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La congiura delle passioni
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E-book299 pagine4 ore

La congiura delle passioni

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Info su questo ebook

Durante i mesi caldi dell'Unità d'Italia, Monte Saraceno, nome di fantasia di un paese dell'Appennino Lucano, è un microcosmo che ricalca i contrasti e le contraddizioni della Penisola. Pietrino, 'U Barone, l'Arciprete, il Notaro papà di Pietrino, 'A Masciara... Ciascuno alla ricerca di un'intesa per il bene della comunità, ognuno confuso ma non (ancora) travolto dagli eventi che agitano il Paese e che giungono attutiti fino all'epilogo, senza vincitori né vinti.La congiura delle passioniè un romanzo corale, con una ricostruzione storica accurata e lo stile brillante di Pietro De Sarlo.
“…una volta recuperata la memoria, solo il lungo, inesausto racconto può far guarire. Bisogna buttare fuori il male rinchiuso nell’anima.”
Pino Aprile


Quello che è sempre mancato nella storia del Mezzogiorno d’Italia è forse proprio un racconto come questo, un racconto che potesse diventare “epico” e opera teatrale o cinematografica”
Gennaro De Crescenzo

 
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2021
ISBN9788869601057
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    La congiura delle passioni - Pietro De Sarlo

    PARTE PRIMA

    Regno delle Due Sicilie: Pietrino

    1

    Tutti assorti nel novo destino/

    certi in cor dell’antica virtù

    «Pietrino... Pietrino alzati!»

    Nel torpore del dormiveglia Pietrino rimaneva immobile sotto la spessa coltre di coperte nella illusione che la mamma lo credesse ancora addormentato. Nella palazzata del Notaro Nicola Durante si spandeva sottile quell’aria dei giorni di festa: la colazione, il calpestio inconsueto del signor Notaro che trascinava mollemente i piedi dentro le babbucce infilate nelle pantofole di feltro. Persino Nannarella si presentava più tardi del solito e con minor premura e qualche chiacchiera persa in più, insieme alla sua capretta per mungerla nel cortile di casa e così aver pronto il latte.

    Mariannina, l’anziana domestica tolta in gioventù al duro lavoro nei campi e che ormai era parte della famiglia, a sua volta riempiva l’aria con il ticchettio delle stoviglie rigirate nel lavello, suoni allegri che giungevano a Pietrino ovattati fin lì, sotto le lenzuola di flanella insieme al vago odore di fumo dei carboni che, come tutte le mattine, stentavano a svolgere il proprio compito nella fornacella in cucina.

    «Forza Peppinella, dammi una mano.»

    Ah, ecco! Oggi non è domenica… è l’Ascensione… accidenti alle manie di pulizia di mamma! pensò Pietrino ascoltando il dialogo tra la madre e una delle altre tre domestiche, la più giovane, quella procace e forzuta adatta ai lavori più pesanti. Il più delle volte era ad andare a prendere l’acqua con il barile in testa giù alla fontana quando era necessario integrare le riserve che arrivavano tutti i giorni nei barili a dorso di mulo dalla sorgente nella campagna del Notaro.

    Il suono della voce gli giunse insieme al rumore fatto per togliere la grande caldaia appesa sul fuoco del caminetto dove si scaldava l’acqua per il bagno.

    «Pietrino alzati che il bagno è pronto!» urlò a quel punto la madre.

    «Mamma ma l’ho appena fatto… il giorno di Pasqua!» replicò que- sti tradendo la finzione del suo stare immobile sotto le coperte.

    Pietrino non sopportava fare il bagno. Odiava la sensazione di freddo che lo prendeva quando usciva dall’acqua tiepida della tinozza, che veniva posta per la bisogna nella sua cameretta e, nel breve frangente passato per venire avvolto negli asciugamani caldi tolti dalla sedia vicino al fuoco, veniva colpito dagli spifferi di aria frizzante che traversavano le imposte del balcone. Odiava la sua nudità dinanzi a Peppinella, più grande di lui solo di qualche anno, ma quanto bastava per turbarlo. D’altro canto aveva quasi nove anni! Odiava i riti di primavera. Il padre lo avrebbe portato dal barbiere per la seconda rasata a zero di stagione, per evitare pulci e pidocchi.

    Poi il primo bagnetto a Pasqua, il secondo all’Ascensione e ancora al Corpus Domini. D’estate si intensificava il ritmo. Per età o per altro era sempre in contraddizione con sé stesso: voleva il freddo, ma odiava i geloni d’inverno epperò gli piaceva la neve, ma non quando diventava ghiaccio e si intirizziva per il freddo in casa e fuori. In realtà non sopportava più niente e nessuno!

    Come Dio volle la tortura del bagno finì. Dulcis in fundo trovò i pantaloni corti ad attenderlo, invece di quelli lunghi invernali. Vestito di tutto punto, pronto agli scherni dei suoi compagni per l’odore di fresco e gli abiti puliti, finalmente si sedette per la colazione domenicale della famiglia.

    Il Notaro, signor padre, da un lato a capo della tavola posta al centro della grande cucina. Dal lato opposto la signora madre, Giuditta Magaldi e sul lato destro, rispetto al capofamiglia, Pietrino, unico figlio maschio e il più piccolo dei quattro avuti dai signori Durante, a portata di mano degli scapaccioni del signor padre Notaro, e poi la più piccola delle figlie e di fronte le altre due figlie maggiori. Vicino al focolare, che rimaneva spento solo a partire dalla festa di San Giovanni, il vecchio zio prete, don Antonio, a cui era concesso, data la veneranda l’età di sessantacinque anni e il sempiterno freddo che lo attanagliava, di fare colazione seduto innanzi al fuoco. Nascosto sotto la sua sedia il gatto soriano di casa. Si infilava lì tutte le volte che c’era Pietrino perché con lui nei dintorni aveva bisogno di rifugio e protezione. Il sacerdote era di piccola statura e mingherlino, aveva la chierica circondata da capelli bianchi e lanuginosi e la zimarra con qualche patacca di troppo. Per contro, sembrava avere una energia interiore a stento repressa e che incuteva soggezione. Aveva un suo quartino con l’ingresso posto in un vicolo secondario confinante con la palazzata e da cui entrava e usciva a piacimento, giorno e notte, la sua perpetua. Ma aveva anche un passaggio interno verso la palazzata da cui arrivava puntuale alle ore dei pasti, per accomodarsi con la famiglia della nipote e per accedere al locale adibito ad aula dove, a suon di verga e sganassoni, insegnava declinazioni, saper comporre e un briciolo di far di conto ai pargoli dei notabili del paese.

    Ricevuta una frettolosa e appena accennata benedizione dallo zio, che non si era neanche alzato dalla seggiola e a cui la famiglia aveva risposto con un altrettanto lieve segno di croce, invece del latte caldo da mescolare con l’orzo, e dove intingere i biscotti all’acqua, arrivò l’esclamazione di Mariannina con la pentola del latte in mano appena tolto dalla fornacella: «Il latte si è cagliato!»

    Donna Giuditta si fece nuovamente il segno della croce e rivolta al marito: «Don Nicola, brutto segno! Il latte appena munto è cagliato! Che dite voi? Se questo non è un brutto segno…»

    Il volto del Notaro scurì. Girò gli occhi intorno, prima sul figlio maschio, che istintivamente si ritrasse, e poi sulle tre femmine, rigide e impettite come conveniva a chi era di buona famiglia e ormai quasi in età da marito. Da tempo il padre a ogni piè sospinto si lamentava dei preparativi per dare dote e marito alle figlie, come si lagnava del mondo che era diventato instabile e, come diceva sempre più spesso, dove non si riusciva mai a capire a che partito darsi.

    «Donna Giuditta, sono i vostri parenti che mettono in subbuglio l’ordine delle cose e senza consultare invece coloro che hanno maggior giudizio. Vostro fratello Nicola Maria dove è? Fino a quando riuscirà a sfuggire alle guardie di Re Francesco, Dio Guardi! E Gaetano e Paolo, i vostri cugini? Uno non si sa dove sia ormai da mesi e l’altro in prigione con infami e batto…», il Notaro guardò le figlie riunite intorno al tavolo e lo zio prete e si fermò lì, concentrandosi sulla colazione.

    Donna Giuditta emise un sospiro preoccupato e tacque anche lei.

    Dal focolare la voce roca dello zio prete venne fuori d’improvviso: «Parenti che vi sono sempre tornati comodi... eh», sogghignò e aggiunse: «Cosa sta succedendo Dio solo lo sa!» indicando Il Giornale del Regno delle Due Sicilie piegato sopra una sedia vuota vicino al focolare. «Qui i giornali arrivano tre giorni dopo e i fatti sono contati chissà quanto dopo ancora il loro avvenimento. Scaramucce in Sicilia? Che vuol dire? Questo Garibaldo chi è e perché viene a invadere il Regno? Nessuno ci ha dichiarato guerra, Dio ci scampi e liberi!» sospirò dopo un sorso di orzo. «Tra Stati Sovrani retti da monarchi per Grazia Deo, e per di più imparentati, è d’uso, d’obbligo e cortesia dichiarare guerra e non arrivare all’intrasatta, senza onore come lanzichenecchi e briganti di strada e assaltare e produrre rovine! Allora» e riprese fiato «questo Garibaldo chi lo manda? Nessuno? E allora non è generale ma bandito, mi pare, o no?»

    Sempre più corrucciato il Notaro finì la colazione fatta solo di caffè d’orzo e biscotti all’acqua. Non si era mai sentito di contrastare le intemerate dello zio prete, uomo di pessimo carattere e sempre pronto a metter becco negli affari di famiglia. Fratello del padre della moglie del Barone e della madre di donna Giuditta, non aveva trovato accoglienza, a causa dell’umore acido, dal Barone, suo nipote acquisito, che pure era privo di un prete di famiglia. Per contro era un letterato che istruiva bene e a suon di vergate Pietrino, preparandolo così al ginnasio da fare a Napoli e, soprattutto, contribuiva non poco con le sue rendite al bilancio familiare, avendo in Giuditta la sua nipote prediletta. Poi aveva in mente di chiedergli – per il tramite della moglie si capisce – di contribuire alla dote delle sue figlie. Non erano anche le sue nipoti dopotutto?

    «Pare che Garibaldo sia sbarcato nei Reali Domini di là del Faro e nell’isola ci sia battaglia. Per il resto è meglio tacere. Sono tempi instabili e veramente è bene non parlare persino tra le mura domestiche», rispose con aria incerta il Notaro ammiccando verso la servitù solita a spettegolare e rivelare, nella coda alla fontana per l’acqua o in qualsiasi altra circostanza propizia, cose intime e di famiglia e, per di più, capite e infiorettate a modo loro.

    Nel mentre, udito qualche colpo deciso al batacchio del portone di casa, Mariannina si avviò a passo lento verso l’uscio che si trovava dopo la sala da pranzo e l’ingresso, con sputacchiera, che fungeva anche da sala d’attesa per lo studio notarile. Traversati i due locali che separavano la cucina dal portone e dal cortile e dopo un lungo tempo, tornò in silenzio con un pizzino piegato in quattro che diede al Notaro dicendo: «L’ha portato il discepolo del barbiere».

    Il Notaro lo lesse prima con stupore, poi con aria corrucciata e infine si alzò e lo gettò nel fuoco avendo cura, prima di allontanarsi, che fosse bruciato ben bene. Poi con fare urgente dando uno scapaccione al figlio, mentre gli passava vicino guastandogli la chioma appena pettinata, lo apostrofò: «Che fai lì impalato come un mammalucco. Sbrigati a finire la colazione che dobbiamo andare dal barbiere prima della Santa Messa».

    «Eh sì! Quel ragazzo ha già così poco cervello che, se lo scuotete pure in quel modo, quel poco che c’è si mescola e si confonde!» sogghignò alla scena lo zio prete, indispettito per non essere stato messo al corrente del contenuto del pizzino.

    Il Notaro intanto raggiunse la moglie, che si era recata nella stanza di servizio insieme a Mariannina per le disposizioni della mattinata, per infilarsi gli stivali.

    «Perdonate, ma che dice il biglietto? Chi lo ha mandato? Notizie di mio fratello e dei miei cugini?» chiese, con crescente premura, donna Giuditta al marito.

    «State serena. Il Barone, vostro cugino, era intimo di Re Ferdinando, che è nella Gloria dei Cieli, e di sicuro è anche nei favori del figlio Re Francesco, Dio Guardi, e troverà modo e maniera per sistemare le cose. Basta far passare questa insana ventata di ribellione» rispose il Notaro eludendo la risposta.

    «Che Dio ci salvi!» replicò la moglie con voce appena appena udibile torcendosi le mani e facendosi ancora una volta il segno della croce. «Le truppe del Re ridurranno questo Garibaldo a mal partito e per mio fratello sarà il disastro. Rimarrà ai ferri a vita e, peggio ancora, sarà espropriato dalle poche terre che ha e si rifaranno anche sui parenti. Paolo poi in quale prigione è? E Gaetano? Ci trascineranno tutti in rovina.»

    Dopo aver faticato non poco a mettere gli stivali, a causa della pancia pronunciata, il Notaro volse uno sguardo truce a Pietrino, questa volta pronto, e insieme si incamminarono verso l’uscio. Pietrino, a mezzo passo dietro il padre, sembrava turbato. Il padre, un uomo corpulento con la fronte stempiata gli sembrò per la prima volta incerto e preoccupato. Una persona certo diversa da quella che era abituato a vedere, impegnata a dare sempre ordini e pareri con assoluta certezza. Quella mattina, invece di sicurezza e timore, gli trasmetteva stranamente ansia e agitazione. E la madre? Gli era parsa pallida e smagrita, quasi consumata dalla pena che durava da qualche mese, da quando era iniziata la disgraziata ventura del fratello ribelle. Al tono sempre dolce sostituiva spesso reazioni spropositate e di improvvisa e breve isteria. Come era infelice quella mattina! Anche la mamma ora non gli voleva più bene.

    Donna Giuditta si era sposata che aveva solo diciassette anni, quando Nicola Durante era già un Notaro affermato con quasi il doppio degli anni. E diciassette anni giusti erano passati dal dì del matrimonio. Era sempre bella, nonostante il ciuffo bianco apparso sulla chioma corvina che portava in uno chignon compatto a cui sfuggiva, sul collo lungo e candido, qualche ciocca ribelle. La figlia più grande, Margherita, ora ne aveva sedici di anni e a seguire c’erano le altre due sorelle: Lucia e Agnese. Pietrino era arrivato quando ormai i genitori si erano rassegnati a non avere figli maschi. Ma per averlo era stato necessario portare a dorso di mulo donna Giuditta al Sacro Monte, fare voto di una bella vigna da dare all’Opera Pia che stava realizzando a Monte Saraceno il nuovo orfanatrofio della provincia di Lagonegro e chiedere l’intercessione della Madonna Nera di Viggiano. Il Notaro borbottava spesso che quella vigna gli avrebbe fatto comodo, ora che doveva provvedere alla dote per le figlie, e non mancava mai, quando lo rimproverava, di far notare al figlio che per essergli costato una vigna era venuto fuori troppo irrequieto, scontroso e insubordinato a tutto e, per sovrappiù, veniva allevato nella bambagia e viziato dalla madre e dalle sorelle.

    «Il sangue ribelle dei Magaldi ha preso! Invece di prendere il mio, più ponderato e prudente. Con le alzate di ingegno si va poco lontano! E basta un niente per far finire intere fortune in gloria!» si lamentava il Notaro con chicchessia.

    A Pietrino il sangue ribelle dei Magaldi non sembrava poi gran brutta cosa. Lui, sempre curioso e in cerca di avventure, ammirava lo zio Nicola Maria con quell’aria spavalda e sicura di sé.

    Giunti alla barberia di Armando, il Notaro, dopo aver bisbigliato qualcosa al padrone, si fece fare la barba, lasciando il figlio alle cure del discepolo del negozio che lo tosò per bene. Fatta la barba gli raccomandò di trovarsi puntuale alle undici alla Chiesa Madre per la Santa Messa e di arrivarci lindo e pinto come era e di non lasciarsi traviare dalle cattive compagnie.

    Pietrino si stupì e poi apprezzò la novità. Pensò che ormai fosse diventato grande. Finalmente libero, si mosse verso la piazza: temeva i lazzi dei suoi amici nel vederlo vestito a festa, camminava raso ai muri finché, a una svolta dietro l’angolo prima di arrivare in piazza, fu colpito da una zaffata di odore di selvatico e quasi si scontrò con Vicienz’ U Spiezzacuoll, il figlio di Maria ‘A Masciara, di un paio d’anni più grande e che si era già guadagnato un soprannome funesto per chi osava battersi con lui. Questi appena lo vide lo pigliò per il collo.

    «Signorì, non abbiamo un conto aperto?»

    A Pietrino si gelò il sangue. Con Pasquale, il figlio del fattore del Barone che veniva a casa sua insieme agli altri figli dei maggiorenti per prendere lezioni dallo zio prete, aveva l’abitudine, con gli altri amici, di tirare sassate agli sprovveduti ragazzi di campagna che arrivavano spaesati e alla spicciolata la domenica e per le feste nel paese. Un malaugurato giorno presero di mira per sbaglio anche U Spiezzacuoll. Una svista perché mai se la sarebbero presa con lui e, di certo, era difficile andare a spiegarglielo.

    Essere in cinque o sei pronti, con sassi e mazzafionde, a colpire in una imboscata singoli campagnoli era facile; diverso trovarsi invece ora faccia a faccia con Vicienz’, che, oltre a essere di una spanna più alto di lui, aveva pessima fama: viveva nei boschi in una capanna ed era il figlio di Maria ‘A Masciara. Una donna che incuteva timore solo a pensarla, che era capace di ogni fattura e persino di trasformare gli uomini in porci. A onore del vero, era anche capace di esercitare la magia bianca e a consolarli, tanto che alla bisogna e in alternativa al medico e al cerusico, o a mogli indisposte, ci si rivolgeva di nascosto anche a lei, andando a cercarla nei boschi quando non era in giro per il paese.

    Pietrino chiuse gli occhi, immobile, in attesa del colpo che sarebbe arrivato presto ma, invece del colpo, sentì una voce che a lui parve scendere dal cielo terso: «Lascialo stare! Non vedi che è più morto che vivo dalla paura?» e alle parole seguì una risata argentina. Pietrino aprì gli occhi per trovarsi di fronte Mirna e i suoi occhi viola, circondati da una selva di capelli neri, appena sopra una bocca vermiglia intorno a denti bianchissimi. Mirna era la sorellastra di Vicienz’, figlia anch’essa d’‘A Masciara ma di altro padre.

    Era slanciata, dalla vita esile e con il seno prosperoso. Indossava una maglia di lana lacera e una gonna che lasciava intravedere le caviglie sottili sui piedi piccoli e scalzi. Aveva quasi diciassette anni. A Pietrino passò subito la paura ma uno strano e ignoto sommovimento interiore lo colpì in modo ancora più impetuoso del terrore di prima e più doloroso di un pugno in faccia di Vicienz’. Pugno che non arrivò. Mentre gli arrivò chiara la squadrata di Mirna e la sua carezza.

    «Vattene, bello guaglione!» a seguire una risata compiaciuta della ragazza e di scherno di Vicienz’ mentre si allontanavano insieme.

    Pietrino fu trovato ancora mezzo stordito dai suoi amici. Tutti nelle sue stesse condizioni di rasatura, vestiti e pulizia e tutti stranamente lasciati liberi dai padri. Ma nessuno aveva quella mattina molta voglia di parlare né di dedicarsi ai soliti polverosi giochi. E poi Pietrino, che era il capo del piccolo gruppo, di voglia di parlare e di organizzare il manipolo dei suoi seguaci proprio non ne aveva sentimento poiché era tutto preso a capire cosa era quello squasso doloroso che lo aveva preso.

    Andarono quindi a cercare i padri, nella speranza di qualche tornese da giocare al tiro dei barattoli o per comperare un poco di nocciole, copeta e torrone nelle baracche che arrivavano nei giorni di festa in piazza. Non riuscendo a trovarli in nessuno dei posti dove erano soliti chiacchierare e, non trovandoli neanche nelle mescite e nelle locande dove a loro non era concesso entrare, dopo qualche altro tentativo svogliato si avviarono mestamente verso la Chiesa Madre giocando con malagrazia a saltafosso, evitando così le maleodoranti pozzanghere formatesi con lo svuotamento mattutino dei pitali. Pratica vietatissima dal regolamento del Comune ma, nonostante la multa prevista di carlini quattro, questi venivano vuotati dagli umori della notte direttamente sulla strada da balconi, porte o finestre. Però per chi non aveva giardino in paese portare i bisogni al letamaio fuori l’abitato era fatica supplementare impervia avendo già tanto da agitarsi per procurarsi il pane ogni giorno.

    Decisero, su impulso di Pietrino, di passare per un vicolo secondario, camminando sotto un architrave che collegava due abitazioni scansando la povera mobilia, poggiata in strada, delle case in cui si procedeva al rinnovo annuale della calce alle pareti. Pietrino sperava così di incontrare nuovamente Mirna, che non vedeva mai nelle vie maestre, e capire l’origine del suo scombussolamento. Invece di Mirna incontrarono i loro genitori che uscivano dal piccolo uscio di un sottano. Fecero appena in tempo a nascondersi senza farsi notare. Insieme ai grandi c’erano un paio di forestieri e Pietrino riconobbe, nonostante l’ampio tabarro incongruo con la stagione, lo zio Nicola Maria.

    Rimasero ammutoliti e si giurarono di non dire nulla a nessuno. Per suggellare il tutto Pasquale tirò fuori dai calzoni corti un temperino e tutti si ferirono a turno un dito, mescolando il loro sangue per un patto indissolubile.

    La chiesa era piena, come nelle occasioni di festa quando gli unici riti erano concelebrati nella Chiesa Madre. Le famiglie dei galantuomini avevano i propri banchi ed erano le ultime a entrare, mentre le popolane si affrettavano ad arrivare per trovare posto a sedere. Gli uomini, galantuomini e no, rimanevano invece in piedi concentrandosi nelle navate laterali e in fondo alla chiesa, quando non fuori sul sagrato a fumare, sputare tabacco e chiacchierare o concludere alleanze e affari. La domenica e le feste di precetto lo zio prete concelebrava nella chiesa parrocchiale e non, come per le messe quotidiane, nella cappella di famiglia. Il primo banco era riservato alla famiglia del Barone, ma anche il nobiluomo rimaneva in piedi. Così la sua alta figura sempre all’erta, al massimo a capo chino, mentre gli altri erano in ginocchio, in quella posizione di primo piano e accosta alla navata centrale pareva primeggiare dinanzi a Dio e agli uomini. E, in effetti, così era. Giunti nella chiesa già affollata, i marmocchi occuparono i banchi riservati agli aspiranti chierichetti appena in tempo per l’inizio della funzione che principiò, anche se con doverosi cinque minuti di ritardo per attendere, per un minimo di creanza, il Barone che quel giorno non era ancora giunto al suo posto.

    «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sanctis. Amen.»

    C’era la solita folla delle feste comandate, quando la Santa Messa cantata delle undici era il prologo dei festeggiamenti, a cui seguiva la processione e il pranzo dei giorni di festa.

    Pietrino aveva individuato Mirna fuori dalla chiesa, sul sagrato, che vendeva per un paio di tornesi bigliettini porta fortuna, estratti con il becco da un pappagallino colorato da una piccola scatola, che faceva finta di leggere indovinando futuri rosei agli sprovveduti e che poi riponeva di nuovo in bell’ordine. Vedendola nel suo consueto armeggiare domenicale gli era sembrato che tutto tornasse nella norma ma, appena la vide ridere con un bel campagnolo vestito a festa, sentì una calda e insopportabile vampata assalirlo fino al cervello. A fatica aveva nascosto l’emozione e ora continuava a cercarla in Chiesa pur sapendo che non le era consentito l’ingresso a causa dello scandalo che dava tutta la sua famiglia.

    Al Confíteor Deo Omnipoténti dimenticò di battersi il petto tre volte ed ebbe uno scappellotto dal sacrestano. Al Glória tibi, Dómine le gambe gli tremavano, si perse tutta la predica e al  Tantum ergo sacramentum / veneremur cernui la testa gli girava come una giostra e solo il fatto che la sua attenzione fu attratta dall’ingresso del Barone in Chiesa, con una divisa blu piena di ornamenti d’oro e con pantaloni bianchi immacolati e lo spadino al fianco, gli impedì di svenire.

    Il Barone era un bell’uomo di altezza superiore alla media e nonostante i suoi cinquanta e passa anni era ancora muscoloso e forte grazie anche ai continui esercizi di scherma di cui era maestro e appassionato. Il suo ingresso

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