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Gli sposi di via Rossetti
Gli sposi di via Rossetti
Gli sposi di via Rossetti
E-book169 pagine2 ore

Gli sposi di via Rossetti

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Info su questo ebook

A volte la verità è così ovvia da nascondersi meglio di qualsiasi improbabile segreto... In un'inedita – almeno per Tomizza – commistione fra romanzo storico e giallo, "Gli sposi di via Rossetti" racconta la vicenda di un misterioso duplice omicidio e dell'indagine, condotta privatamente e a distanza di anni, da uno scrittore interessato alla cronaca locale. A monte di tutta la vicenda c'è Trieste nel 1944, occupata dalle truppe tedesche e coinvolta suo malgrado in una guerra sanguinosa. Sullo sfondo del terribile conflitto etnico fra italiani e sloveni, una giovane coppia viene trucidata, apparentemente senza motivo. Il mistero della morte dei due sposi, tuttavia, si perde fra le molte vicissitudini della guerra e degli anni successivi. Almeno fino a quando lo scrittore, negli anni Settanta, non trova un plico di lettere enigmatiche, che potrebbero fare nuova luce su quel vecchio caso dimenticato... -
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560457
Gli sposi di via Rossetti

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    Anteprima del libro

    Gli sposi di via Rossetti - Fulvio Tomizza

    Gli sposi di via Rossetti

    Copyright ©1986, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560457

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Parte prima

    Questa storia, che in tempo di minacce catastrofiche e di apatia susciterebbe oggi vasta impressione, è largamente ignorata nella mia città. In seno alla minoranza etnica è invece conosciuta fin troppo, ma vi si tende a non rivangarla, per quel senso di turbamento che insorge di fronte a un destino particolarmente crudele o che si annida nei superstiti di una tragedia. Alla resistenza a parlarne si alternano reazioni differenti, spesso fra loro opposte. La vicenda d’amore dei coniugi Vuk è stata tanto innalzata, che è quasi naturale si voglia ricondurla nei giusti termini, o s’intenda addirittura smontarla.

    Mi trovo insomma alle prese con una materia che scotta, anche perché ha investito, e quarant’anni dopo continua a investire, un intero gruppo etnico ancora diviso nell’indicare i responsabili del duplice, anzi triplice omicidio. Per il partito cattolico, o per quello più genericamente conservatore o benpensante, a irrompere armato di pistola nell’abitazione di via Rossetti il 10 marzo 1944 fu un commando rosso. Per gli altri (comunisti, progressisti, laici, quanti cioè ritengono di camminare al passo della storia), i tre assassini in trench chiaro e basco blu non potevano che essere bianchi, vale a dire collaborazionisti dei tedeschi. La sola cosa certa è che erano sloveni, come le loro vittime, e come tutti coloro che ancora si mostrano interessati al grave fatto.

    Quando, al termine di una mia conferenza al Slovenski Klub di via san Francesco, un amico poeta ed editore sloveno mi affidò le lettere dal carcere di Stanko Vuk alla moglie Dani, lettere che sarebbero state pubblicate nell’originale italiano e che richiedevano pertanto una introduzione italiana, mi stavo occupando con curiosità ma con scarso entusiasmo di un illustre nostro personaggio del Settecento. Mi trovavo a buon punto con la ricerca e non intendevo assolutamente interromperla. Pur non estasiandomi, il lavoro mi aiutava a tirare avanti, a dimenticare che stavo varcando la soglia dei cinquant’anni; e, dato il mio metodo, il temperamento e il fatalismo, temevo di non riuscire a riprenderlo qualora fossi stato tirato in altra direzione. La conferenza dagli sloveni avveniva alla vigilia del mio compleanno. Il giovane poeta vi aveva partecipato esclusivamente per intrappolarmi con la cartella di dattiloscritti piuttosto ingombrante.

    Non so negare un favore a uno della minoranza, per i torti da questa subìti dal gruppo maggioritario; e qui si trattava di una loro pubblicazione nella nostra lingua. Per vedere di cavarmela nel minor tempo e nel miglior modo, incominciai a sfogliare la raccolta di un’ottantina di lettere scelte tra le oltre quattrocento che invece avrebbero trovato quasi intero spazio in un’edizione tradotta (!) nella madrelingua.

    Adesso dovrei spiegare che cosa subito mi colpì di quella lettura forzata, verso la quale ero prevenuto anche perché mi sembrava che gli epistolari dalle carceri, dal fronte, dal confino, avessero fatto il loro tempo. M’incuriosiva apprendere come uno sloveno, in corrispondenza con la moglie sposata da poco, riuscisse a esprimersi teneramente in una lingua imposta e probabilmente odiata. Ebbene, lo scrivente della periferia di Gorizia dimostrava di essersi meritato l’insolita laurea in scienze diplomatiche e consolari conseguita a Venezia, dove era stato dirottato dalle leggi fasciste che progressivamente avevano fatto chiudere tutte le scuole d’idioma diverso da quello nazionale.

    Ma il suo stile e il lessico fin troppo antiquati e ricercati, se da un lato gli assegnavano una sarcastica rivincita sugli odiosi decreti, dall’altro finivano per mortificarne la dichiarata ambizione di poeta in diretto dialogo con la propria musa, non restia a giudicarlo. Lui ne temeva il giudizio non per l’espressione linguistica che legittimamente gli doveva sembrare più che accettabile, ma piuttosto per la qualità del suo amore che la lingua semistraniera tendeva a far piegare ancor più dal sublime verso il dolciastro. Vero è che egli stesso, come insofferente, ogni tanto riusciva a contrabbandare sotto gli occhi dei censori in uniforme metafore ed epiteti della loro parlata nativa, e che quasi a mediare tra le due lingue nazionali, la proibita e la obbligata, affiorassero dialettismi a cui non sfuggono neppure gli scrittori più fieri di appartenere alla cultura dominante di questa zona di confine. Ma al di là delle angustie, dei sotterfugi e dei passaggi obbligati, s’imponeva proprio la costanza del suo sentimento che si sarebbe espresso idealmente con uno strumento musicale o con la sola voce.

    Presi a considerarlo un amore di prima della guerra, ossia a comprenderlo tra quei beni spirituali e quei prodotti naturali la cui autenticità era andata esaurendosi col progredire del secondo conflitto mondiale, per cessare quasi del tutto in tempo di pace e di benessere. Una dedizione così tenera, ingenua, e nel contempo così imperativa, non doveva più trovar posto nella vita quotidiana, ma neppure mi sembrava vero potesse essere stata soffocata in un attimo, e nel modo crudele accennatomi dall’amico poeta, il quale aveva pensato di testimoniarla in un libro, magari con la mia garanzia.

    Era a questa funzione che cercavo di sottrarmi. I cinquant’anni mi trovavano in uno stato di prostrazione e di disinganno a cui non ero preparato. Mi mancavano la facoltà di rassegnazione all’avviato declino e la forza di ribellarmici. Come osservavo la mia vista già tanto acuta appannarsi dietro le lenti ormai indispensabili nel leggere e nello scrivere, così sentivo affievolirsi speranze, ambizioni, affetti, compresi quelli riservati alla famigliola che mi ero costruito. Presto avrei dovuto limitare le lunghe e agili passeggiate, un giorno più lontano appoggiarmi a un bastone; per tacere di altre limitazioni e rinunce, dei malanni inevitabili e di quelli imprevisti. Non scorgevo, come i più scorgono, le incalcolate compensazioni che la vecchiaia sembra riserbare. Né cercavo, pur avendo i mezzi, di accaparrarmele vestendo bene, mangiando meglio, viaggiando con metodo e larghezza. Sapevo che a un certo punto questa neutra stagione di agi concreti e di quiete interiore la si accetta persino con entusiasmo, ma tale adeguamento avrebbe comportato, dal mio punto di vista, quasi una ricusazione dell’uomo che ancora sentivo di essere.

    Il personaggio settecentesco, a cui mi stavo tiepidamente dedicando, era stato un po’ il padre degli illuministi della Milano teresiana: aveva finito i suoi giorni deprecando l’avanzata dell’orda di Napoleone, risoluto a schivarla a costo di prendere il veleno. E intanto, in causa col figlio del primo matrimonio dopo un’annosa lite con la seconda moglie per identici motivi d’interesse, amministrava solo soletto la propria vecchiaia inventando decotti e cataplasmi contro il catarro, l’arteriosclerosi e le emorroidi, e li raccomandava caldamente al coetaneo rimasto sempre in patria. Anche per un biografo in non particolare rottura col mondo l’intera esistenza del personaggio si manifestava in quel deludente declino. Lo avrei ripercorso, rivissuto, immaginato, per scongiurare la mia involuzione fisica e spirituale, oppure per prepararmici?

    Ed ecco capitarmi tra le mani le lettere di Stanko Vuk: un inno d’amore alla mogliettina e alla vita, levato dal fondo di un carcere. Il passaggio si rivelò troppo brusco perché mi potessi subito decidere a quale dei due progetti dare la preferenza, e non perché si escludessero a vicenda, bensì per il mio personale pormi di fronte a essi. Il vecchio conte del Settecento, precorritore anche di un certo nazionalismo giuliano, non amava la vita meno dell’antifascista sloveno. Tentando due immagini, si potrebbe figurare che egli cercasse di tenerla stretta nel pugno violaceo, mentre il secondo ne era così pieno da spargerla in ogni verso con le dita allargate. Il guaio era che io la amavo poco o nulla. Sicché presto avrei dovuto scegliere se trascorrere qualche anno proiettato verso il mio futuro così poco invitante, se rivolto a un passato gradevole ma irrecuperabile.

    La ricostruzione dei casi di un uomo vissuto in un tempo remoto mi avrebbe comportato nessuna noia e non molte soddisfazioni, salvo quella di addomesticarmi con un secolo, a dir poco, curioso. Al contrario, solo l’avvicinarmi pur con le migliori intenzioni al vespaio di una minoranza etnica, che tale essa diventa non appena lambita, mi avrebbe attirato le ire di almeno uno dei suoi gruppi, e mi sarei visto collocato nella categoria dei loro stabili detrattori.

    Mi lasciai ancora guidare da ragioni in prevalenza intime, private, che la lettura delle appassionate lettere alla moglie riponeva in primo piano. A questo punto non sarà difficile arguire che quell’amore coniugale parlava direttamente al mio, colonna portante della pienezza trascorsa e causa non ultima dell’attuale scoramento.

    Avrei avuto le mie buone ragioni per soffermarmi con cattiva compiacenza sui momenti di stasi, addirittura di caduta, di un rapporto che più non mi si rivelava armonioso come all’inizio; oppure condividere le considerazioni non infondate dei superstiti su come le circostanze tragiche avessero esaltato e insieme salvato una relazione coniugale per taluni già incrinata e per i più destinata a impoverirsi come ogni altra. Sembra quasi un paradosso da parte di uno scrittore di oggi, ma dal più profondo del cuore desideravo che le cose non stessero in questi termini. Mi ero ormai tutto schierato dalla loro parte, sia perché la loro passione mi convinceva e loro ampiamente si meritavano tale partigianeria, sia (e questo è ancora più assurdo) per tornare a difendere dall’usura del tempo e dalla mia stessa sfiducia l’unico vero affetto della mia vita.

    Le mie passeggiate pomeridiane incominciavano da via Rossetti, a una decina di metri dal portone di casa. Percorrevo quel primo tratto di strada, attraversavo il viale dell’Acquedotto, affrontavo con buon passo l’improvvisa erta per trovarmi sulla parte di nuovo pianeggiante ma alta della via, tra un verde che da oltre i muri a protezione delle ville si riversava e poi cresceva sulla strada per farne anche di essa un viale alberato ma senza semafori. Di solito procedevo in fretta lungo il primo tratto di caseggiato anonimo dove i due coniugi avevano abitato durante i quattro mesi del loro matrimonio spensierato e dove, oltre tre anni dopo, si compì il loro destino. Preferivo prendere una delle stradine in ripida salita che si susseguivano parallele dopo la nuova chiesa dei frati francescani e conducevano tutte, tra villini e poi casette rustiche coi loro orti, al colle di Chiadino sul quale si respirava aria di paese e già aria di Carso.

    In una di quelle viuzze tortuose e in forte pendio, la via dei Porta, alle spalle della casa dei Luzzatto Fegiz che sta sull’angolo con la via Rossetti, affacciata al parco Engelmann sorgeva, sempre a mia insaputa, l’abitazione dei genitori di lei, con chiare pretese di villa, dove i giovani sposi salivano per il pranzo e la cena. Da qui il mio passo rallentava, non solo per risparmiarmi il fiatone, ma soprattutto per abbandonarmi a una vista più congeniale di quella offerta dalla città in basso. Quante volte mi ero soffermato davanti a quel cancello di ferro sempre chiuso e con il nome della proprietaria sbiadito e arrugginito, a ribadire che il villino fosse da anni disabitato. Mi aveva sorpreso che il quartiere più ricercato di Trieste fosse abitato anche da sloveni convinti e fieri di esserlo, come lo comprovava la grafia corretta dei due cognomi della signora Emma Colja¹ vedova Tomažič. Ricordo anche di aver fatto un pensierino su quella casa a due piani probabilmente in vendita, con l’orto e qualche albero da frutto davanti, il garage, la cantina, un alto tiglio dietro, la breve gradinata d’ingresso, il vestibolo a vetrata, un balcone che doveva spaziare sull’intera città e, curioso motivo di distinzione, con tratti di bugnato a semiarco su porte e finestre e alternato lungo le cantonate. Vi avevo del tutto rinunciato soltanto dopo aver appreso che faceva parte di un lascito a un’istituzione slovena.

    Ora non ripetevo le mie passeggiate quotidiane con mèta Chiadino, ma visitavo i luoghi di coloro che non sapevo chiamare se non coi loro nomi di battesimo, come volessi rafforzare la loro unione e avvolgerli di un sentimento solidale e insieme paterno. Sostando davanti al portone della loro nuda casa dai poggioli semicircolari, poi sotto il balconcino di Dani fidanzata, provavo ciò che secondo una delle sue poche espressioni direttamente pervenuteci provava lei ogniqualvolta rivedeva il marito nel parlatorio del carcere: un po’ di umido intorno al cuore.

    La storia di Dani e Stanko non si limitava al loro triste caso, aveva il suo contesto politico, sociale, culturale e geografico, i suoi coprotagonisti e i comprimari di un’attrattiva per me spesso non inferiore. Il mio interesse non li escludeva, mostrava anzi di volersi trasformare in un più esteso coinvolgimento. Una vicenda non trascina se tutte le sue componenti non rispondono a un centro e se non muovono pure esse qualche cosa dentro di noi. Mi viene subito di osservare che Dani Tomažič in Vuk era sorella del Pino Tomažič, imputato maggiore al processo del Tribunale speciale che finirà per prendere il suo nome e che lo condannerà a morte, mentre il cognato Stanko subirà la condanna a quindici anni di reclusione. Il loro padre è quasi esclusivamente conosciuto in città per Pepi s’ciavo, il proprietario del più

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