Scuole e maestri dall'età antica al Medioevo
Di Luigi Russo e Laura Mecella
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Anteprima del libro
Scuole e maestri dall'età antica al Medioevo - Luigi Russo
Laura Macella, Luigi Russo
Scuole e maestri dall’età antica al Medioevo
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di
Scienze Umane dell’Università Europea di Roma
La collana è peer reviewed
Per l’immagine di copertina l’editore è disponibile per gli eventuali aventi diritto.
EDIZIONI STUDIUM - ROMA
Copyright © 2017 by Edizioni Studium - Roma
ISBN: 9788838245329
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
PREMESSA
La figura del maestro fra antichità e contemporaneità - Giuseppe Mari
«Morfologia» delle culture e «forma» dell'educazione classica nell'opera di H.-I. Marrou - Giuseppe Tognon
Assistant professor: ruoli e pratiche didattiche fra antico e moderno* - Francesca Romana Nocchi
Molestus rudimentorum labor: osservazioni sull’insegnamento elementare - Claudio Giammona
I longobardi e la scuola - Lidia Capo
Suos liberaliter instruxit: l’insegnamento di Gerberto d’Aurillac - Laura C. Paladino
Un maestro severo nelle memorie di Guiberto di Nogent - Luigi Russo
Eloisa e il filosofo pregiuidizi e stereotipi tra storia della lettura e delle idee - Riccardo Fedriga
Un maestro nell’età dei paleologi: Massimo Planude e la tradizione sulla storia di Roma a Bisanzio* - Laura Mecella – Umberto Roberto
INDICE DEI NOMI
CULTURA STUDIUM - Nuova serie
Laura Mecella - Luigi Russo (edd.)
Scuole e maestri dall’età antica al medioevo
Atti della Giornata di Studi
Roma, 10 dicembre 2015
PREMESSA
Papà, spiegami allora a che serve la storia» [1] . La domanda, formulata in apertura di un libro di metodologia della storia ancora oggi attuale, fa capolino al momento di dar conto di questa raccolta di studi dedicati alla storia della scuola, dalla Roma di età imperiale fino alla Bisanzio di fine XIII - inizio XIV secolo, passando per alcune delle figure più significative di maestri d’epoca medievale di cui è rimasta traccia. Il volume raccoglie gli atti di una giornata di studi tenutasi presso l’Università Europea di Roma il 10 dicembre 2015, con la quale il corpo docenti del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria presso la medesima Università, insieme ad alcuni insigni specialisti del settore, ha inteso proporre a un pubblico – si spera – quanto mai ampio un contributo sulla storia del sistema scolastico tra mondo antico ed epoca medievale.
Se la riflessione di Giuseppe Mari (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) verte sulla considerazione sociale goduta dai maestri e il ruolo che questi hanno ricoperto (o dovrebbero ricoprire) nella società, in un singolare raffronto tra l’antichità e il nostro presente, quella di Giuseppe Tognon (Lumsa, Roma) offre una nuova lettura della celebre Storia dell’educazione nell’antichità di H.-I. Marrou, un classico in questo campo di studi. A tali saggi di carattere introduttivo fanno seguito alcuni contributi di carattere più specifico: mentre Francesca Romana Nocchi (Università degli Studi della Tuscia ) si concentra sulla figura, generalmente trascurata, dell’assistente del maestro, con particolare riferimento all’età imperiale romana, Claudio Giammona (Sapienza Università di Roma) affronta il tema dell’istruzione elementare dedicandosi soprattutto all’analisi di trattati e testi grammaticali di lingua latina; infine, Lidia Capo (Sapienza Università di Roma) scandaglia la scarsa documentazione disponibile nel tentativo di ricostruire parzialmente le varie forme d’istruzione in età longobarda, non senza cogliere interessanti spunti di riflessione anche per la nostra contemporaneità. A singole personalità è invece dedicata l’ultima sezione del volume, nell’intento di riportare all’attenzione di un pubblico più vasto l’apporto dei maestri del passato nel loro dialogo con gli allievi: Gerberto di Aurillac, poi divenuto papa con il nome di Silvestro II, è oggetto della trattazione di Laura C. Paladino (Università Europea di Roma/École Biblique et Archéologique Française de Jérusalem); Luigi Russo (Università Europea di Roma) si occupa dell’oscuro e severo maestro Salomone, che avviò agli studi l’abate Guiberto di Nogent; al complesso rapporto intellettuale tra Abelardo ed Eloisa è dedicata la ricerca di Riccardo Fedriga (Università di Bologna), mentre Laura Mecella ed Umberto Roberto (Università Europea di Roma) presentano la figura e l’attività di Massimo Planude, soprattutto in relazione alla raccolta di testi di storia romana nota come Excerpta Planudea. Si tratta di pagine non trascurabili della storia della media aetas poi passata sotto il nome di medioevo
; in particolare, è parso utile indagare una fase che, pur caratterizzata da un indubitabile sforzo educativo, appare generalmente trascurata nella manualistica, attenta piuttosto alla nascita e all’affermazione del fenomeno universitario nei secoli XII-XIII.
Del resto, già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso Carla Frova, in un libretto agile e prezioso sull’educazione medievale, ricordava il crescente spazio occupato dai problemi relativi all’istruzione, e la necessità di avviarne una riflessione più approfondita anche in campo storico [2] : una sfida che conserva oggi grande attualità, visti i ripensamenti e le incessanti riforme cui è andata incontro la scuola dell’obbligo negli ultimi decenni. Se questi saggi avranno contribuito in minima parte a riaprire il dibattito – ormai annoso – sui rapporti tra scuola e società, la disciplina storica avrà dimostrato ancora una volta la propria spiccata valenza formativa per le coscienze dei cittadini dei nostri giorni.
Nel licenziare questo lavoro, i curatori esprimono i più sentiti ringraziamenti al Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma, che ha generosamente finanziato sia la giornata di studi che la pubblicazione del volume.
Roma, gennaio 2017
Laura Mecella – Luigi Russo
[1] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino 2009 ²(ed. orig. Apologie pour l’histoire ou mètier d’historien, préface de J. Le Goff, édition critique préparée par E. Bloch, Paris 1993), p. 7. L’attualità della domanda è peraltro dimostrata dal recente volume di S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, Milano 2016 (ed. orig. Paris 2015).
[2] C. Frova, Istruzione e educazione nel Medioevo, Loescher, Torino 1973, p. 9 (disponibile in formato digitale al seguente url: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/frova/prefazione.htm ).
La figura del maestro fra antichità e contemporaneità - Giuseppe Mari
Riflettere sul maestro risulta oggi particolarmente rilevante a causa non solo della emergenza educativa
, ma anche del disagio riconoscibile tra le figure professionali di cura
, inclusi gli insegnanti. Il fenomeno è di proporzioni tali da aver indotto a coniare un’espressione specifica per identificarlo (il burn out
[1] ) e un apposito approccio di ricerca allo scopo di fronteggiarlo e – per quanto possibile – portarlo a risoluzione.
Certamente si possono identificare ragioni congiunturali (soprattutto – a mio avviso – in riferimento alla crisi del principio di autorità e alla conseguente esplosione del narcisismo), ma ritengo che il problema riguardi anche la messa a fuoco dell’identità del docente (più in generale, dell’educatore), collegata alla identificazione di cosa connoti l’educazione distinguendola da altre forme di cura della persona, e la scuola come istituzione originale. Per questa ragione penso che una ricognizione di tipo storico (che qualificherei come genealogica
e non archeologica
) possa giovare all’intento di raccogliere la sfida del presente.
In particolare, ritengo importante cogliere che da sempre la figura del docente è esposta al fraintendimento pur essendole associato un ruolo pubblico e riconosciuto (affronterò la questione nel primo paragrafo). È rilevante cogliere questo allo scopo di evitare inutili geremiadi
sul presente come se il passato sia in se stesso migliore: generalmente, quando s’impone questo atteggiamento, significa che c’è un deficit di coscienza storica. Il secondo paragrafo intendo dedicarlo alla considerazione dei tratti distintivi del maestro antico, focalizzando l’attenzione su quanto rendeva autorevole la sua figura e sporgendomi sul presente alla luce dei riscontri antichi. Da questi trarrò spunto per affrontare la sfida odierna – nell’ultimo paragrafo – con lo scopo di problematizzare il concetto di competenza
il cui attuale rilievo – a mio avviso – è sintomatico della sfida educativa che abbiamo di fronte e dei rischi involutivi che la insidiano, quindi anche del disagio ad essa correlato.
[1] Cfr. Ch. Maslach-P.M. Leiter, Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Erickson, Trento 2013 (ed. orig. San Francisco 1997). Sul disagio adulto in generale, cfr. M. Crotti, Riconoscersi sulla soglia. Pensare la vulnerabilità per costruire la relazione educativa, Franco Angeli, Milano 2013.
1. Il maestro
antico: una figura di peso
, ma con una contraddizione eloquente
1.1. Il docente come maestro
Il vocabolo consueto – nel mondo antico – utilizzato per identificare colui che insegna, reca una connotazione precisa, quella della magisterialità
intesa come prevalenza
. In latino il nesso è immediato, rimandando il termine magister al vocabolo magis che significa «più». In forma analoga, tuttavia, possiamo interpretare il paidagogos greco come «colui che guida» (il vocabolo rimanda al verbo ago, «guidare»), quindi esercita un’autorità. L’ebraico non è da meno: il termine rabbi deriva da rav («grande»), quindi c’è una chiara assonanza con la magisterialità
latina e con la autorità
greca, le quali hanno alle spalle la tradizione indoeuropea. Infatti, in forma analoga, il termine sanscrito guru (dalla radice gar, «pesante», collegata al greco barys e al latino gravis), che rimanda all’autorità (intesa come gravitas), allude a colui che sa «disperdere» ( ru) l’«oscurità» ( gu), per questa ragione è titolato a guidare il discepolo [1] .
Quanto precedentemente evocato rimanda all’autorità educativa, rispetto alla quale la cultura del XX secolo è stata particolarmente reattiva. La critica dello scozzese Alexander Neill (il maestro elementare e cultore di studi pedagogico-letterari che, nel 1921, fondò la scuola di Summerhill, improntata a principi antiautoritari) è esemplare al riguardo. Nel testo che pubblicò come teorizzazione pedagogica della sua esperienza educativa, scrive:
Il bambino plasmato, condizionato, represso, disciplinato […] vive in ogni angolo del mondo. Vive nella nostra città dalla parte opposta della strada. Siede nel banco noioso di una scuola noiosa; più tardi sarà seduto davanti alla scrivania ancor più noiosa di un ufficio, o starà al banco di una officina. È docile, fedele all’autorità, timoroso delle critiche e fanatico nel desiderio di essere normale, convenzionale e corretto. Accetta senza porsi domande quel che gli viene insegnato e trasmetterà tutti i suoi complessi, le sue paure e le sue frustrazioni ai figli.
E precisa:
La tragedia dell’uomo è che il suo carattere può venire plasmato come quello del cane. Non si può modificare il carattere di un gatto, animale superiore al cane. Si può instillare nel cane una cattiva coscienza, ma nel gatto no. Eppure molti preferiscono i cani, perché la loro obbedienza, il loro scodinzolare servile sono una dimostrazione evidente della superiorità e del valore del padrone. L’educazione dell’asilo di infanzia è molto simile all’educazione dei cuccioli; il bambino frustrato, al pari del cucciolo frustrato, si trasforma in adulto inferiore ed obbediente. Come educhiamo i cani a rispondere alle nostre necessità, così educhiamo i bambini. Anche il cucciolo umano deve stare pulito, non abbaiare troppo, obbedire al fischio, mangiare quando noi lo riteniamo conveniente.
Termina:
Ho visto centinaia di migliaia di cani obbedienti e servili a Berlino, nel 1935, quando Hitler, il grande allevatore, fischiava i suoi ordini [2] .
La prospettiva è chiara: l’autorità viene respinta perché asservisce. La critica è aggravata dalla considerazione della addestrabilità
dell’essere umano piuttosto che della sua educabilità
. Già gli antichi però avevano chiaro che il vincolo di dipendenza non è sempre da ricondurre all’assoggettamento, esprimendosi anche nella forma – del tutto contraria – dell’affermazione di sé attraverso il legame d’amore. Ne offre riscontro la più antica testimonianza letteraria di che cosa sia una relazione educativa, quella che – nell’ Iliade – descrive l’incontro fra Achille e il suo antico maestro Fenice. Questi si rivolge all’eroe con un tono che tradisce un forte coinvolgimento affettivo (IX, 485-495, trad. it. R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1950):
Io ti ho fatto quale tu sei, Achille simile ai numi,
ché t’amavo di cuore: e tu non volevi con altri
né andare ai banchetti né mangiar nella casa,
senza ch’io ti ponessi sopra le mie ginocchia
e ti nutrissi di carne, tagliandola, ti dessi del vino.
E tu spesso la tunica mi bagnasti sul petto,
risputandolo, il vino, nell’infanzia difficile!
Così ho sofferto per te molte cose, molto ho penato,
pensando questo, che i numi non davano vita a un mio seme
nato da me; di te, Achille, simile ai numi, un figlio facevo,
perché tu un giorno tenessi lontano da me l’oltraggiosa sventura.
La risposta di Achille esprime il medesimo tono familiare (IX, 607-619):
Fenice, babbo vecchio, alunno di Zeus, di tal gloria
non ho bisogno; dal destino di Zeus voglio aver gloria,
che mi seguirà fra le navi curve, fin che respiro
mi resta in petto e le ginocchia si muovono.
[…]
Bello è che tu con me curi chi anche me cura:
regna alla pari con me, abbi metà dell’onore.
Costoro andranno nunzi, ma tu rimarrai qui a dormire,
sopra morbido letto; all’apparir dell’Aurora
vedremo se tornarcene a casa o restare.
Anche la più antica testimonianza storica di che cosa sia una relazione educativa – quella del Giuramento del medico – ha lo stesso tono confidenziale e domestico. Infatti, il giovane che ha terminato il proprio percorso formativo, così si rivolge al suo maestro:
Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e su gli dèi tutti e le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo patto scritto. Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, condividerò la vita con lui, e quando abbia bisogno di denaro gliene darò del mio e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte, se desiderano apprenderla, senza compensi né impegni scritti; trasmetterò i precetti, gli insegnamenti orali e ogni altra parte del sapere ai miei figli così come ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun altro [3] .
Insomma, la tradizione attesta un avvaloramento dell’autorità educativa che non va nella direzione respinta da Neill e molti altri – lungo il Novecento (in realtà, già nel secolo precedente) – perché la coniuga con un vincolo affettivo simbolicamente genitoriale. Ciononostante, anche nel mondo antico la figura del maestro fa i conti con un fattore critico (che offre motivo di riflessione per noi oggi), sul quale ora mi soffermo.
[1] Cfr. M.R. Grillo, Il maestro: umanità e saggezza, Armando, Roma 2003.
[2] A.S. Neill, Summerhill. Una proposta contro la società repressiva, Forum, Milano 1969 (ed. orig. Harmondsworth 1968), pp. 110-116.
[3] Ippocrate, Antica medicina, trad. it. M. Vegetti, Rusconi, Milano 1998, pp. 129-130.
1. 2. La svalutazione della figura del maestro
Le fonti antiche, oltre all’avvaloramento del maestro
come di colui che esercita l’autorità
, recano anche chiara testimonianza della sua svalutazione. In realtà, questo non accade con ogni tipologia magisteriale. In particolare, il maestro di vita
(a cui possiamo associare i filosofi che fondarono e tennero scuole, come Pitagora con la confraternita pitagorica, Platone con l’Accademia, Aristotele con il Liceo… senza dimenticare la figura di Socrate e la sua scuola
totalmente informale) è fatto segno di stima, riconoscenza, affetto, fino a giungere a vere e proprie forme di venerazione (come accadde soprattutto con Pitagora). Il disprezzo – comunque la scarsa considerazione – riguarda quello che tradizionalmente noi chiamiamo maestro di scuola
, ovvero il docente dell’attuale grado primario.
Si tratta dell’antico didaskalos preso nell’accezione funzionale
dell’espressione: un soggetto poco stimato, di norma apertamente disprezzato. Un proverbio greco, ripreso nella produzione comica sia greca (Epicarmo) sia romana (Plauto), recita: «O è morto oppure fa il maestro», volendo alludere al maestro di scuola come a una professione di risulta, abbracciata da chi non aveva alternative (come ex-militari ormai inabili al combattimento). Nelle fonti antiche il suo esercizio è frequentemente associato alla brutalità, come attesta Marziale in uno dei suoi epigrammi:
Che cos’hai a che fare con noi, tu, sciagurato maestro di scuola, persona invisa ai fanciulli e alle fanciulle? I galli con la cresta non hanno ancora rotto il silenzio e tu già fai risuonare il tuo minaccioso brontolio e i colpi di frusta. Altrettanto cupo è il rimbombo del bronzo battuto sull’incudine quando lo scultore dispone sul cavallo la statua dell’avvocato; è meno intenso il clamore frenetico che si sente in un grande anfiteatro quando la folla che sta dalla sua parte acclama il gladiatore vittorioso dal piccolo scudo [1] .
La testimonianza di Agostino non è da meno:
Fui mandato a scuola per imparare le lettere; che utilità me ne venisse dal farlo, io, poverino, non lo sapevo; ma se mi mostravo pigro, ero punito con la bacchetta. Tale sistema veniva raccomandato dai grandi, e molti che prima di noi avevano subìto questa stessa situazione avevano aperto la difficile strada attraverso la quale ora eravamo costretti a passare noi, moltiplicando le fatiche e i dolori dei figli di Adamo [2] .
Genitori e alunni non mostravano grande riguardo per questa professione, se è vero quello che scrive Giovenale prendendo in giro il maestro di declamazione che insegna come pronunciare i discorsi a discepoli svogliati e ripetitivi:
Insegni declamazione? [...] Ciò che uno di loro [gli scolari] aveva appena finito di leggere stando seduto, ora lo legge stando in piedi, e poi di nuovo lo ricanta con gli stessi versi: sono questi cavoli eternamente rifritti quelli che ammazzano gli infelici maestri. Tutti vogliono sapere quale debba essere il tono, di che genere sia la causa che stan studiando, in che consista il nocciolo della questione, quali dardi potranno eventualmente arrivare dalla parte avversa; ma nessuno di loro vuol poi pagare.
Il maestro è descritto al continuo inseguimento del compenso che gli spetta:
Il tuo salario? Ma io non ho imparato niente [3] .
Quale la ragione di questo atteggiamento apparentemente incoerente con quello che ho sostenuto all’inizio? Marrou offre una spiegazione che può far riflettere anche noi oggi:
Fare il maestro è un mestiere
nel senso commerciale e servile della parola [...] bisogna correre appresso alla clientela [...]. Ma il mestiere di maestro non gode di considerazione, soprattutto perché in fondo non suppone una qualificazione speciale. [...] Sembra proprio che non si esigesse dai maestri nessuna garanzia, se non dal punto di vista della morale, del carattere e dell’onorabilità; tecnicamente, chiunque avesse imparato a leggere era considerato capace d’improvvisarsi maestro.
Conclude:
Il maestro di scuola è incaricato di un settore speciale dell’istruzione; egli prepara tecnicamente l’intelligenza del bambino, ma non lo educa [4] .
In altre parole: il didaskalos (letteralmente «colui che insegna»), nella cultura occidentale antica, trasmette competenze (di base) senza che ci sia alcuna specifica relazione formativa. Per questa ragione non godeva di significativa considerazione. Ma, a un certo punto, qualcosa cambia. Colui che – con Clemente Alessandrino – la tradizione cristiana non esita a riconoscere come il primo Pedagogo [5] – Cristo – proietta sulla professione di chi insegna ai bambini (e sul maestro in generale) una luce nuova, di cui possiamo trovare solamente una parziale anticipazione nei grandi maestri delle scuole filosofiche prima evocati. Infatti, questi ultimi – pur esercitando un ruolo educativo di grande rilievo che gli procurava la devozione dei discepoli – non giungono – per il fatto che non vi giunge la civiltà antica nel suo complesso – a identificare il valore intrinseco della relazione.
Nella Metafisica Aristotele è chiaro: «la relazione, fra le categorie, è quella che ha meno essere e meno realtà» [6] . È interessante notare che, quando nel libro V ne illustra il concetto, il primo esempio che fa non riguarda la relazione interpersonale, ma quella numerica, «come il doppio rispetto alla metà, il triplo rispetto alla terza parte e, in generale, il multiplo rispetto al sottomultiplo» [7] . Questo avviene perché, come tutti i Greci, Aristotele ritiene che la verità sia anzitutto qualcosa di astratto (come le matematiche), mentre con il cristianesimo il logos viene identificato in forma concreta, essendo riconosciuto nella persona di Cristo. Il prologo del Vangelo secondo Giovanni è esemplare di questo, non solo per il fatto che associa l’espressione a Colui che è venuto nel mondo (1, 9) e che si è fatto carne (1, 14), ma anche perché adotta una costruzione originale per identificare la fede
in lui, ossia l’espressione pisteuo eis,cioè credere in
(1, 12), indicante un