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L’estate sta finendo, l’amore no
L’estate sta finendo, l’amore no
L’estate sta finendo, l’amore no
E-book110 pagine1 ora

L’estate sta finendo, l’amore no

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Info su questo ebook

Nel piccolo Paese di montagna è arrivata l’estate. Le panchine sono state ridipinte di un bel verde squillante, i villeggianti tagliano l’erba e i barbecue sono comparsi nei giardini. All’apparenza sembra la solita estate.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2017
ISBN9788893470834
L’estate sta finendo, l’amore no

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    L’estate sta finendo, l’amore no - Cloe Incanto

    Cloe Incanto

    L’estate sta finendo

    l’amore no

    Prima Edizione Ebook 2017 © R come Romance

    ISBN: 9788893470834

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Paolo Ferrari 51/c

    41121 Modena – Italy

    romance@loggione.it

    http://www.storieromantiche.it  e-mail: romance@loggione.it

    Cloe Incanto

    L’ESTATE STA FINENDO

    L’AMORE NO

    INDICE

    I

    II - MICHEL

    III – GRAZIELLA

    IV – IL PROFESSORE

    V – L’ESTATE STA FINENDO

    VI – …L’AMORE NO

    VII – EPILOGO

    L’autrice

    Catalogo

    I

    Il Paese era famoso perché fra quei calanchi aveva villeggiato per quasi trent’anni il Pittore.

    Non un imbrattatele qualunque, ma un artista il cui nome era noto anche oltre oceano. Per anni aspiranti pittori, che parlavano lingue incomprensibili, avevano raggiunto il Paese, guardandosi attorno spaesati. Osservavano le case dimesse, tormentati da un vento fastidioso che impediva quasi di camminare e faceva lacrimare gli occhi, chiedendosi se quello fosse davvero il luogo da cui il Maestro aveva tratto ispirazione.

    Si posizionavano lungo i calanchi o all’inizio del viale con i cavalletti, le tele, i pennelli, i colori e un’aria professionale dipinta sul volto. Battevano in ritirata dopo aver inseguito le tele intonse portate a zonzo dal vento o aver riprodotto fedelmente il paesaggio, senza carpirne la vera essenza.

    Per scoprire il fascino del Paese ci voleva l’occhio fino come sosteneva Il Saggio, vecchietto dall’aria mite e i capelli bianchi, che frequentava abitualmente l’unico bar di quel minuscolo agglomerato di case sperduto sulla montagna.

    I calanchi, costellati da solitari cipressi o minuscoli boschi di querce, che si stendevano a perdita d’occhio, possedevano un fascino non percepibile al primo sguardo.

    D’estate si riempivano di ginestre e sulla; macchie di giallo e rosso si stendevano a perdita d’occhio.

    In autunno tutte le tonalità dell’ocra, del marrone e del rosso vermiglio ricoprivano gli alberi dei boschetti sullo sfondo di un grigio argilloso che brillava sotto i tiepidi raggi del sole.

    Durante l’inverno si ricoprivano di neve, spazzati da un vento gelido. Quando la neve si scioglieva, rivoli argentati rivestivano le pareti spoglie.

    A tratti le nuvole basse formavano un letto di nebbia che sommergeva i calanchi come un mare e faceva perdere il senso dell’orientamento.

    Nelle pieghe dolci dei loro pendii nascondevano la storia. Camminando lungo i crinali argillosi si potevano vedere i luoghi dove i nazisti avevano rastrellato gli abitanti dei paesi della vallata, trucidandoli senza pietà.

    Lapidi a ricordo spuntavano all’improvviso dietro fili d’erba smeraldo d’estate o letti di foglie durante l’autunno.

    Lungo quelle gole, nelle piccole grotte seminascoste da rovi, i partigiani avevano trovato riparo, nascondendosi su quelle montagne amiche con un sogno nelle tasche vuote.

    Se vagavi con lo sguardo a est potevi abbracciare i calanchi del partigiano Lupo e della Brigata Stella Rossa. Gli stessi dove oggi correvano daini, cinghiali e dove gli istrici con le loro robuste unghie scavavano tane per l’inverno.

    A distanza di anni emergevano ancora tracce dal passato.

    I villeggianti tornando dalle loro escursioni raccontavano di aver visitato anfratti usati come rifugi in tempo di guerra; qualche bambino del Paese, scavando per gioco, aveva trovato alcune monete con il profilo del Duce stampato sopra.

    Il vento spazzava i calanchi tutto l’anno, regalando un senso di estraneità che rendeva unico quel luogo.

    Un vento violento, che spirava a tratti, impediva i voli degli aquiloni e strappava dai fili il bucato steso ad asciugare.

    Di giorno fischiava attutendo rumori, ronzando come uno sciame di calabroni, e trasportava parole di innamorati, rumori di automobili, il rotolare di foglie secche lungo il viale, rincorrendo secchi, alzando gonne, sospingendo bambini in bicicletta.

    Di notte ululava, come un branco di lupi: un ululato continuo, sinistro, che impediva di dormire e muoveva strani pensieri.

    D’estate pareva placarsi, la brezza leggera faceva tintinnare la bottiglia vicino al bicchiere, concedeva refrigerio, muoveva piano le pagine dei giornali.

    Dimenticavi il vento gelido dell’inverno, quello sfacciato dell’autunno e ti illudevi che il vento fosse amico, poi una folata gelida sfiorava il tuo corpo e i ricordi dell’inverno passato riaffioravano nitidi.

    Il Pittore conosceva gli umori del vento, i tramonti infuocati, i calanchi imbiancati. Camminava per ore, in compagnia solo dei suoi pensieri, con le mani in tasca, le spalle dritte, il naso aquilino a fendere l’aria. Sapeva cogliere l’anima scontrosa e regale di quel paesaggio selvaggio e donarle l’eternità.

    Quando gli abitanti del Paese fermavano lo sguardo sui suoi quadri, su quei tratti all’apparenza indecisi, eppure così perfetti, riconoscevano angoli del loro mondo e provavano un’emozione che gonfiava il petto e saliva in gola a fermare il respiro.

    Il Pittore era morto da anni e la sua casa trasformata in un monumento alla sua memoria.

    Nulla era stato modificato dall’ultima volta che aveva trascorso le vacanze in Paese.

    La casa si poteva visitare, anche se non c’era nulla da vedere: solo un tavolo con il piano laminato e un letto singolo senza comodino.

    Il Pittore amava la vita frugale, senza smancerie, senza suppellettili inutili. Rude e spoglio come i calanchi che tante volte aveva dipinto.

    Quei calanchi che, come ogni estate, si lasciavano accarezzare dagli sguardi dei villeggianti seduti sulle panchine del viale.

    Sguardi ammirati da tanta selvaggia bellezza.

    Il Paese vero e proprio era costituito da un gruppetto di case raccolto attorno a un incrocio di strade e spuntava all’improvviso alla fine del lungo viale.

    Chi lo vedeva per la prima volta restava deluso da quelle case basse, un po’ arcigne, con troppi comignoli sui tetti.

    L’entrata scenografica del viale confondeva le idee. Eppure sia il viale che le case dimesse rappresentavano appieno il Paese.

    Un paese senza banca, pompa di rifornimento e negozi per fare shopping, composto da una chiesa, un negozio alimentare, la farmacia, il bar e un gruppetto di case.

    Un paese all’apparenza umile, ma dotato di vitalità, caparbio e indistruttibile come i suo abitanti.

    Il bar era nato prima delle case stesse. Posto all’incrocio di tre strade poco trafficate, permetteva di avere sotto controllo l’intera vallata.

    Tutti frequentavano il bar: gli abitanti del Paese, i villeggianti, i ragazzi sulla soglia dell’adolescenza e le vecchiette da mercato.

    Scampato a un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale, fin dagli anni Trenta era di proprietà della famiglia Vecchi: padri, figli e nipoti.

    Negli anni Settanta il nipote proprietario in quel momento, Osvaldo, aveva sposato una straniera, una bella ragazza del Sud Italia con lunghi capelli corvini e occhi di brace, di nome Concetta.

    La moglie di Osvaldo aveva sempre faticato a integrarsi fra la gente del Paese che parlava in dialetto stretto e bestemmiava senza ritegno.

    Concetta odiava la gente, odiava il clima, quel vento eterno che entrava in ogni anfratto del corpo e solo nei mesi estivi si trasformava in brezza. Avvertiva la mancanza incolmabile dell’odore salmastro del mare e il frangersi delle onde. Gli odori della sua terra, la sabbia fra le dita.

    Quando Osvaldo, dopo una grassa risata, era stramazzato sul bancone

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