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La profezia delle pagine perdute
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La profezia delle pagine perdute
E-book408 pagine4 ore

La profezia delle pagine perdute

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Info su questo ebook

Un grande thriller storico

La nuova avventura del mercante di libri maledetti

Ignazio da Toledo è morto. O almeno questo è ciò che racconta Uberto, suo figlio, quando, nel luglio del 1232, raggiunge la corte di Sicilia nella speranza di riabbracciare la sua famiglia. Palermo, tuttavia, sarà per lui l’inizio di un nuovo incubo. Se di sua madre si sono perse le tracce, sua moglie e sua figlia sono tenute prigioniere in un luogo ben celato. Il loro carceriere è Michele Scoto, astrologo personale dell’imperatore Federico II, convinto che il mercante gli abbia sottratto e nascosto un libro misterioso, la leggendaria Prophetia Merlini. Uberto ignora che le sue disavventure siano intrecciate a quelle di un uomo senza passato che sta navigando su una nave di pirati barbareschi lungo le coste dell’Africa settentrionale e del mar Rosso. Il suo nome è Al-Qalam e, obbedendo gli ordini di un crudele capitano, è alla disperata ricerca di un tesoro inestimabile e capace di legare Dio all’uomo, un tesoro donato in tempi remotissimi da re Salomone alla Regina di Saba. Mentre Al-Qalam lotta per ritrovare la sua identità e Uberto per salvare la madre, Sibilla tenta con ogni mezzo di ricongiungersi alla famiglia e di sfuggire all’acerrimo nemico di Ignazio da Toledo, lo spietato frate domenicano Pedro González…

La saga italiana più venduta nel mondo 
Ai primi posti delle classifiche 
Un autore da un milione e mezzo di copie 
Vincitore del Premio Bancarella

«Confesso che ho un debole per la prosa di Marcello Simoni.» 
Antonio D’Orrico 

«Il principe del giallo storico all’italiana.»
la Repubblica 

«La cultura medievistica di Umberto Eco riverbera luminosa sulla narrativa di Marcello Simoni.» 
Il Messaggero 

«Come sempre Simoni coinvolge e cattura l’attenzione. Solo lui, tra i giallisti storici italiani, sa stupirci con innata maestria e assoluto rispetto del contesto epocale.» 
La Stampa
Marcello Simoni
È nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, suo romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in diciotto Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi bestseller tra cui la trilogia Codice Millenarius Saga e la Secretum Saga. La profezia delle pagine perdute è l’attesissimo seguito della saga che narra le avventure di Ignazio da Toledo, l’astuto mercante di libri, che ha consacrato Marcello Simoni come autore culto di thriller storici, vendendo oltre un milione e mezzo di copie.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2021
ISBN9788822745866
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    Anteprima del libro

    La profezia delle pagine perdute - Marcello Simoni

    Prologo

    Anno Domini 1232, mese di maggio

    I due fuggitivi cavalcavano da giorni attraverso i boschi di Navarra. Coperti da mantelli e da ampi cappucci, si erano avventurati in sentieri sempre più impervi, tenendosi alla larga dai villaggi e persino dai capanni isolati che di rado spuntavano tra le ombre delle querce.

    Ombre che parevano non finire mai.

    Col suo tenue baluginare tra le fronde, la luce diurna si riduceva a una presenza quasi spettrale, mentre le notti sembravano rinnovare dopo ogni tramonto la promessa di un eterno oltretomba. Ed era proprio in quei momenti, al calare della palpebra del sole, che le ansie dei due compagni si facevano più pungenti. Soprattutto nella donna. Bastava il rumore di un ramo spezzato o un frullo d’ali perché quest’ultima si voltasse di scatto per accertarsi di non avere inseguitori alle calcagna. L’uomo invece manteneva uno spirito più saldo, benché non esitasse, di tanto in tanto, a cercare con la mano destra il conforto della scimitarra che portava appesa alla schiena.

    Procedevano uno di fianco all’altra, scambiandosi qualche cenno o parola solo all’occorrenza. Del resto, c’era ben poco di cui discutere. Anziché fingersi pellegrini e risalire il Camino Francés fino alla Guascogna, come previsto all’inizio della loro fuga, avevano deciso di spingersi a nord, verso il golfo di Biscaglia, con l’intento di imbarcarsi sulla prima nave diretta alla costa andalusa. Prendere il mare, si erano detti, rappresentava non solo il modo più rapido per lasciare l’Hispania, ma anche il più efficace per far perdere le loro tracce.

    Il mare, d’altro canto, aveva per la donna un significato più profondo. Era al di là di quella distesa color ardesia che si nascondeva la sua famiglia e l’idea di varcarne i confini la faceva sentire in procinto di raggiungerla, qualsiasi rischio fosse stato necessario correre.

    «Mia signora!», esclamò d’un tratto il compagno.

    A quel richiamo lei si accorse di aver spronato il cavallo oltre il dovuto, quindi strattonò le redini, notando subito dopo che la boscaglia andava diradando. Una decina di passi più avanti le chiome degli alberi si aprivano, offrendo la vista di uno specchio d’acqua verdastra ammantato di foschia.

    «Una palude», sentenziò l’uomo, frenando il destriero.

    «Un intoppo, ecco cos’è!», protestò la donna, dando voce alla sua inquietudine, mentre osservava i tronchi nodosi che affioravano come dannati dal lago di melma.

    Fra di essi, nel bel mezzo del grigiore, si coglieva il barlume di una lanterna fissata alla prua di una barca lunga e sottile. Lo scafo era immobile, o si muoveva con una tale lentezza da apparire tale, e l’unica presenza che lo occupava, una sagoma nera e ingobbita, stava trafficando con chissà che cosa a bordo.

    La donna non aveva ancora staccato gli occhi da quella lugubre figura che sentì il suo compagno stramazzare al suolo con un grido di dolore. Agendo d’istinto, scese di sella e si precipitò a soccorrerlo, accorgendosi con trasalimento che aveva un dardo conficcato nella spalla.

    «No, non badate a me!», fece per rialzarsi l’uomo. «Andate via, fuggite!».

    Proprio in quel momento un secondo dardo fischiò nell’aria, costringendo entrambi ad acquattarsi sull’erba, dopodiché giunse alle loro orecchie un risuonare di voci e un abbaiare di cani che incombevano dal cuore della macchia.

    Sono loro!, pensò la donna. Ci hanno trovati! Ma fu solo quando rivolse lo sguardo verso la palude che capì di essere in trappola.

    Il figuro sulla barca stava ora ritto e la teneva sotto il tiro di una balestra.

    Fu l’ultima immagine che le rimase impressa nella memoria.

    Prima che un colpo alla nuca le ottenebrasse i sensi e l’intelletto.

    PARTE PRIMA

    IL VIANDANTE DAL MARE

    E in quel giorno si separarono due belve marine: la belva femmina, di nome Leviatan, affinché dimorasse nell’abisso del mare, sulle sorgenti dell’acqua. E il maschio si chiama Behemot, colui che occupa col suo petto quel che non si vede nel deserto.

    Libro di Enoc,

    X

    , 7-8

    Un abisso chiama l’abisso

    al fragore delle tue cascate;

    tutti i tuoi flutti e le tue onde

    sopra di me sono passati.

    Salmo 42, 8

    1

    Regno di Sicilia

    21 luglio 1232

    Solo un’altra volta Uberto aveva visto così tanto oro. Era accaduto a Venezia, davanti ai mosaici della basilica di San Marco. Il primo viaggio intrapreso insieme a suo padre, quando ancora ignorava che fosse suo padre.

    Si abbandonò per un attimo a quel ricordo, sfiorato dalla nostalgia. All’epoca era un ragazzino fremente per la curiosità di conoscere il mondo, e ora di quella curiosità era a dir poco sazio. Troppi sacrifici aveva compiuto, troppi rischi aveva corso per guadagnarsi uno scampolo della sfuggente verità che la maggior parte dei suoi simili ignorava.

    Ma anche alla luce di una simile consapevolezza, e nonostante fosse logorato dal lutto, dal senso d’attesa e dalla spossatezza per il molto navigare, non poteva esimersi dal contemplare la magnificenza della cattedrale di Monreale. Proprio come a Venezia, le alte pareti delle navate rifulgevano di mosaici dorati dedicati alle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. Scene di sapore insieme bizantino e normanno, seppur intrise di un indefinibile sentore di moresco che, quasi a prendersi gioco della sua fede cristiana, lo faceva sentire a casa, in Hispania.

    «Álvarez!», lo chiamò una voce proveniente dal portale.

    Uberto si voltò in quella direzione e, sorvolando sui pochi monaci radunati nei pressi della controfacciata, notò un uomo che aveva appena varcato l’ingresso. Alto, fasciato da una elegante tunica nera che malcelava un corpo dalle forme magre e spigolose, camminava verso di lui senza mostrare interesse né ai saluti riverenti dei religiosi né alle narrazioni di metallo prezioso istoriate intorno a sé.

    «Álvarez!», ripeté l’individuo con piglio autoritario. «Siete proprio voi?».

    L’ispanico si limitò ad annuire.

    «Siete in ritardo di oltre una settimana», protestò l’uomo in nero non appena gli fu di fronte. L’odore di spezie emanato dalle sue vesti era così intenso da offuscare i sensi. «Per quale ragione mi avete tenuto tanto sulle spine?»

    «Uno scalo imprevisto a Beiaïa, sulle coste di Calibia», spiegò Uberto, mentre studiava di sottecchi quel volto inquisitore.

    «Il porto di Beiaïa?», rimuginò l’altro, guardandosi intorno in un crescendo di sospetto. «Per quale genere di merce?»

    «Chiedetelo al capitano della nave su cui ero imbarcato», si strinse nelle spalle il viaggiatore. «A voce di ciurma, si sarebbe arricchito con il contrabbando».

    L’uomo in nero sorrise. «In tal caso vi sarete sentito a vostro agio».

    Solo allora Uberto fu colto da una sensazione di familiarità. Quel sorriso pieno di allusioni, fatto più per ferire che per cercare un’intesa, poteva appartenere solo a Michele Scoto, il sommo magister della corte di Sicilia nonché astrologus personale dell’imperatore Federico

    II

    di Svevia. I due anni trascorsi dal loro precedente incontro si erano accaniti con eccessivo zelo sui suoi linea-menti, cesellando le rughe intorno agli occhi e arando alla guisa d’un vomere la fronte, ora incorniciata da capelli non più corvini ma striati di grigio.

    Prima che l’ispanico potesse rispondere per le rime, l’uomo sbirciò oltre le sue spalle e soggiunse: «Dov’è vostro padre? Mi aspettavo di trovarlo qui con voi».

    «Ogni cosa a suo tempo», tergiversò Uberto, sforzandosi di non lasciar trapelare il cordoglio che gli zavorrava il cuore. «Conoscete bene l’urgenza che mi ha obbligato a cercarvi, e pur conoscete il tormento che non mi dà requie da quando ho dovuto indossare questa cenciosa cappa da pellegrino».

    «Li conosco, è vero, sia l’urgenza che il tormento», confermò l’astrologus mentre con apparente condiscendenza lo invitava a ripiegare sotto gli archi di una navata laterale per sottrarsi agli sguardi dei monaci. «Anche se, a esser franchi, li conosco non tanto grazie allo striminzito messaggio che mi avete inviato prima di salpare da Rabat, quanto alle parole che ho udito dalla bocca di vostra moglie».

    L’ispanico abbassò di colpo la guardia. «Intendete dire…», mormorò con un’emozione di giubilo che gli esplodeva nel petto. «Intendete dire che mia moglie e mia figlia sono…».

    «Sotto la mia custodia e in perfetta salute», annuì lo Scoto, per poi aggiungere in un crescendo di complicità: «Ammetto di averle trovate assai provate quando, circa un mese fa, sbarcarono da un mercantile male in arnese sul molo di Palermo, ma non dovete dubitare che io abbia saputo accudirle, né che abbia cercato di comprendere la natura delle loro tribolazioni. In altre parole, sono al corrente del complotto ordito contro vostro padre e delle accuse che hanno costretto i vostri cari a fuggire dall’Hispania».

    «Non accuse, ma calunnie», si affrettò a precisare Uberto, diviso tra la gioia di scoprirsi finalmente vicino alle sue congiunte e la sete di giustizia per i torti subiti dalla sua famiglia. Per un istante quel secondo pensiero prevalse su tutti gli altri, sferzandogli l’anima con la violenza di una staffilata. «E mia madre?», chiese d’impulso. «Ci sono notizie di lei?».

    L’astrologus scosse il capo.

    Uberto ignorava a quale destino fosse andata incontro Sibilla. Pregò Dio che Willalme avesse saputo proteggerla e trarla in salvo. Poi non fu più in grado di tenere a freno le emozioni. «Chiedo venia, ma ho aspettato fin troppo. Il desiderio di riabbracciare mia moglie e mia figlia m’impone di non indugiare oltre il dovuto».

    «Un desiderio più che giustificato», convenne l’astrologus. «Ma, a scanso di equivoci, se intendete realizzarlo dovrete prima rispondere a delle domande».

    Il viaggiatore lo fissò in tralice, scoprendo un bagliore d’inquietudine nel suo sguardo. «Non potrei rispondere», propose, «mentre mi accompagnate da Moira e da Sancha?»

    «Accompagnarvi!», rise tra sé lo Scoto. «Mi avete forse preso per un valletto? È già molto che abbia acconsentito a incontrarvi di persona in questa cattedrale, esponendomi alle occhiate indiscrete dei monaci e delle spie del vescovo. Muoverci insieme per le vie affollate di Palermo sarebbe oltremodo rischioso».

    Uberto ignorava a quale genere di rischi alludesse, anche se era più che risoluto a risolvere in fretta la questione. «Ebbene, vuotate il sacco!», dichiarò. «Se i quesiti che vi assillano debbono essermi d’intralcio, provvederò subito a scioglierli».

    Michele Scoto non se lo fece ripetere. «Come immaginerete», spiegò, «io non mi aspettavo di dover accogliere in Sicilia dei fuggitivi. Non era negli accordi, per così dire, stretti con vostro padre».

    «Mi rincresce per l’incomodo», si scusò Uberto, «ma a causa delle sventure occorse alla mia famiglia, non c’era altra scelta che cercare rifugio presso la corte in cui mio padre ha operato negli ultimi due anni. Operato sotto la vostra autorità, per giunta».

    «È appunto vostro padre la chiave della questione», rimarcò lo Scoto, con l’aria di chi si era arrovellato fin troppo nell’attesa. «Ho urgente bisogno di parlargli. Molto urgente! È solo per questo motivo che mi sono degnato di accogliervi di persona. Comprenderete pertanto la mia delusione nel momento in cui, varcando la soglia di Monreale, mi sono imbattuto non in Ignazio da Toledo, bensì esclusivamente in suo figlio. Lungi da me il volervi offendere o sminuire, sia ben chiaro, ma da quando vi sto di fronte non faccio che chiedermi per quale ragione vostro padre non sia qui con voi! Ebbene, dove l’avete lasciato?»

    «Mio padre…», mormorò Uberto.

    D’un tratto si rese conto di quanto fosse difficile pronunciare delle parole che non aveva mai formulato nemmeno dentro di sé nei momenti di maggior angoscia, quando giaceva nella pancia della nave che l’aveva portato lontano dal teatro della sciagura. Quasi che il semplice pensarle, o sussurrarle, significasse chiudere una porta. Dire addio per sempre. Sigillare il sepolcro.

    Infine, pungolato dallo sguardo inquieto dell’astrologus, si sentì costretto a confessare: «Mio padre è morto».

    2

    «Ignazio da Toledo è morto?», ripeté Michele Scoto in un lampo d’incredulità.

    Uberto annuì.

    «Per l’ira degli angeli… come è potuto succedere?»

    «È difficile da spiegare».

    «Ma siete almeno sicuro di quanto affermate?»

    «L’ho visto con i miei occhi», confermò Uberto, col tono cupo di chi si era appena destato da un incubo. «Per molti giorni ho seguito le sue tracce per l’Hispania e poi per le terre di Barberia, lungo la costa bagnata dal mare Oceano. Ignoravo quale fosse la sua meta, o da quale nemico stesse fuggendo, finché non l’ho ritrovato su un’isola… L’Isola Perduta, la chiamano alcuni viaggiatori. Un’iso-la che non è segnata in alcuna mappa… Ebbene, ho raggiunto mio padre in quel luogo remoto, ma troppo tardi!».

    «Troppo tardi per cosa?», lo incalzò l’astrologus.

    «Troppo tardi per salvarlo da un crollo», spiegò Uberto, imponendosi di non tremare. «Il crollo enorme e devastante di una machina color alabastro talmente bizzarra che ancora adesso, nell’evocarne il ricordo, mi riesce impossibile afferrarne lo scopo e finanche descriverne la forma».

    «L’Isola Perduta, la sfuggente Antilia…», rimuginò lo Scoto, mentre digrignava i denti in una smorfia lupina. Una smorfia che crebbe di ferocia mentre si avvicinava a una colonna di granito e vi batteva un pugno contro. «Ignazio da Toledo», sentenziò, «tu sia maledetto!».

    L’imprecazione fu sovrastata dal canto dei monaci che si erano appena raccolti nell’abside per intonare le laudes matutinae. Uberto, tuttavia, riuscì ugualmente a coglierla e presagì che le sue sciagure non fossero ancora giunte al termine.

    Domine, ne in furore tuo arguas me

    neque in ira tua corripias me…

    Le voci della schola cantorum risuonarono quasi brutali fra le navate d’oro di Monreale. L’ispanico riconobbe il versetto. Era l’incipit del salmo trentottesimo, detto dell’angoscia. I suoi occhi, nel frattempo, restavano fissi sullo Scoto, che pareva improvvisamente posseduto da un segreto struggimento.

    «E adesso a chi mi dovrò appellare?», continuava l’astrologus, quasi si rivolgesse a una terza persona. «Forse a Belzebù? È al guardiano dell’inferno, scellerato d’un mozarabo, che dovrò inviare messaggeri per carpire i tuoi segreti?».

    Uberto si guardò intorno per sincerarsi che in quell’ala della cattedrale non vi fosse altri che loro due, quindi tornò a scrutare l’uomo in nero. Parla a mio padre, si disse sbalordito. È a lui che indirizza i suoi improperi.

    …quoniam sagittae tuae infixae sunt mihi,

    et descendit super me manus tua…

    «Miserabile ribaldo…», non smetteva di ruminare lo Scoto. «Se al mondo c’è un infame che meriti di bruciare nei più tetri recessi dell’inferno, quello sei tu! Tu, vile traditore che non sei altro…».

    «È questo il rispetto che un ministro della corte di Sicilia usa mostrare ai defunti?», lo zittì Uberto, al limite della sopportazione. «Di quale crimine si sarebbe macchiato mio padre per meritarsi di essere vilipeso anche dopo la morte?»

    «Oh, lo saprete!», gli si rivoltò contro l’astrologus. «Lo saprete, potete contarci! Se infatti è vero quanto affermate, cioè che Ignazio da Toledo non sarebbe più tra i viventi, spetterà a voi, suo figlio!, riparare ai misfatti che ha compiuto!».

    Erano rare le occasioni in cui Uberto aveva visto una simile collera traboccare dalle iridi di un uomo, e ancor più rare quelle in cui tale collera si era presentata sotto forma di una cattiveria fredda, meditata, anziché esplodere in una manifestazione di furia. Se Michele Scoto fosse stato un animale, si disse, avrebbe di sicuro esibito la pelle squamosa e la pupilla vitrea di un rettile. «Ebbene», non esitò a fronteggiarlo, «parlatemi di questi misfatti».

    «Non ora, e di sicuro non tra siffatte mura», arretrò lo Scoto, quasi che l’intensificarsi del canto sacro avesse agito su di lui come un esorcismo. Guardò con astio verso l’arcata dell’abside, infine si rivolse di nuovo all’ispanico. «Fatevi trovare ai vespri presso San Giovanni degli Eremiti, e saprete tutto».

    «San Giovanni degli Eremiti…», ripeté Uberto, sconcertato da quel repentino cambio di atteggiamento. «È là che incontrerò mia moglie e mia figlia?».

    L’astrologus gli rivolse un’ultima, indecifrabile occhiata di commiato, e senza degnarsi di aggiungere alcuna spiegazione se ne andò a passi svelti, accompagnato da uno dei versi più angosciosi del salmo.

    …Afflictus sum et humiliatus sum nimis;

    rugiebam a gemitu cordis mei…

    I versi di un uomo che cantava le sue tribolazioni a Dio.

    Uberto ebbe l’impressione che fossero usciti dal suo cuore.

    3

    Invano cercò di sfuggire alle note funeste della schola cantorum. Dopo che fu uscito dalla cattedrale, sotto il sole cocente, Uberto continuò a sentirle risuonare dentro la testa mentre scendeva per le vie di campagna che si estendevano dal borgo di Monreale alle mura di Palermo. Ne avvertiva il peso come se fossero una maledizione, un’ombra nefasta che si allungava sul viavai di quel tratto di strada, tra gente a piedi o a dorso di mulo, chi diretto alla città e chi proveniente da essa. Di nessun sollievo gli era lo spettacolo dei monti e degli agri rigogliosi di agrumi, di viti e di carrubi tra i quali spuntava, di tanto in tanto, la schiena curva di qualche contadino.

    Più di ogni altra cosa, non tollerava di essersi lasciato scappare lo Scoto senza prima scoprire dove si trovassero di preciso Moira e Sancha, né tantomeno di quale crimine si fosse macchiato suo padre. Non che avesse avuto scelta, rifletteva. Correva voce che l’astrologus godesse di tale stima presso l’imperatore da influenzare sia le sue scelte personali, sia quelle diplomatiche e militari. Sarebbe stata follia pensare di trattenerlo contro la sua volontà, o addirittura di costringerlo a riferire dettagli di cui non intendeva parlare, senza incorrere in gravi conseguenze.

    Conseguenze che, d’altra parte, non avrebbero tardato a palesarsi. A dispetto della giornata radiosa che illuminava il paesaggio, Uberto le vedeva addensarsi davanti a sé come un fronte di nubi tempestose. E più si avvicinava alla città, più quelle nubi si facevano cupe.

    Che l’anima di suo padre riposasse in pace, meditò con sconforto, ma a quanto pareva il più grande talento di Ignazio da Toledo, ossia l’ingarbugliare situazioni già ingarbugliate, non veniva meno neppure davanti alla morte! E a giudicare dall’atteggiamento di Michele Scoto, la situazione doveva essere enormemente ingarbugliata. L’astrologus infatti non si era solo lasciato sfuggire la parola segreti, ma aveva anche accennato a dei rischi.

    Gravato da quell’incessante rimuginare, Uberto attraversò il suburbio che sorgeva davanti alla cinta difensiva di Palermo, notando come fosse stretta, sia a nord che a sud, tra monti boscosi, quindi proseguì per una porta-bastione che consentiva di oltrepassare le fortificazioni.

    Dalla sua precedente visita a quella città, ricordava che il monastero di San Giovanni degli Eremiti sorgeva nel quartiere centrale del Cassaro, a pochi passi dal palazzo regio, ma appena ebbe varcato le mura si rese conto di non conoscere Palermo come credeva. Sapeva unicamente di aver messo piede nell’al-rabad, il sobborgo aggrovigliato come un labirinto intorno al Cassaro. Ma orientarsi in una simile Babele di lingue e di razze, tra il berciare dei mercanti di strada, gli accattoni, i vicoli angusti e i tendoni delle botteghe gli parve un’impresa quasi impossibile, senza contare che doveva sempre stare all’erta per non diventare preda di qualche tagliaborse.

    Quello smarrimento, d’altro canto, era attenuato dalla sensazione di familiarità che Uberto si portava appresso da Monreale. Entro le mura di Palermo, la commistione tra Oriente e Occidente sfiorava a dir poco l’opulenza, concedendo ampi spazi al gusto moresco nei punti in cui le architetture normanne si vestivano di ceramiche variopinte, sviluppavano loggiati dagli archi a ferro di cavallo o sbocciavano in cupole simili a quelle dell’Hispania musulmana.

    Ma fu solo ai rintocchi dell’ora sesta, quando buona parte del popolo si ritirò per il pranzo, che Uberto ebbe finalmente respiro. Con meno gente ad affollare le strade, riuscì a capire in quale punto della città si trovasse e, dopo aver seguito il perimetro di una muraglia merlata e superato un ponte che scavalcava le acque argentee di un torrente, raggiunse la parte nobile del Cassaro, la Galka, dominata dalla mole del palazzo regio e da una quantità di torri di guardia che le conferivano il carattere di una cittadella militare.

    Rinvigorito nello spirito da quel progresso, l’ispanico proseguì a lunghe falcate verso la sua meta e, dopo un paio di svolte, s’imbatté in un campanile dotato di una cupola rossa che lo faceva sembrare un minareto. Quattro altre cupole del medesimo colore coronavano il fabbricato adiacente, un mastodontico cubo in blocchi di tufo che soltanto la presenza di un capannello di monaci sul suo portale qualificava come monastero cristiano.

    A Uberto bastò uno sguardo per riconoscere San Giovanni degli Eremiti. Ma anche se quell’edificio gli fosse stato ignoto, avrebbe comunque avuto certezza di essere giunto nel posto giusto.

    In mezzo ai monaci c’era un vecchio avvolto in una djellaba turchese. Canuto e malfermo, declamava con voce burbera il contenuto di un libro, sistemandosi con vezzo dottorale i bizzarri vetrini rotondi che portava a cavallo del naso.

    «Per le piaghe del Salvatore!», esclamò Uberto, allungando il passo in direzione di quel vegliardo. «Dunque siete ancora vivo!».

    4

    «Che?», sobbalzò Asclepius. «Vivo, io? Accidenti a voi, messere, non si vede? Ma se sono i morti a suscitarvi tanto interesse, permettetemi d’indirizzarvi alla strada per i sepolcri!». Serrato il libro, brandì il bastone nodoso che teneva sotto l’ascella e lo puntò contro l’uomo con la cappa da pellegrino che gli aveva appena rivolto la parola. Ma quando lo guardò in faccia trasecolò. «Uberto… Uberto Álvarez?!».

    L’ispanico annuì con un sorriso. L’ultima volta che aveva visto quel vecchio berbero era stato a La Coruña, il porto di Santiago de Compostela, la precedente primavera. Il giorno in cui gli aveva affidato sua moglie e sua figlia.

    «Mi prenda la gotta se contavo di rivederti!», soggiunse il vegliardo, guardandolo come se fosse un fantasma.

    «Il viaggio è stato insidioso, lo ammetto».

    Asclepius posò il bastone davanti a suoi piedi e si puntellò sul pomolo. «Dove sei stato?», continuò. «E tuo padre, l’hai poi trovato?».

    Uberto si adombrò. «Portatemi prima da Moira e Sancha, poi vi racconterò ogni cosa».

    Gli rispose una risata sardonica. «Ti sembra forse che una giovane donna e una bambina di tre anni possano alloggiare in un convento di monaci benedettini?»

    «In tal caso, quale dimora avrebbe scelto per loro Michele Scoto?»

    «Ah, lo Scoto!», ripeté il vecchio. «È lui, dunque, che ti manda?»

    «Chi altri?», fece Uberto, accorgendosi che il tono e l’espressione dell’anziano si irrigidivano. «Non è a lui che mio padre si è raccomandato di chiedere aiuto?»

    «A proposito di tuo padre…», cercò di tornare sull’argomento Asclepius.

    L’ispanico sostenne il suo sguardo, ben risoluto a non lasciarsi fuorviare. Benché quel vecchio fosse un amico di famiglia, e pure uno degli uomini più sapienti della Galizia, non era mai riuscito a fidarsi totalmente di lui. Un sentimento reciproco, presagì, a giudicare da come veniva squadrato. «Mia moglie e mia figlia!», insistette. «Non mi avete ancora detto dove si trovano».

    «Non l’ho fatto perché non lo so», mugugnò a quel punto Asclepius.

    Incapace di frenare la collera, Uberto lo afferrò per il bavero. «Maledizione a voi!», lo scosse. «Cosa diavolo significa?!».

    «Lascia che ti spieghi…», tentò di placarlo il vegliardo, mentre accennava alle sue spalle.

    Uberto si rammentò allora dei monaci davanti al portale. Vedendoli muti come un branco di gatti, intenti a fissarli con sguardi allarmati, lasciò la presa.

    «Al mio amico piace scherzare!», dichiarò il vecchio, ammiccando in direzione dei religiosi, dopodiché porse al più giovane del gruppo il libro che fino ad allora aveva tenuto sotto braccio. «Tenete, padre Eutropius, proseguite voi a deliziare i vostri confratelli con gli Aenigmata di Simposio». Poi tornò all’ispanico. «Seguimi», bisbigliò, tirandolo per un lembo della cappa.

    Ancora sconvolto per la rivelazione, Uberto si lasciò condurre lungo il fianco occidentale del monastero, ritrovandosi ai margini di un giardino in mezzo al quale biancheggiavano delle lapidi. Sempre più nitido, gli giungeva alle orecchie uno sciacquio cadenzato che gli fece intuire la presenza, nelle vicinanze, di una ruota idraulica.

    «Dove mi menate?», domandò, allarmato dalla vista delle sepolture.

    «In un luogo in cui non ci siano orecchie oltre alle nostre», lo rassicurò il vecchio. Fermatosi quindi all’ombra di un arco a ogiva che dava accesso a un lungo ambulacro, si guardò intorno e piantò il bastone sul selciato per dare a intendere che la conversazione poteva continuare.

    «Ebbene», colse la palla al balzo Uberto, «cosa significa che non sapete dove si trovano Moira e Sancha? Avreste dovuto vegliare su di loro».

    «E io l’ho fatto finché ho potuto», disse in sua difesa Asclepius. «Anzi, finché mi è stato permesso».

    «Non capisco».

    «Abbi pazienza e consentimi di iniziare il racconto dal principio», lo esortò il vecchio, mentre in un eccesso di prudenza indugiava con lo sguardo sulle siepi di mirto alle loro spalle. Infine, quando fu certo che non vi fossero altri oltre loro, disse: «Dopo che abbiamo lasciato l’Hispania, siamo rimasti in attesa di notizie tue e di tua madre in un ospitale del porto di Marsiglia, finché la situazione non si è fatta incerta».

    «Qualcuno vi ha seguiti?»

    «Nessuna maschera o pugnale cruciforme, se è questo che intendi, ma quando in un sobborgo di marinai t’imbatti per più di tre volte nella stessa faccia… be’, credo

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