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Amatissima mia Luigina... Mio sospirato Pietro...
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E-book452 pagine6 ore

Amatissima mia Luigina... Mio sospirato Pietro...

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Info su questo ebook

Una vecchia scatola custodita come uno scrigno prezioso, che a distanza di un secolo disvela i suoi segreti: l’intensa, affettuosa, struggente corrispondenza fra due giovani sposi durante la Grande Guerra. Diverse centinaia di lettere e di cartoline che viaggiano da una parte all’altra del Paese portando sul filo delle parole scritte, che si intrecciano per quasi tre anni e mezzo come in un dialogo continuo, angosce e speranze, desideri, delusioni, attese, promesse, paure… Ma il presentimento della tragedia aleggia come uno spettro, e questa, proprio alla vigilia della conclusione del conflitto, inesorabilmente si compie. A coltivare la memoria restano una vedova inconsolabile e due bambine che non hanno mai conosciuto il loro Papà.

Dai segreti nascosti nella scatola un nipote ormai anziano ha tratto un racconto autenticamente vero. La grande storia incrocia le piccole storie dei personaggi presenti sulla scena in cui campeggiano, da un lato le trincee e le caserme, dall’altro le cascine di un piccolo paese delle Langhe.

Un racconto scritto con l’affettuosa partecipazione di chi cerca e vive la riscoperta delle proprie radici e desidera farne testimonianza, perché la memoria rimanga il più possibile viva ed integra anche fra quelli che ora sono giovani.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2017
ISBN9788826026374
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    Anteprima del libro

    Amatissima mia Luigina... Mio sospirato Pietro... - Marco Masuelli

    Marco Masuelli

    Amatissima mia Luigina... Mio sospirato Pietro

    La corrispondenza fra i nonni Pietro Torrengo e Luigina Destefanis durante la Grande Guerra (e poco altro, prima e dopo)

    Fedelmente riordinata, trascritta e commentata da Marco per tutti i loro nipoti in occasione dei cent'anni del loro matrimonio (1914)

    Una vecchia scatola custodita come uno scrigno prezioso, che a distanza di un secolo disvela i suoi segreti: l’intensa, affettuosa, struggente corrispondenza fra due giovani sposi durante la Grande Guerra. Diverse centinaia di lettere e di cartoline che viaggiano da una parte all’altra del Paese portando sul filo delle parole scritte, che si intrecciano per quasi tre anni e mezzo come in un dialogo continuo, angosce e speranze, desideri, delusioni, attese, promesse, paure… Ma il presentimento della tragedia aleggia come uno spettro, e questa, proprio alla vigilia della conclusione del conflitto, inesorabilmente si compie. A coltivare la memoria restano una vedova inconsolabile e due bambine che non hanno mai conosciuto il loro Papà. Dai segreti nascosti nella scatola un nipote ormai anziano ha tratto un racconto autenticamente vero. La grande storia incrocia le piccole storie dei personaggi presenti sulla scena in cui campeggiano, da un lato le trincee e le caserme, dall’altro le cascine di un piccolo paese delle Langhe. Un racconto scritto con l’affettuosa partecipazione di chi cerca e vive la riscoperta delle proprie radici e desidera farne testimonianza, perché la memoria rimanga il più possibile viva ed integra anche fra quelli che ora sono giovani.

    Copyright Marco Masuelli 2016 - Tutti i diritti riservati

    Alla memoria di tutti i nostri parenti

    protagonisti delle vicende

    che animano queste pagine

    Avvertenze

    Prima che vi inoltriate nella lettura sono necessarie due avvertenze. 

    La prima riguarda il testo. Le citazioni di passi più o meno ampi tratti dalle lettere sono sempre virgolettate e sono trascritte con assoluta fedeltà. I riassunti sono anch’essi pienamente rispettosi del pensiero o dei fatti narrati dai nonni. Spesso ho utilizzato le stesse espressioni scritte da loro volte in terza persona. 

    Altri fatti riferiti sono un prodotto della mia memoria e potrebbero non corrispondere, in tutto o in parte, al ricordo che ne hanno altri; di ciò mi dispiaccio, ma che farci? Ciascuno ha i ricordi in relazione a come ha vissuto gli eventi raccontati, li ha rielaborati nella propria esperienza e li ha rivisitati nelle diverse età della vita. Se i vostri ricordi sono diversi… eventualmente ci confronteremo. 

    Anche sui vari commenti che scrivo qua e là con una certa frequenza e ai quali non sono riuscito a sottrarmi si potrà ampiamente eccepire o da essi dissentire. Ne avete piena facoltà! 

    Altri fatti ancora sono desunti dai documenti che sono rimasti nelle nostre case. Di essi si citano di volta in volta puntualmente gli estremi. 

    Ho cercato di essere il più possibile preciso anche sulle date relative alle molte persone di cui si parla, date che ho acquisito per gli eventi non noti alla memoria presso l’ufficio anagrafe di Montelupo. Dove sono rimasti dubbi ho segnato con un punto interrogativo la data riferita. 

    Una puntualizzazione mi sento di dover fare sulla copia del foglio matricolare del nonno rilasciata il 1 settembre 1931 a Mondovì. La mia impressione è che la trascrizione dei dati che riguardano la sua vita militare sia incompleta. Mi sembra che manchi qualche informazione sul servizio di leva e, soprattutto, noto che non sono registrate né la sua destinazione prima a Torino e poi a Pianezza, né la sua promozione a sergente, che sono del 1918. Può darsi che l’impiegato che ha compilato a mano il documento copiando dall’originale si sia un po’ distratto ed abbia omesso di trascrivere almeno un paio di righe e qualche altra parola. Non è infatti in alcun modo verosimile che tali dati non fossero registrati sull’originale. 

    Infine, nella scrittura del testo c’è stata da parte mia almeno inizialmente la relativa difficoltà, tutta solo di ordine psicologico, di denominare con la famigliare qualifica di nonno un giovane di 24/27 anni, quanti effettivamente lui ne ha dall’inizio alla fine della storia, che purtroppo non ha potuto neppure godere la pienezza della paternità e che noi conosciamo nella sola versione giovanile, a differenza della nonna che, invece, riscopriamo attraverso le lettere dopo averla ampiamente conosciuta, appunto, come nonna. Sul punto non c’è scelta, né per me né per voi che leggete. Ogni altra opzione per denominare il nonno Pietro, infatti, sarebbe priva di significato e relegherebbe la lettura delle lettere ad una dimensione vagamente storico/letteraria, che è impersonale piuttosto che affettiva, lettura che invece non può che essere personalissima, l’unica che al momento ci interessi. Del resto, noi lo abbiamo sempre chiamato così, senza farci alcun problema. Perché farsene ora? 

    La seconda avvertenza è relativa al linguaggio delle lettere. Ci sono in esse parole assai usate che hanno assunto secondo la nostra comune accezione un significato un po’ diverso da quello che i nostri nonni ad esse attribuivano. Ne cito alcune in particolare: 

    Compassione: significa tenerezza, assai più che pietà; analogamente compatire sta per condividere pene, piuttosto che provare pena per… 

    Consolare: ha il significato di dare gioia, dare serenità, più ancora che recare conforto, alleviare una pena

    Disgusto (e tutti i suoi derivati): per loro vuol dire profondo e intenso dolore e non senso di nausea, ripugnanza, ribrezzo; si tratta di un’estensione alla lingua italiana del significato che il termine ha nel dialetto locale. 

    Grazioso: non significa leggiadro, carino, piacevole, ma gentile, generoso, anche in questo caso per l’influenza del dialetto. 

    Malinconia o melanconia: sta per tristezza inconsolabile e non, semplicemente, inquietudine, malumore diffuso

    Anche per altre parole si registra una certa differenza semantica rispetto all’uso corrente, ma in genere il contesto espositivo consente di comprenderne agevolmente il significato. In qualche caso, laddove la parola usata potrebbe non essere immediatamente percepita nel suo significato, mi sono permesso di scrivere fra parentesi un termine equivalente. 

    Buona lettura. Sono certo che non vi annoierete. M.

    Estratto dal foglio n. 81 della Carta d’Italia dell’Istituto Geografico Militare. 

    Rilievo del 1902 - Scala 1:15.000

    Con il termine di C. Ballerina è designata la cascina dei Torrengo, che all’epoca del rilievo era di recentissima edificazione. Le case dei Vai, di cui si parla nelle pagine successive, sono segnate subito a destra della scritta C. Ballerina (tre punti neri quasi al centro esatto della cartina). 

    Il territorio comunale di Montelupo era, ed è, sensibilmente inferiore alla zona qui riprodotta, salvo che per la propaggine verso la Valle Talloria che si sviluppa ad ovest, al di là della cartina nella parte alta sul lato sinistro, e che comprende le borgate Ceppa e Mortizzo, nonché alcune cascine sparse già esistenti all’epoca del rilievo (Bertolotto, Bormida, Boschetto, ecc.).

    PENSIERI, ANTEFATTI, CONTESTO…

    Un atto dovuto e voluto

    Abbiamo sempre saputo dell’esistenza delle lettere che i nostri nonni materni Pietro e Luigina si sono scritte durante la lunga durata del conflitto, al quale lui ha dovuto suo malgrado partecipare come tutti o quasi i giovani della generazione nata nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Tre lunghissimi anni e qualche mese, conclusisi purtroppo tragicamente, e per ironia perversa della sorte un mese prima del termine della guerra, durante i quali intercorre fra di loro un fittissimo scambio di corrispondenza pur nelle difficoltà di comunicazione proprie dei tempi.

    Le lettere, che ogni tanto la nonna riordinava, erano tutte contenute all’interno di una scatola riposta nel suo armadio, dopo che era venuta ad abitare stabilmente a Torino, che lì è rimasta fino a quando, trascorso molto tempo, l’urgenza di riordino imposta da un trasloco non ha fatto emergere anche ciò che avevamo dimenticato di avere o che vagamente sapevamo di avere ma non avevamo né il tempo né l’interesse di esplorare.

    C’è voluto qualche anno prima di metter mano a quelle lettere. Una sorta di resistenza interiore le rendeva inavvicinabili o forse addirittura inviolabili, per un inconfessato timore di infrangere segreti e confidenze proibite. Proibite, se non altro perché chiuse nello spazio di intimità a cui ciascuna coppia ha diritto.

    Tuttavia, il pensiero che queste lettere hanno attraversato i cambiamenti logistici di un intero secolo e che la loro consegna fino a noi sembra essere stata implicitamente voluta da chi le ha raccolte e per tanto tempo custodite con religiosa cura, come se si fosse trattato di una reliquia, conferisce loro una sorta di diritto alla ri-nascita, per l’obbligo anche morale che ha chi ha ereditato quelle memorie scritte di onorare sacrifici, rinunce, dolori, rendendoli trasparenti e quasi palpabili dalla viva voce dei protagonisti nel momento in cui essi hanno pervaso il loro stesso sangue.

    C’è, poi, una domanda che dobbiamo porci, inquietante e senza risposta ma non oziosa. La fine prematura di nonno Pietro, che è il punto di snodo fondamentale nella vita della nonna e delle nostre mamme, non ha forse determinato non solo buona parte del loro destino, ma anche, ancor di più, il nostro? Questo non possiamo saperlo ma non possiamo neppure escluderlo.

    Se così dovesse essere non abbiamo l’obbligo di un tributo di riconoscenza nei suoi riguardi perché la perdita della vita sua è stata indirettamente, forse, per il gioco in parte casuale degli eventi successivi, all’origine della nostra?

    Se, come penso, almeno a questa seconda domanda possiamo rispondere affermativamente, quale migliore occasione di farne rivivere la figura attraverso i palpiti della sua giovinezza amata e sfuggente, da lui stesso raccontati nel momento in cui essa si consuma tra costrittivi impegni militari, nostalgie inconsolabili e speranze via via tradite?

    Ma anche nei confronti della nonna abbiamo quest’obbligo medesimo, perché attraverso la riviviscenza della sua personalità giovanile possiamo arricchire, talora in modo anche sorprendente e imprevedibile, la nostra memoria di lei, grata e partecipe.

    Il racconto che si dipana dalla lettura e dalla trascrizione di ampi passi di questa corrispondenza è, dunque, un atto dovuto.

    Ma è anche un atto voluto nel senso che la sua esposizione è frutto di una scelta affettuosa che retrospettivamente ci immerge e ci immedesima nelle loro vicissitudini.

    L’epistolario congiunto

    Complessivamente le lettere, se le ho contate bene, sono 618; 425 del nonno, 193 della nonna. A queste occorre aggiungere oltre un centinaio di cartoline illustrate, in grande maggioranza del nonno. Una parte minoritaria di questa corrispondenza è costituita da semplici cartoline postali, comunque scritte in genere in tutto lo spazio disponibile. Delle lettere del nonno, quasi di tutte, lei ha conservato anche le buste della spedizione. La prima lettera, all’indomani della sua partenza per il fronte, porta la data del 16 maggio 1915, l’ultima è del 1 ottobre 1918, tre giorni prima di morire. Probabilmente tutte le lettere scritte dal nonno sono state ricevute e conservate. Di quelle della nonna un certo numero sembra mancare all’appello, in tutto almeno una quarantina di lettere, che probabilmente si sono smarrite a causa degli spostamenti a lui imposti dalla vita militare. Si tratta di corrispondenza che, dunque, neppure lui aveva ricevuto o che non era riuscito a conservare. In particolare, poi, mancano, in aggiunta a queste, tutte le lettere che lei gli ha scritto dalla metà di luglio alla fine di settembre 1918, cioè le ultime, che sicuramente gli erano pervenute; in tutto 16, come si desume dai riferimenti ad esse delle sue risposte. Su questo vuoto d’archivio, in verità piuttosto strano conoscendo lo scrupolo conservativo della nonna, si possono fare molteplici congetture e a suo tempo ci ritornerò.

    Come ha recuperato la nonna quasi tutte le lettere che lei gli ha scritto? E’ assai probabile che tra di loro ci fosse l’intesa di tenerle ed è altrettanto probabile che lui le riportasse a casa in occasione delle poche licenze di cui ha beneficiato durante l’intero periodo. Su questo dettaglio non ricordo che mai la nonna ci abbia raccontato qualcosa. Certo è che l’intreccio di corrispondenza fra due coniugi durante la Grande Guerra, così ricco quantitativamente, quasi integralmente conservato e pervenuto fino a noi in ottime condizioni per una lettura completa, a distanza di un secolo, credo che rappresenti un fatto più unico che raro, tanto più considerando che non poche lettere sono scritte a matita, soprattutto da parte di lui quando, in trincea, non poteva avere a disposizione né lo spazio, né, tantomeno, la penna e il calamaio.

    Ambedue i nonni hanno un bisogno disperato di scrivere e di ricevere le lettere dell’altro. Lui, in particolare, le attende con un’ansia spasmodica (scrivimi se vuoi farmi felice; se non mi scrivi divento nervoso) perché in esse trova l’unica consolazione al suo isolamento affettivo, che soffre più di ogni altra cosa. Essendo a quel tempo la corrispondenza postale l’unica forma di comunicazione tra persone lontane, le lettere e le cartoline sono una componente insostituibile della vita di relazione. Per questo, si rimproverano amorevolmente a vicenda (ma invero più spesso lui di lei) di scrivere troppo poco, oppure quasi ossessivamente richiedono l’uno all’altro di scrivere; per questo, nelle lettere ricorrono rituali formule espressive e dichiarazioni di affetto ripetitive, esattamente come accade quando si è anche fisicamente insieme e ci si parla.

    La loro scrittura riflette due diversi stili comunicativi, che sono specchio del loro carattere ma anche della loro diversa formazione scolastica: più semplice e assai più vicino alle espressioni tipiche del parlato quella di lui, che a scuola, secondo le regole del tempo, non era andato oltre la terza elementare; non mancano, forse proprio in virtù di tale immediatezza espositiva, osservazioni brevi e folgoranti, cariche di arguzia e di ironia. Assai più elaborata la scrittura della nonna (che amava studiare ed aveva fatto fino alla quinta), più ricca lessicalmente, più articolata sul piano argomentativo e controllata nei costrutti sintattici e nell’ortografia.

    Lui scrive molto più spesso di lei ma è più sbrigativo; lei scrive con minore frequenza (sicuramente ne aveva anche meno il tempo e la possibilità di concentrarsi) ma elabora e arricchisce i suoi concetti con la finezza espressiva che abbiamo poi conosciuto anche in ciò che ha scritto, successivamente, a noi.

    Lui e lei

    Nelle nostre famiglie il nonno Pietro è l’anello mancante, la persona che abbiamo imparato a rispettare ed amare a priori, senza conoscenza e senza contatto, ma solo per forza di narrazione e di evocazione. La narrazione, per altro, è sempre stata prevalentemente implicita e del tutto parziale nel senso che non si è mai snodata, almeno per la percezione che ne abbiamo avuto, secondo una sequenza lineare e compiuta ma ha proceduto per brevi e laceranti immagini, fuori del tempo e dei luoghi del nostro orizzonte, cui facevano da sottofondo nelle parole della nonna echi di sospiri e di dolori inconsolabili. Ne abbiamo imparato a cogliere la presenza via via crescendo, a mano a mano che un po’ più si comprende qualcosa della vita e della morte.

    La grande fotografia, che lo ritrae a mezzo busto in abiti borghesi, campeggiava solenne in un quadro con un’importante cornice, suscitando sentimenti un po’ scontati di rispetto e di ammirazione, mentre il culto della sua memoria si esercitava nelle visite, un tempo non rare, al Sacrario della Gran Madre; oppure, più frequentemente, nella fugace contemplazione del suo nome, preceduto dalla qualifica militare di sergente, in testa alla lista dei Caduti della Grande Guerra sulla targa di gesso, ora rimossa, apposta sul lato sinistro del portale della chiesa di Montelupo e, dal 1961, sul monumento eretto in piazza Castello.

    Ma noi che cosa abbiamo mai veramente saputo di lui? Frammenti, schegge di racconti, qualche aneddoto ci hanno consegnato l’immagine di un uomo gagliardo e schietto, amante del lavoro e del divertimento, certamente innamorato della vita come della moglie e delle figlie, cui un destino perfido, ancorché indotto dalla follia degli uomini, ha negato il diritto di godere la promessa di felicità alla quale ciascuno legittimamente aspira.

    C’è molto di vero in questa immagine, ma essa appare a conti fatti come quella che si vede da un cannocchiale rovesciato, lontanissima e impercettibile nei contorni, un’immagine che la doppia frattura generazionale ha reso ancor di più sfocata, fino a confinarla in un luogo astratto e marginale del nostro ambiente affettivo. Possiamo dire, un po’ enfatizzando, che a suo riguardo per la nostra generazione di nipoti la leggenda ha preceduto e soverchiato la storia, senza tuttavia mai diventare mito.

    Come si leggerà, le lettere ci presentano dal vivo il ritratto di un uomo molto accorto e perspicace, impulsivo e passionale, curioso e irrequieto, dall’intelligenza versatile e aperto alle novità, sincero fino all’estremo, innamorato, perso nel pensiero e nell’infinita nostalgia, nel desiderio di lei e delle loro bambine, gioviale, amante della compagnia, allegro, seppur talora attraversato da momenti di cupa tristezza e scosso da intensa collera.

    Ma è anche capace di svolgere il suo compito di soldato, di bersagliere dall’orgogliosa appartenenza, con piena diligenza ed applicazione, e di farsi apprezzare da superiori e commilitoni. Infatti, nel suo piccolo, fa carriera: prima caporale, poi caporal maggiore, poi sergente; ha una grande capacità di lavoro e di sopportazione del dolore fisico e delle privazioni, rassegnato ad esse ma non in silenzio. Sa ubbidire e comandare, ma al tempo stesso si fa benvolere perché è amichevole con tutti e magnanimo con i più giovani. La sua coatta integrazione nel sistema militare è tutt’altro che acritica e passiva. Ha parole molto pesanti contro un sistema che massacra la gioventù, non aspira alla gloria ed è estraneo alla retorica bellicista e patriottarda del tempo.

    Mi fermo qui perché ogni sfumatura potrà emergere dalla lettura delle sue stesse parole, rimettendo, per stare alla metafora, il cannocchiale nella posizione giusta, e, dunque, riscrivendo la storia perché la leggenda, che vorremmo consegnare a nostra volta ai figli e ai nipoti, si possa arricchire di nuovi racconti.

    Specularmente, ma, al contrario, in modo pieno e compiuto ci ha accompagnato negli anni la presenza e tuttora rimane assai viva la memoria della nonna, di cui pensiamo di sapere tutto e a cui, parimenti, il destino ha negato quella medesima promessa di felicità. Una presenza, la sua, costante nella vita delle nostre famiglie, affettuosa e saggia, vigile e ammonitrice, sempre avvolta in un velo di malinconia che in una certa misura la teneva un po’ distante dai nostri irruenti e rumorosi passi verso la pienezza della vita.

    Di lei avevo scritto dopo la sua morte (18 maggio 1974), per un trafiletto in memoria pubblicato sulla Gazzetta d’Alba, che è vissuta nella scelta di una dedizione continua e totale, di pensiero e di impegni concreti, ai suoi affetti più cari. In effetti, le lettere già ci consegnano questa precisa identità e la confermano appieno, ma la colorano con le tinte di giovanili ardori che, invece, ci appaiono del tutto inediti.

    Al contempo, i suoi pensieri sono permeati di una religiosità che sembra essere più forte di qualunque prova: è soprattutto devozione, preghiera, frequenza assidua alle funzioni religiose, abbandono fiducioso nella volontà dei Supremi, ma è anche il fondamento di un’etica vissuta con assoluto rigore.

    Per ambedue, provvidenza e destino sono le facce contrastanti della stessa medaglia: la provvidenza è favorevole perché esprime la volontà divina che non può essere contraria al bene di ciascuno, mentre il destino è per definizione avverso. In realtà, i due termini si equivalgono e si confondono in un’unica dimensione inevitabilmente fatalistica nella soggezione ad una volontà superiore: quella di Dio o quella di chi comanda e vuole questa guerra che è la rovina di tutto. Il destino è nelle mani di un potere che dispone delle loro vite come vuole, di fronte al quale c’è, di volta in volta, rabbia o rassegnazione; c’è l’amara consapevolezza di non poter contrapporre nulla, se non la speranza nella misericordia divina o nella fortuna perché voglia restituire loro la felicità per troppo poco tempo vissuta e poi brutalmente negata.

    Mentre la ri-scoperta della nonna Luigina attraverso i pensieri ed i sentimenti vissuti in quel periodo ce ne rende più ricca e complessa la figura riconsegnandocela secondo un’identità più compiuta di quanto la nostra memoria non consenta di fare, la ri-chiamata in vita del nonno Pietro attraverso la sua scrittura, passata alla lente di ingrandimento nei luoghi e nei tempi delle sue più palpitanti pulsioni di vita, ci permette non solo di conoscerlo, ma rappresenta anche, in piccolissima misura, una sorta di chiusura del cerchio, il ritrovamento ideale di quell’anello mancante di cui abbiamo sempre avvertito, psicologicamente ed emotivamente, il bisogno.

    Il paese, la gente, la terra

    Intorno a loro e attraverso di loro, sullo sfondo dei loro affetti violentati dalla lontananza, si muove una vasta platea di personaggi: di alcuni abbiamo memoria viva per averli conosciuti da piccoli quando loro, ormai, erano diventati vecchi. Con qualcuno abbiamo poi avuto, via via crescendo, famigliarità anche intensa. Di altri, presenti nei racconti di casa, la nostra distratta attenzione di ragazzi ha captato solo qualche imprecisa notizia. Altri ancora, infine, e sono la grande maggioranza, ci sono affatto sconosciuti. Gente del paese o dei dintorni e parenti, soprattutto, molti dei quali troppo genericamente evocati nei fatti loro riferiti da ricostruirne il ruolo o le vicende. E poi qualche commilitone con cui il nonno era entrato in amicizia.

    Il villaggio locale, che si estende anche al di là dei confini comunali e comprende, quantomeno, le borgate contigue dei comuni limitrofi, è comunque densamente abitato e intensamente animato; Montelupo da solo conta all’epoca quasi 700 abitanti. Tutti sembrano conoscersi da vicino, con il nome o il nomignolo e il riferimento al luogo in cui abitano, o con il soprannome della famiglia cui appartengono; tutti comunicano fra di loro con tempestività e immediatezza. La gente si incontra durante le funzioni religiose in parrocchia o alla cappella dello Riolo, nelle tre o quattro botteghe, presso i forni, le osterie, l’ufficio postale, il municipio; le strade sono in continuazione percorse da chi va e chi viene. Le notizie volano di bocca in bocca con una velocità straordinaria superando le distanze e valicando le colline. Spesso, com’è inevitabile, si deformano e si ingigantiscono; altrettanto spesso si generano con qualche malevolenza ed assumono la veste della maldicenza; il pettegolezzo la fa da padrone, mescolato a seconda dei soggetti a sentimenti diversi e contrastanti di compassione, pietà, invidia, gelosia, ecc. In tale contesto i comportamenti dei singoli sono sottoposti ad un forte controllo sociale, per cui la preoccupazione di ciò che pensa la gente determina un certo condizionamento nelle scelte dei singoli.

    Appare, però, di converso anche una qualche solidarietà collettiva nelle situazioni di bisogno: il piccolo prestito sulla parola e senza interesse in una condizione generalizzata di perenne scarsità di quattrini, l’aiuto vicendevole nel lavoro dei campi, il dono del sovrappiù produttivo alimentare e forse anche del necessario, prevalgono a conti fatti sugli egoismi individuali e famigliari che pure esistono talora con evidenza.

    Il duro lavoro dei campi (della campagna, come si dice nel dialetto locale), fatica obbligata e comune, per quel che se ne legge non viene mai evocato come una condanna né, tantomeno, come una dannazione (a differenza, invece, della guerra che lo è sempre, senza riserve) ma come risorsa indispensabile per la vita di tutti, della quale un binomio inscindibile di povertà e dignità rappresenta la cifra dominante. Le condizioni di vita che vengono percepite, insomma, non sono quelle della malora ma di una fatica quotidiana pesante, continua, irriducibile, e tuttavia anche salvifica e talora gratificante.

    Delle due grandi famiglie dei nonni che si muovono in questo ambiente è utile riassumere il quadro complessivo, anche perché in ogni loro lettera, come nelle più brevi cartoline postali e spesso finanche nelle semplici cartoline illustrate che si scambiano, non mancano mai i saluti ad o da esse nel rispettivo porgere e ricevere: la famiglia è, per definizione, quella dei Torrengo, la famiglia del Rossotto (del Rusot) è quella dei Destefanis.

    La famiglia Torrengo

    Da chi era composta la famiglia del nonno Pietro, che abitava nella grande cascina del bricco dei Vai? La cascina, come sappiamo, era stata costruita negli anni ottanta dell’‘800, in via Ballerina, all’inizio della strada di langa verso Sinio. La sua edificazione aveva segnato l’abbandono dell’originaria, assai più piccola dimora famigliare nella minuscola borgata (i Vai, appunto) posta al di là del bricco, in capo alla fonda rivolta verso mezzogiorno, quasi sospesa sull’orlo del burrone. Un luogo che il catasto denomina come regione Vallone, desolatamente estraneo agli occhi degli uomini, salvo i pochi che da Montelupo vi passavano, se il tempo lo permetteva, per andare in Borine scendendo di lì per lo stretto e ripido sentiero fino in fondo allo rian (rittano) e poi risalendo a mezza costa sull’altro versante alla loro borgata.

    I Vai, un insieme di tre o quattro casupole di cui oggi quasi non rimane traccia, ma i cui ruderi sono ben vivi nei nostri ricordi d’infanzia. Su di un muro diroccato faceva ancora bella mostra di sé una meridiana che ogni volta suscitava in noi una stupita e ammirata curiosità. Un rilievo del 1902 dell’Istituto Geografico Militare registra in quel luogo la presenza di tre edifici, all’epoca ancora sicuramente integri e almeno in parte abitati.

    Il nostro trisavolo, Pietro (1820 - 1875) e sua moglie Rosa Cavallotto proprio lì avevano abitato per tutta la vita, allevato i loro quattro figli maschi (non abbiamo notizia che ci fossero anche figlie), lì erano invecchiati e lì erano morti. Se le pietre di quell’edificio, riutilizzate per i muri della nostra attuale dimora, potessero parlare ci racconterebbero infinite piccole storie sui nostri antenati, sul loro senso della vita e soprattutto sulle loro fatiche.

    Forse ci svelerebbero anche il mistero dell’origine di quelle case. Perché in un posto così isolato, praticamente invisibile da qualunque altra strada, abitato da gente con lo stesso cognome? Un cognome che negli atti ufficiali non è ancora registrato a Montelupo verso la fine ‘700. Né, del resto, pare esistere in nessun comune limitrofo, né ad Alba, nell’alta Langa o al di là del Tanaro, e quindi risulterebbe essere importato lì da chissà dove solo all’inizio dell’‘800. Forse bisogna dar credito alla leggenda che vuole il capostipite dei Torrengo originario di un’altra terra (la Corsica, si diceva) e legato in qualche modo all’epopea napoleonica. Un esule o un fuggiasco, dopo la disfatta dell’Imperatore? Oppure un disertore o, addirittura, un evaso durante il suo passaggio da quelle parti meno di vent’anni prima? Ci piacerebbe saperlo. Qualunque fosse la sua condizione si avrebbe a che fare con uno che aveva disperatamente bisogno di tenersi nascosto.

    Ma, più prosaicamente, avrebbe anche potuto trattarsi di uno sperduto senza quattrini, capitato a Montelupo per caso o per amore, che in quel posto abbandonato e senza valore aveva trovato la possibilità di farsi, o di trovare già fatta, una qualche dimora in cui sopravvivere. In tutti i casi è certo che dall’inizio dell’800 in poi il piccolo insediamento, con i figli e i figli dei figli che nascono e crescono, arriva a contare quelle poche cascinotte che per più di un secolo sono anch’esse intensamente abitate e animate. E il cognome intanto un po’ si diffonde via via anche nel paese e alla Torretta.

    Per altro, ancora oggi quel cognome è più diffuso a Montelupo che in qualunque altro dei pochi comuni di Piemonte e Liguria in cui è registrato, segno che qualcosa di vero nella leggenda, quale che sia stato il rango del protagonista, ci deve pur essere.

    Non v’è dubbio che la nuova cascina, alla cui costruzione partecipano tutti e quattro i figli di Pietro e di Rosa, con le sole loro forze che a quel tempo sono nel pieno compiendo fatiche grandissime perché ogni pietra deve essere raccolta in giro, anche in fondo al burrone, e lì portata per essere utilizzata, segna, persino simbolicamente con la sua posizione dominante, a distanza di tre quarti di secolo o più da quelle vicende originarie, un punto di svolta nella storia della famiglia perché rappresenta un’emancipazione tangibile all’interno della comunità paesana, una frattura netta con un passato di stenti e di angustie. Anche la proprietà agricola della famiglia negli ultimi anni dell’800 si estende con l’acquisto di nuovi appezzamenti al Garombo, in Borine, su in alto sulla collina nelle borgate già in territorio di Rodello o più in giù verso Sinio, che vanno ad aggiungersi a quelli in possesso tutt’intorno alla vecchia ed alla nuova dimora.

    Aperta su tutti i fronti la nuova cascina aveva allora una forma a ferro di cavallo: il corpo centrale, adibito a civile, poteva contare almeno otto stanze, i due avancorpi laterali ospitavano le stalle ed i fienili, i portici per il ricovero degli attrezzi. La fotografia riportata in questa pagina, scattata in pieno inverno, è del 1938, ma si può essere certi che la cascina fosse identica anche nei decenni precedenti.

    I dati su chi ci abitasse all’inizio della guerra non sono del tutto noti, neppure attraverso le notizie che si hanno dalle lettere, però non siamo troppo lontani dalla verità nel dire che non meno di una decina di persone popolasse quelle stanze.

    C’era, innanzitutto, il padrino Giuseppe (1849 - 1932), il "Parin, il capofamiglia, scapolo e, come lo descrivono pochi cenni, uomo intransigente e testa dura". Nella stagione calda - lo ricordo dai racconti della mamma - montava il letto sul fienile e lì dormiva. Una fotografia ce lo rappresenta cieco di un occhio per la puntura di una grossa spina di gaggia.

    Il Parin Giuseppe

    Poi c’era il fratello Giovanni (1856 - 1936), il papà del nonno e nostro bisnonno, il "", che aveva sposato in prime nozze Rosalia Montanaro di Serravalle, morta prematuramente forse nel 1899, lasciando due orfani ancora bambini. Risposatosi nel 1901 con Delfina Santero di Sinio, allora appena ventenne, rimarrà di nuovo vedovo assai presto (1920). Era il muratore della famiglia e sotto la sua direzione era avvenuta la costruzione della cascina. Di lui non abbiamo o non ricordiamo altre notizie precise e neppure desumiamo granché dalle lettere dei nonni. La sua presenza è costante ma sembra influire poco.

    Vi abitava sicuramente un altro fratello più giovane, Lorenzo (1866 - 1927), lo zio Cino, sposo nel 1904 di Rosa Maria Adriano di Arguello, detta la zia Pina. La coppia aveva avuto due figli maschi, morti bambini di difterite ben prima dell’inizio del conflitto. Né l’uno né l’altra, però, sono mai citati negli scambi epistolari.

    Tre fratelli, tre vecchi, i veji, come tali ricordati e così già definiti dal nonno anche nelle sue lettere.

    Oltre a loro c’erano le sorelle del nonno: Maria, la zia Jetta, di sei anni più giovane, che andrà in sposa nel 1920 a Sebastiano Marengo (lo zio Bastian) di Roddi, con i quali i rapporti si sono successivamente raffreddati quasi del tutto a seguito dei dissapori per la divisione della proprietà, tant’è che di loro noi non abbiamo praticamente alcun ricordo.

    Conserviamo invece un affettuoso ricordo dell’altra sorella, Colombina (1909 - 1971), figlia di secondo letto del bisnonno, la zia suora o, più ufficialmente, suor Leonilde. Tante volte siamo andati a trovarla ad Alba nel convento delle Paoline dov’era addetta a umili mansioni di cucina presso il seminario attiguo. Ci accoglieva con grande festosità e ci offriva caramelle, caffè e pasticcini, chiamava la madre superiora orgogliosa di farle conoscere i suoi nipoti di Torino, ma questa la trattava con sussiego guardandoci con distacco e diffidenza. Andando al suo funerale, un brutto sabato di gennaio, con un freddo polare e le strade ghiacciate, poco c’è mancato che la mamma, Pier Giorgio, Enrico e Chiara ci lasciassero la pelle sulla strada di Poirino.

    Pare di capire che nella cascina abitasse anche il papà della moglie del bisnonno Giovanni, che viene a morire durante il conflitto.

    Poi c’erano, ovviamente, loro due, Pietro e Luigina e la loro bimba Liberina, nata appena poco più di tre mesi prima della sua ripartenza, che fin da piccolissima era già chiamata Rina o, più raramente, Rinuccia. Il fatto che lui, il nonno Pietro, abbia imposto alla nonna e posto alla neonata un nome così inconsueto dà un’idea abbastanza eloquente dei tempi e dell’uomo. Dei primi riecheggia il filone culturale anarchico e libertario che anche nelle campagne aveva una qualche influenza, del secondo testimonia lo spirito originale ed anticonformista, come pure l’insopprimibile desiderio di libertà che vive nel suo animo. A dire il vero, la mamma, se avesse potuto, quel nome se lo sarebbe cambiato tanto le era sgradito. E fin da bambina. Ad esempio, intesterà, quasi denegandolo, un quaderno di quinta elementare a L. Rosalia Torrengo, suo secondo nome che come abbiamo visto era quello della defunta mamma del nonno; del resto, ha sempre festeggiato il suo onomastico il 4 settembre, giorno di S. Rosalia. Eppure, quel nome, le piacesse o meno, resta il sigillo anagrafico, come un presagio e un marchio indelebile, della sua personalità forte e complessa che nelle molteplici, varie e anche contraddittorie sfaccettature resta assolutamente inimitabile.

    Dunque, riassumendo, in tutto sono undici persone, assai probabilmente non tutte assieme coabitanti ma separate in tre nuclei (in corrispondenza dei tre camini che si osservano sul tetto della casa), fra di loro fortemente interagenti, uniti da comuni interessi e obblighi più o meno impliciti di reciproca assistenza: il primo composto dal Parin, dal bisnonno Giovanni, sua moglie, forse il papà di sua moglie, le figlie Maria e Colombina; il secondo dallo zio Lorenzo e sua moglie; il terzo dai

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