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Il mio nome è Mario ma mi chiamo Domenico
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Il mio nome è Mario ma mi chiamo Domenico
E-book194 pagine2 ore

Il mio nome è Mario ma mi chiamo Domenico

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Info su questo ebook

Il narratore, figlio di genitori mezzadri, vive in un borgo dove si praticava l’agricoltura e la pastorizia.
La storia si snoda nell’arco dei primi nove anni di vita del protagonista, e fotografa, con gli occhi di un bambino, il modo di vivere quotidiano di quell’epoca, parecchio diverso da quello attuale.
Non si pensi però a un periodo lontano nel tempo. La storia descrive infatti la vita quotidiana negli anni del dopoguerra. L’autore rivive le vicende di quel periodo storico, rappresentando le scene di quel vissuto in modo realistico.
Quegli uomini e quelle donne, persone realmente esistite in quel contesto, vivevano in condizioni di precarietà, pur tenendo conto dei princìpi di solidarietà e disponibilità umana svincolati dal mero interesse individualistico.
La narrazione è accompagnata da un tono ironico e spesso malinconico, frutto dell’utilizzo del dialetto stretto in cui si esprimono i protagonisti delle vicende, persone dai forti princìpi morali.
Tutto questo oggi non esiste più. Nei rapporti sociali impera il menefreghismo, per cui ben si intuisce la malinconia del racconto.

Mario Di Adamo nasce nella frazione Mortale del comune di Casalattico, in provincia di Frosinone, da genitori provenienti dal comune di Colle San Magno.
Ha sempre vissuto nel comune di nascita, dove ancora oggi risiede.
Ha conseguito il diploma di geometra presso l’istituto “Cesare Baronio” di Sora (Frosinone).
Attualmente è in pensione dopo quarantadue anni e dieci mesi come dipendente del Comune di Casalattico, ove ha concluso la sua carriera come responsabile dell’ufficio tecnico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673298
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    Anteprima del libro

    Il mio nome è Mario ma mi chiamo Domenico - Mario di Adamo

    PRESENTAZIONE

    Sin dal primo giorno di scuola è stato sempre difficile presentarmi. Il titolo del libro e soprattutto la lettura del mio elaborato, ne spiegano il perché. Ad ogni modo il mio cognome è: Di Adamo. Sono nato nella frazione Mortale del comune di Casalattico, in provincia di Frosinone, da genitori provenienti da Colle S. Magno (Fr). Sono sempre vissuto nel comune di nascita, dove ancora oggi risiedo.

    Ho conseguito il diploma di geometra, presso l’istituto Cesare Baronio di Sora (Fr).

    Attualmente sono in pensione dopo aver lavorato quarantadue anni e dieci mesi come dipendente del Comune di Casalattico, ove ho concluso la mia carriera come responsabile dell’Ufficio Tecnico.

    Da tempo fantasticavo di scrivere come si vivesse in un piccolo borgo negli anni ’50, affinché rimanesse una testimonianza di una esistenza così diversa dall’attuale. Lo scrivere un elaborato in italiano, materia da me non certamente preferita, mi frenava nell’intraprendere una tale impresa.

    Alla fine del lockdown, a seguito della pandemia da Covid 19, è prevalso in me il proposito di lasciare comunque uno spaccato di vita quotidiana di quel periodo post-bellico.

    Per una prima correzione del testo mi sono rivolto alla mia collega di lavoro, laureata in lettere, autrice dell’introduzione, alla quale spesso ricorrevo per farmi aiutare a scrivere lettere anche semplici.

    Al termine della correzione la mia sorpresa è stata grande perché gli errori erano veramente pochi.

    La lettura dell’introduzione al mio scritto, poi, ha suscitato in me una forte emozione, poiché, l’autrice è riuscita a cogliere, nella sua interezza tutte le situazioni e le sfumature descritte, ivi compresi i dialoghi in dialetto.

    L’autore

    INTRODUZIONE

    Quando l’autore del presente lavoro, nonché ex collega comunale mi chiese se fossi disposta a dargli una mano come si usa dire. Accettai per non scontentarlo e quindi con una valutazione sommaria della proposta.

    Poi, nel prosieguo, ho notato in me stessa una sempre maggior attrazione per la descrizione di quelle scene di vita quotidiana che a mano a mano mi venivano presentate e sottoposte.

    Una della cose che mi è più piaciuta è la sua capacità di rappresentare minuziosamente e realisticamente i particolari di quel vissuto, nonché la nota ironica e talvolta malinconica che emerge dalle sue descrizioni, per cui, leggendo, ti ritrovi a rivivere (ovviamente ciò vale per i lettori della nostra generazione) le vicende di quel periodo storico, in uno scenario già noto, e ti rendi conto che costituisce parte di te, che ti appartiene, cioè ti ritrovi in un ambiente che, diciamo così, ti scalda il cuore riportandoti agli anni della fanciullezza e della spensieratezza.

    Sicuramente, le generazioni più giovani, leggendo questo testo non proveranno gli stessi sentimenti, ma sono sicura che il loro interesse potrebbe essere quello di voler conoscere quel modo di vivere parecchio diverso da quello attuale, solo pensando che è riferito non a secoli fa, ma ad un arco di tempo relativamente recente. Si è infatti negli anni Cinquanta-Sessanta dello scorso ventesimo secolo, ovvero nel periodo post-bellico della Seconda Guerra Mondiale.

    Ritengo che il valore di questo semplice elaborato possa essere inquadrato su piani diversi.

    In primo luogo: la memoria, perché gli usi ed i costumi di quel tempo non si disperdano e svaniscano nell’oblio degli anni a venire, ma che è utile consegnare alle generazioni future.

    In secondo luogo: il nostro dialetto, con vocaboli e modi di dire che già oggi non si sentono più pronunciare nel linguaggio dialettale giornaliero delle persone del nostro paese.

    In terzo luogo: l’ambiente naturale, ossia come era stretto e costante il rapporto uomo natura, come la vita era vissuta a diretto contatto con l’ambiente circostante e con gli animali ivi presenti in uno interscambio di conoscenze, di nozioni, di sensazioni e di emozioni uniche.

    Infine vorrei rivolgere un invito ai giovani lettori a volersi soffermare a riflettere come quegli uomini e quelle donne, che non sono il frutto di fantasie o fantasticherie, ma persone realmente esistite in quel contesto; dicevo, come quelle persone nella loro umiltà, semplicità e precarietà di condizioni di vita, quando dovevano intraprendere un qualsiasi lavoro o affrontare situazioni particolari, alzavano gli occhi al cielo invocando l’aiuto di Colui che è al di sopra di tutti e che può tutto.

    Questa la forza che li ha spinti e sostenuti per superare le innumerevoli difficoltà che la Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato loro in eredità.

    A quelle generazioni dell’Italia del dopoguerra va il nostro grazie, se oggi noi si possa vivere un tempo relativamente migliore.

    In questo periodo, comunque anche noi, ci ritroviamo a vivere un altro tipo di difficoltà, ovvero la pandemia da Covid 19.

    Questo fatto ci ha ricordato ed evidenziato che siamo fragili creature, il cui fine ultimo è il ritorno a chi ci ha creati ed al quale dobbiamo affidarci a modello della gente del borgo descritta in questo lavoro.

    A tutti i lettori auguro una buona lettura, non frettolosa e superficiale, ma attenta e riflessiva su quello spaccato di società, non certamente agiata o acculturata ma fondata su veri valori che oggi, purtroppo, stanno scomparendo.

    Silvana Mezza

    Capitolo I - Il nome Mario

    Eravamo negli anni ’50 quando mio padre e mia madre, appena sposati, si resero subito conto che non potevano rimanere a lungo nella casa di mio nonno dove, in due stanze neanche troppo grandi, vivevano ventiquattro persone.

    Pertanto, quando mio zio, che già da un po’ si era trasferito in una frazione di un comune limitrofo, fece loro sapere che cercavano qualcuno per lavorare la terra di proprietà di una famiglia che era emigrata in Inghilterra, i miei accettarono subito.

    Così presero quel po’ che avevano, ovvero niente o quasi: un paio di lenzuola, una cutterèlla (casseruola da mettere sul fuoco), ‘n tréspele (un tre piedi che in realtà ne aveva due) e poco altro, per andare a fare glie parzenàule (i mezzadri) nel borgo dove abitava mio zio.

    Il padrone, o i padroni, diedero loro una casa dove stare, una mucca, un asino e la conduzione del terreno con tutto quello che vi era sopra (vigna, ulivi…).

    La condizione era una sola: tutto il raccolto doveva essere diviso a metà.

    Una condizione capestro, poiché il terreno da lavorare era, ed è, arido a causa della completa mancanza di acqua e della scarsa piovosità della zona. Il raccolto è stato sempre condizionato dall’andamento del tempo, perciò spesso insufficiente anche per chi non doveva dividerlo a metà. Non per niente gli anziani dicevano «iécche é còmme aglie uòrte de Scindrióne» (Qui è come l’orto di Scindrióne). Scindrióne era un contadino poco fortunato. Sul suo orto non pioveva mai, mentre tutt’intorno, gli altri terreni erano sempre bagnati dalla pioggia. In questo contesto, qualche mese dopo sono nato io. Già prima di nascere, i padroni hanno voluto mettere su di me la loro impronta, dandomi il nome.

    Io, per loro desiderio mi sarei dovuto chiamare Domenico, mi chiamo Domenico; all’anagrafe però il mio nome è Mario. Complicato vero? Poco prima che nascessi alla famiglia dei padroni era morto un fratello di nome Domenico, per questo fu chiesto a mia madre di chiamare così il nascituro se maschio. Figuriamoci se mamma diceva no ai padroni.

    Quando mio padre si recò al Comune per dichiarare la mia nascita e gli fu chiesto che nome dare al bambino, mio padre, naturalmente, rispose: Domenico. L’ufficiale dell’anagrafe però gli disse che non era possibile, poiché già lui si chiamava Domenico e non poteva essere dato lo stesso nome del padre al figlio. Siccome un altro fratello, sempre dei padroni, si chiamava Antonio pensò di darmi il nome Antonio. Anche questo non fu possibile: mia madre si chiamava Antonia. Allora mio padre, piuttosto seccato, disse: «Mettetegli il nome Mario». Era il primo nome che gli venne in mente.

    Ecco perché il mio nome è Mario. Per rispetto e per fare piacere ai padroni dal primo giorno, mio padre e mia madre mi chiamarono Domenico e per tutti sono Domenico.

    Figuratevi il primo giorno di scuola quando ho scoperto che mi chiamavo Mario. Ma questa è un’altra storia che più avanti vi racconterò.

    Capitolo II - Il borgo

    Il borgo si divide in due parti ben distinte, il Centro con la chiesa e "glie Scarrafùne. Addirittura, tra le due parti vi era del campanilismo; quelli del Centro consideravano un po’ più campagnoli quelli de glie Scarrafùne". La mia famiglia, che veniva da un altro Comune, era considerata quasi alla stregua di quelli che adesso sbarcano a Lampedusa. Inteso in senso bonario e come sfottò.

    Al centro delle due porzioni del borgo vi erano i pozzi denominati la Sòda. In numero di sedici, erano l’unica fonte di approvvigionamento idrico per gli animali e per gli abitanti.

    Prima di arrivare al borgo vi era un pozzo chiamato La Fentana. Serviva da riserva idrica e in caso di siccità prolungata, il guardaboschi, che ne aveva la chiave, provvedeva a distribuire agli abitanti una quantità di acqua, necessaria solo per bere, in base al numero dei componenti della famiglia.

    Il riempimento dei pozzi avveniva mediante la raccolta delle acque piovane cadute durante la stagione autunnale.

    Che si ricordi, nonostante la completa mancanza di igiene, non si erano mai avuti problemi di infezioni.

    L’accortezza adottata era quella di abbeverare il bestiame ai pozzi che si trovavano più in basso, lasciando l’acqua da bere alle persone, in quelli che si trovavano più in alto. Per attingere l’acqua veniva usato un secchio di latta o di ferro (la plastica non si conosceva) legato ad una fune, della lunghezza pari alla profondità del pozzo. Il secchio veniva buttato giù con impeto e ripetutamente alzato e fatto ricadere. A volte succedeva che la fune si spezzasse ed il secchio precipitasse sul fondo del pozzo. In questi casi per recuperarlo si usava glie rambambine (una piccola ancora con diversi uncini che legata alla fune veniva fatta strisciare sul fondo del pozzo fino a ripescare il manico del secchio e quindi tirarlo su).

    Erano le donne ad essere incaricate all’approvvigionamento dell’acqua necessaria per bere e per le necessità della casa. Si recavano ai pozzi con la cannata (otre di terracotta) portata in equilibrio sulla testa. Tra la cannata e la testa mettevano la spara (il cercine) una tovaglia arrotolata.

    Per arrivare al borgo, bisognava percorrere circa quattro chilometri di strada dal centro capoluogo del comune. In quegli anni la strada era sterrata con la carreggiata stretta e, nonostante le buche che si creavano dopo ogni pioggia, poteva comunque supportare benissimo il pochissimo traffico esistente. Infatti, nella frazione esistevano solo due automobili una di Augusto e una del Commendatore. Vi era poi una lambretta ed un moto Guzzi. Tutto qua.

    Quando qualcuno si sentiva male o vi era un’urgenza, Giulio che aveva una voce possente, andava "all’ara Perróne e chiamava Pèppe Cellacchie", che aveva l’auto noleggio nel centro capoluogo, distante circa un chilometro e mezzo in linea d’aria. Giulio era, praticamente, il telefono senza fili del borgo.

    Nel 1940, poco prima che nascessi, fu costruita la linea elettrica che portò l’energia nelle abitazioni. Un primo segnale di modernità. Addirittura lungo le strade nella parte più signorile, vi erano delle lampadine che di notte le illuminavano… si fa per dire.

    Capitolo III - L’abitazione

    La casa che ci fu data per abitazione era vicino alla chiesa ed aveva la porta d’ingresso che dava sulla strada pubblica. Al lato destro era attaccata, come adesso, ad un’altra abitazione. Al lato sinistro, invece, vi era un piccolo spazio, infine vi erano le mura di un rudere che faceva angolo con la via pubblica La Cròce.

    Entrando in casa si accedeva ad un corridoio, alla fine del quale vi era un’altra porta che dava su un piccolo terreno adibito generalmente ad orto. Alla destra della porta principale si trovava un ampio vano che comprendeva un camino, il quale faceva intuire che quella era la cucina. Infatti, al lato sinistro del camino, vicino la finestra, era stata costruita la fernacèlla (un manufatto con due fori sopra, dove si poggiava il recipiente necessario per cucinare). Al disotto della fernacèlla uno spazio vuoto, dove si metteva la brace prelevata dal camino. Una specie di stufa che invece di andare a gas, che non c’era, si alimentava con la brace del fuoco. Quando mia madre faceva il sugo sulla fernacèlla, il profumo si sentiva per tutto il borgo ed io non resistevo ad inzupparci il pane. Tutto ciò provocava gli strilli di mamma che non voleva, ed anche questi venivano sentiti per tutto il borgo.

    Il pavimento era in lastrico (llàstreche) e non era facile tenerlo pulito, perché quando si passava la scopa di saggina, il cemento tendeva a sgretolarsi formando delle palline e tanta polvere. Le pareti laterali ed il soffitto erano annerite dal fumo del camino. Accendere il fuoco significava essere accecati dal fumo, a meno che non venisse aperta un po’ la porta; poco male, tanto gli infissi in legno permettevano l’ingresso de ’na felettìna

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