavano di spazio il rotolio del treno. I treni lontani sembravano fumate come si fanno nell’ottobre sull’aie, nelle prime giornate di stridore. I lumi delle stazioni, da anni appannati di celeste, quella notte avevano rimesso in giallo, ma rari come i fiori delle rape in un campo insidrito dal vento di marzo; anche sul mare, cielo capovolto verso l’abisso, le paranze avevano riacceso i fanali in vetta ai bompressi.

    I vagoni-bestiame erano stivati di soldati sonnolenti che, burattati dallo sconquassamento, si sentivano colare macinati sulle rotaie; la volontà intorpidita e il cervello sciambrottato rilassavano il senso alle membra pesanti. Qualcuno s’avvincava sul pancone, s’attortigliava al collo la mantella, sbadigliava, si tirava di peso sul compagno vicino.

    Su tutti i volti visibili era pace, anche su quelli incotti di terra e inselvatichiti di pelame. Il lezzo delle vestimenta negli attorcigliamenti risollevava la peste della trincea.

    La guerra era finita.

    — È finita! — vociava qualcuno sognando.

    — È finita! — rispondeva tal’altro.

    — Finita, finita!!…

    — Finita! — rispondevano dal vagone di coda.

    La Tradotta sostava ad ogni lume e quelli arrivati, già attruppati sull’apertura, dicevano:

    — Addio, fratelli! — Scendevano sconvolgendo il ghiaino, sparivano sotto l’ombra delle acacie verso il paese nativo.

    La piana di Versilia, oltre i greti e i poggi del Magra, appariva color del mare e vele aperte sembravano le case ammattate di stolli. La romba della fiumara ovattava il rotolio del treno; i campi d’erbe lupinare, quelli rotti dal vomere, le prata verdi sotto il cielo che s’era dilatato in larghi piani d’azzurro, volavano come fogli di carta colorata trasportati dal vento.

    Verso l’orizzonte restavano immoti sull’aie quadre i bovi già sotto il giogo. Nelle soste s’udivano i ranocchi sorseggiare l’acque stemperate di stelle, nella corsa i veloci intercolunni dei pioppi, con scie di bianco e di turchino, diacciavano l’aria. Per distrazione alcuno guardava fisso il cielo e componeva pentagoni di stelle, triangoli celesti, solidi d’azzurro e li poneva uno a spigolo dell’altro per misurare la profondità del firmamento. Quando l’alba spense tutto in un bianco lattato, apparve lontano il paese.

    La Torre di pietrami, annerita dai secoli, i campanili elevati sulle case, sparpagliati alla marina, stavano sul saluto.

    Sulle braccia del molo, immerse nella freschezza del mare, spiccavano i due fanali: quello verde di levante e quello rosso di ponente come due mazzi di fiori messi lì per festeggiare il ritorno.

    Tutti i paesani erano assiepati sull’apertura, molti tra loro non s’erano riconosciuti, e si guardavano e si scrutavano.

    — Ma sei te?!

    – Sì!

    — T’avevano dato disperso!

    — Quanti morti!

    — Italo l’ho sepolto io sulla Collina Quadrata; gli facemmo anche una croce; lo ritroverei tra cent’anni.

    — Antonio silurato sull’Intrepido!

    La campagna s’allargava, il mare diventava sterminato, i fiumi sulle sfociature diventavano d’argento.

    Un ardito s’alzò dal carnaio come un ferito da un cumulo di morti e parlò come gli uomini di pena:

    — Fratelli, siamo in vista del paese?

    — Sì, fratello!

    — Datemi la mano — e l’ardito stese la sua che era potata come un magliolo di vite.

    — Chi sarà? — si domandarono tutti sorpresi.

    L’ardito aveva il viso crivellato, accapponito dal vaiolo; una scheggia di granata gli aveva scassato una ganascia e gli scopriva un filare di denti, gli occhi aveva sforbiciati.

    — Chi sarà?

    L’ardito sembrava sbalordito.

    — Di quali sei, o fratello? — gli chiese uno battendogli una mano sulla spalla.

    — Come non mi ravvisate? eppure son segnato da Cristo: il beccato della Dina, il fratello del gobbo Bavarocchio e di quell’altro San Luigino.

    — Ma allora tu eri sperso là per l’Americhe!

    — Sì.

    — Ma di che classe sei?

    — Del settantacinque.

    — Allora noi non ti possiamo conoscere — dissero i giovani.

    — È lo stesso, sotto questa veste siam tutti fratelli.

    Quelli della sua classe lo guardarono e parlarono tra loro serii.

    — Ma in licenza ci sei mai stato?

    — No!

    — Ma le nuove dei tuoi le sai?

    — Sì: la mia famiglia è andata tutta in perdizione; son tutti là! — e la tradotta rasentava il cimitero del paese.

    I soldati, appena scesi, si sparpagliarono in fretta diretti alle loro case.

    L’ardito rimase solo: non sapendo a quell’ora dove far testa veniva giù pian piano.

    Il paese era ancora deserto, le case si schiarivano dei primi riflessi del cielo, sui tetti pigolavano grimi gli uccelli. Quando l’ardito fu sull’arcate del ponte gli si presentò davanti la darsena: vele gialle si aprivano tra i cordami e gli alberi dei bastimenti ormeggiati, qualche paranza si metteva alla vela portata dalla corrente alla marina. La prigione del paese: una torre di pietrame bigio tagliata a pentagono col tetto rosso, acceso dalle prime saette del sole; occupava buona parte del cielo. Le immagini che erano al pilastro della porta — Cristo trafitto sulla Croce, intriso di sangue e aureolato d’oro; la Vergine celeste ritta sul mondo, col serpe verde a cercine sotto i piedi rosa — erano ancora velate d’ombra. Gli uccelli ciuciurlavano tra i merli fioriti di semprevivi; la Torre cantava come un paretaio gigantesco; sul cornicione più alto un uccello bianco pareva battesse le ali sopra una graticola. L’ardito si fermò stupito, scrutò attento, sorrise, alzò una mano. Era un fazzoletto agitato da un detenuto che dalle celle, per le fessure della bussola, avendo scorto un soldato, lo salutava fremente.

    Dalla parte del fosso una donna scarnita a capo in sù affissava una grata alta.

    Il soldato traversò la piazza della pescheria: sui lastroni di marmo c’erano addormentati dei vagabondi che s’eran fatti il capezzale con il sacco dei lor cenci.

    I platani, in vent’anni, avevan buttato tanto che i ramoni erano oltre i tetti. Le strade, che davano al mare, erano bianche e listate di un fiocco celeste e su quel celeste filavano le vele tombate dal vento fresco.

    Il campanile di mattoni della SS. Annunziata, partito dalla luce, ardeva carminio dalla parte dei monti, diacciava violetto dalla parte che guardava il mare, la sua ombra celeste si allungava sulla canonica gialla e sulla facciata della chiesa.

    Quello di S. Francesco aveva l’acceso candore dell’avorio; il cobalto del mare tra le bifore, contrastava con i mozzi rossi delle campane: aculeato, sopra un fusto di bugnature grige, attingeva il cielo terso e profondo.

    L’ardito, col cuore diventato un gocciolone di sangue palpitante, spinse i passi verso la casa che fu dei suoi.

    Colossali rami di platani la ombravano di fogliame.

    Sul sogliòlo c’eran passati tanti e lo avevano adeguato al mattonato. Guardò le finestre, il tetto, le gronde aggroppate di nidi.

    Sperso là, per l’America, egli era volato tante volte col pensiero su questa casa. Tutto era cambiato, fuor che il segno di Cristo sull’architrave. Di sotto erano passati i suoi andando all’estremo riposo. Tre ombre umiliate parvero esultare nel fondo dell’andito scuro.

    La voglia di allargare il cuore lo portò verso il mare. Lo sterminato abbagliava. Le vele palpitavano come volandole d’oro sopra un campo di cielo. I gabbiani sciamando percotevano l’acque, l’aguglie sguisciavano argento. Tra Capraia e Montecristo aravano le paranze sconvolgendo il gran piano con albori lattati. Le meduse di cristallo, sepolte nel celeste, s’accendevano lampate dall’orate e dai saraghi.

    Di sull’impietrito i vecchi navarchi accennavano le golette, i brigantini, le tartane. I pennoni rastremati con trapezii sovrapposti alzavano torri saracine intorno a cui sciamavano come fantastici uccelli le vele triangolari. Oltre la Gorgona le ciminiere dei vapori eruttavano fumacee nere.

    L’immutabile vinse. L’ardito scompannandosi esalò il ferrigno delle belve intanate. Gli abiti incotti resero il bruciaticcio sanguinolento del Carso. Dei pipistrelli gli percossero la voltata del teschio… Veliki, Faiti, Palikisce. I bagliori si stemprarono. Il paese s’annientò sotto la grand’Alpe del Carchio.

    L’ardito agguantò una spranga del Faro ed ebbe l’illusione che il pietrame sollevato dal vasto palpito del mare lo portasse verso il suo sogno.

    I navarchi accennando l’ardito si chiedevano incuriositi: — Chi sarà?

    L’ardito era il secondo-genito della signora Dina: chiamavano così al paese una donna dal tipo imperiale. Il collo gagliardo ella aveva adorno d’un vezzo di coralli, dagli orecchi le dondolavano i pendenti d’oro fino, sui capelli ondati ci teneva infilzata una pèttina di tartaruga a raggera tempestata di perline. Una puntina di fil di seta cruda le aggraziava il volto altero con la frangia dei ricami screziati. Il cipiglio altero della gente di Liguria era sbalzato sul viso della signora Dina; le ciglia nere marcavano la cresta dell’orbita, gli occhi ardenti infiammavano la bocca sensuale. La signora Dina era stata tolta in isposa da un marinaro del luogo a cui piacevano le donne che parlavano poco e a denti serrati. L’uomo, navigatore ardito, che s’incimentava con le tempeste e gli uragani, un dì rimasto sempre ignoto, fu inghiottito dall’Oceano col barco e la ciurma mentre faceva vela per l’Americhe. La signora Dina aspettò tant’anni prima di alluttarsi. La vedovanza aveva scalpellato d’ambigua austerità il volto della signora Dina, la bocca sigillata e l’occhio impietrato nel taglio contegnoso pareva dicessero no a tutte le lusinghe carnali. Questi segni s’alteravano nel pomeriggio nell’ore in cui dàn volta i caratteri. Allora gli occhi folgoravano più vivi, la bocca sgallava come ceralacca bollente e fiatava folate d’alito caldo.

    La signora Dina, come sogliono nei paesi di Liguria, lavorava al tombolo sull’angolo della Piazza Grande. Sotto il movimento accorto delle dita, il traliccio dei fili, fermati dalle spille, fioriva di ricami preziosi. Nel pomeriggio la signora Dina, eretta sul busto solido come di cerro, aveva della pitonessa o della indovina. Molti ragazzi l’attorniavano attoniti; ciò faceva stridere i denti della signora Dina che, filando a tasto il lavoro, si voltava d’impeto e nel suo dialetto chiuso abbaiava:

    — Pau figgi du Diau. Figgi du ladron, paue, paue, paue!

    Il primogenito della signora Dina si chiamava Federigo ed era gobbo ed orbo. L’infermità lo colse in seminario proprio quand’era in procinto di dir messa novella; a cagione di ciò dovè lasciare il chiostro e mollarsi a bando nella vita. A Federigo i ragazzi gli dicevano bavarocchio perchè dalla bocca gemeva sempre fili di bava sbiacciuchente. Federigo aveva del domenicano sofista, l’alito gli sapeva di torcia a vento e di rogo, perchè dalle trombe del naso gli faceva rimbocco in gola la macuba. Sul viso smunto di Federigo grandeggiava il promontorio del naso sanguigno asprito di porri seccaricci, sul ponte gli ci s’erano incarniti gli occhiali spessi e sfaccettati come saliere che gli pentagonavano gli occhi incotti. La fronte gli s’era impietrita e la bocca, scalciata dai denti, digrumava di continuo. Federigo s’arrabattava vendendo giornali e oggetti minuti in un chiosco che era situato sull’angolo della Piazza Grande dove a giornate sane trafficava la madre. I ragazzi erano la sua dannazione; quando ne udiva qualcuno torno torno al chiosco, alzava la testa, il collo la faceva serpere di qua e di là, digrignando:

    — Dove sei, o malnato! — e se in quel momento qualcuno gli chiedeva un giornale Federigo lo pescava a tasto. Federigo era rabdomante ma lui sentiva l’acqua di cielo. Molte ore prima di un acquazzone gli prendeva un gran prurito nella gobba che lo faceva smaniare. Quando la prurigine gli dava la rósa sopra la cotenna rincallita anfanando e ringhiando si andava a grattare al calcio scabro di un platano fino a strapparsi la giacchetta.

    — Si gratta il gobbo.

    — Tra poco diluvia — urlavano le donne spaurite.

    — Via i panni dalle finestre, il gobbo fa come i delfini.

    — Quando s’arca il gobbo, tempesta prima di notte.

    Federigo era festaiolo di cappa e torcia. Non usciva processione, rogazione, viatico o funerale, che lui non fosse incappato. Tutto giallo ghineone, sembrava una tordea quando si spollina, con la mantellina color San Giuseppe, rosso lupinaro, pareva un pappagallo rimbozzolito, col collare celeste un verdone intignato. Ai funerali incappato di nero, col cappellone largo della Misericordia ricalcato fino alle ciocche degli orecchi sembrava un monatto sacrilego; quando attizziva la torcia sul selciato pareva un demone che desse fuoco alla terra.

    Tutte le confraternite lo riverivano perchè ne sapeva quanto un Pievano. Coi suoi discorsi, conditi di proverbi, e di latino, sapeva incutere la paura della Divinità. Federigo conosceva anche l’arte del negromante. Sapeva versare a modo e a verso l’olio dalla bocciuola della libbretta sul capo dei ragazzi stregati, incoronare d’aglio quelli colti dai vermi, e con tre parole turchine tagliava le code dei temporali, scongiurava i bruci. Anche sotto la cappa i ragazzi lo riconoscevano dagli scarponi nocchiuti. Tra di loro si dicevano piano:

    — Lui lì è il gobbo bavarocchio.

    — Malnati! — urlava Federigo di sotto il cappuccio e sembrava il miagolìo d’un gatto infilato nella cappa di un camino.

    Un giorno il gobbo s’introgolò d’amore:

    — Il mi’ gavorchio è innamorato come un gatto rosso — diceva ridendo la signora Dina.

    Dirimpetto al chiosco abitava una verginella bionda come le foglie del tiglio al lume settembrino, gli occhi ella aveva ceruli come i mattini d’aprile, le labbra avevano il colore e il profumo di una rosa, l’umidore della bocca aveva la dolcezza ambrata del miele. La donzelletta sfocata dalla cecità del gobbo, appariva con la evanescenza di una chimera, le movenze fuse nelle vestimenta di lino allucinavano Federigo che dentro il chiosco s’informava come un pesce grattale sciangottando parole insensate e sensuali. Con le mani scarnite s’avvinghiava il costato rignando:

    — Dov’è, dov’è — chiedeva ansante e bavoso a qualcuno che indugiava a leggere giornali al chiosco.

    — Chi?

    — Ah…. ah… è alla finestra.

    — Dove?

    — Là! — Il gobbo allungava il collo, alzava la gorgia, scorciava il capo, sgusciava gli occhi piombati di sotto gli occhiali appannati d’alito furibondo e colto dall’orticaia si fregava come un ciuco in amore.

    Un giorno in cui il gobbo smaniava, gli si narrò:

    — Ci fu un’orrido nano sterposo, sordo come un nodo, cieco e lercio che amò riamato una ragazza detta Esmeralda, dalle sembianze di quella che ti ha fatto invaghire te.

    Il gobbo sorrideva come i montoni quando annusata la pecora a capo levato la incalzano, la zuccano e leccano.

    — O va via!… — sbrodolava, e con gli occhi bevuti incalzava: — narra, narra!….

    — Ma lui la ghermì di nottetempo e la portò in vetta a un campanile:

    — Narra. — E poi Federigo rifletteva malinconicamente: — Un vero amore privo è di ardire e pieno è di rispetto.

    — Ma resterai con i pugni pieni di vento, ed altri coglierà i suoi pomi e la godrà… — urlava la demonia.

    — Ma specchiatevi — disse sconsolo il gobbo. Le braccia di scimmione scheletrito gli giungevano ai nodelli, la testa gli calò nel mezzo del petto, gli occhi sottovetro lucevano come quelli d’un polpo. — Specchiatevi! Io quando la scorgo faccio da riccio nell’uragano, m’accartoccio tutto.

    I peli del viso e i capelli del gobbo diventarono aghi, agrì tutto e gemè acqua schietta dalle labbra. Uno gli disse: — Passa.

    Il gobbo ululò: — Amore! — Passava invece una laida zoppa pitigginosa e sozza.

    I malvagi consigliarono il gobbo a simulare un suicidio.

    — Vai in corte di colei che ti fa smaniare, ti getti nella cisterna, al tonfo corre gente, t’augnano, tu ti duoli del disperato amore, lei s’intenerisce ed è tua, tua, tua!

    Una sera il gobbo delirante, andò in corte della sua vaga e si gittò nel pozzo. Precipitato da dieci metri fu bevuto e risputato fuori un braccio: — Aiuto — sgrogolò il gobbo e ribevve. Tirati i ganci dell’arsaglino il gobbo fu ripescato fradicio e gonfio d’acqua, il sangue gli era scoppiato dal naso e dagli orecchi. Tutte le finestre illuminate erano stivate di gente.

    — Chi è? — tutti chiedevano.

    — È il gobbo, ma riprende… ora gli fanno le fregagioni.

    — È amor che fa cesto — gridò una voce argentina. Una matta risata scoppiò quando un’uomo grande e grosso alzò il gobbo e lo sculacciò forte per toglierli lo spavento d’addosso. Due malvagi lo accompagnarono a casa tenendolo sotto l’ascelle — Coraggio, dromedario!

    L’indomani il gobbo, purgato d’acqua, colto da tremito convulso, con una camicia bianca di bucato stava aggomitolato nel chiosco. Nel tonfar giù in cisterna aveva perduto gli occhiali e gli occhi gli s’eran spenti, guardava coi denti: sulla fronte tumefatta ci aveva una pesca viola schiacciata.

    — Chi l’avrebbe detto che eri stufo della vita.

    — La volevi fare tre libbre col sacco.

    — Ti era preso le paturne, hai fatto quella accanto all’ultima! — Ognuno prendeva il perdono con Federigo.

    — Se pensava a voi questa non la faceva! — dicevano le donne alla madre. Ella sgusciava gli occhi, prendeva con due dita della mano sinistra il pollice della destra e faceva il gesto di strozzare una gallina, e gesticolava come per dire: aspettate! e spulciava il tombolo.

    — Lo pelo, il pazzo e porco.

    La sera il gobbo andò in chiesa, si prostrò davanti a Gesù Nazzareno, si dolse e chiese perdono, si tagliò il petto in croce, leccò il pavimento.

    All’ultimo figlio, Filiberto, gli dicevano San Luigino perchè aveva il candore, il profumo e la castità di un giglio. Sul viso di spermaceto s’accendevano due grandi occhi cerchiati di viola e spolverati di carbone. Di continuo tristo, il ragazzo, teso sulle coltri, popolava di spettri i neri che davano nelle stanze buie. Il terrore lo costringeva col capo delirante sotto le coltri, e quando lo sollevava per non soffocare, colava sudore come una candela accesa contro vento. Gli occhi aveva dilatati sul viso infiammato e i denti si ripercotevano convulsi, poi, estatico, freddava come il ferro bollente e diventava tutto toni celesti.

    Per la sua corporatura esile, non fu stradato a verun mestiere, fiorì in una chiesetta, dal cui tetto pendeva la corda della campana che suonava a naufragio. Quando il ragazzo aveva dato il tocco d’allarme si sedeva sfinito sopra un pancone e fantasticava sulla perdizione.

    Il secondo-genito della signora Dina si chiamava per nome di battesimo Amedeo, ma la gente gli diceva il Tarmito perchè, da bimbo, un attacco di vaiolo nero gli aveva pertugiato il viso. Amedeo per quella sua faccia ingiuriata dalle crivellature del morbo era noto a tutto il paese, tantopiù ch’egli aveva sposato l’idea dell’Anarchia. La signora Dina lo aveva, come gli altri, istradato sulla via della religione, ma Amedeo s’era traviato.

    — Umiliati, temerario! — Queste parole la signora Dina ripeteva spesso ad Amedeo, il quale taceva e restava nella sua fissità.

    Essendo il più quartato dei fratelli lo avevano mandato ad un mestiere.

    Il Tarmito diluviava il pasto. L’aria salmastra, il vento marino, la resina dei pini, respirati dall’alto del ponte ov’egli lavorava di muratore gli logoravano lo stomaco, a mezzogiorno bramava avido cibarsi. I fratelli non si potevano mettere alla bocca un rutto di radice, se prima non dicevano sommessi delle preghiere guidati dalla madre. Il gobbo aveva stabaccato una mattinata e Filiberto sentiva l’odore dello sparmaceto in gola.

    — Par che tu non abbia mai veduto terra scoperta! — malignava il gobbo.

    — Qualche volta resterai così! — e la madre con due dita si faceva un capestro alla gola. Quando i tre invasati s’erano vuotati il gubbio, si riponevano a tavola. Il Tarmito non alzava la testa dal piatto.

    La signora Dina asseriva che Amedeo era stato sviato dai compagni. — Segno e santo di croce, mi piglierebbe la tentazione di spengere quel tizzo d’inferno. Signore perdonatemi.

    Presa da un’improvvisa mattana urlava: — Farei un pianto solo,… uno solo… O gente uditemi! uno solo. Gesù Cristo re dei Giudei, dò in mattia.

    La signora Dina nella disperazione sollevava le braccia e scioglieva i capelli come una pazza.

    — Non lo vedi come si tapina per te!

    — Muoviti a compassione… le belve del deserto han più cuore di te…

    — Taci, taci, figgin du ludron, pazzo e porco — gli urlava la madre avvampata.

    — Allora tapinati, tapinati, ne hai ben donde e urla— Mea culpa, mea massima culpa.

    Il Tarmito affissava, con gli occhi maculati in verde, i suoi come il nibbio gli uccelli di nido, i fratelli sciangottavano e si mordevano la lingua, la madre sbracciando pareva li proteggesse con i tronconi. Il gobbo si spennava al muro e Filiberto agganghiva come le cintine.

    — Per via di te, usello du cattivo augurio! — soffiava la madre. Il Tarmito trafitto pareva avesse alle froge le muragne e aveva le movenze di un toro.

    La madre e i fratelli colti da terrore gli accennavano un Crocifisso imbullettato al muro.

    — Pensa che se ci levi il rispetto sei annientato, sprofondi qui.

    — Pensaci! — sbraitava il gobbo.

    Poi i tre accaldati e sudati si riponevano a tavola. Il Tarmito spaziava fuor di finestra inseguendo i frulli dei rondoni.

    — Cosa specula là? — e i tre guardavano fuori sospettosi.

    Dopo poco si riudiva la voce schiappata di Federigo, quella di rota della

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