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Storici greci
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E-book2.848 pagine45 ore

Storici greci

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Storie • La guerra del Peloponneso • Elleniche • Anabasi • Ciropedia

A cura di L. Rossetti; U. Bultrighini e M. Mari; L. Santarelli

Introduzioni di L. Canfora, D. Musti, L. Rossetti

Edizioni integrali

Erodoto, prima che un grande storiografo, fu un grande viaggiatore: a lungo girovagò, forse a causa del suo mestiere di mercante, attraverso la Persia, lungo il corso del Nilo, fino ai deserti dell’Arabia e oltre il Mar Nero. Di tutto quello che vedeva era curioso e voleva conoscere ambiente, usi, costumi, leggi dei popoli strani e diversi che frequentava. Per questo arricchì le Storie dei conflitti tra Greci e “barbari” con descrizioni, favole e leggende, e per questo i suoi racconti dal fascino intramontabile ebbero tanto successo nell’Atene degli anni di Pericle, così ricettiva e avida di conoscenze. A Tucidide, invece, niente interessa di più della verità dei fatti, raccontati solo dopo averne esaminato e confrontato tutte le possibili fonti e versioni. Perciò La guerra del Peloponneso può essere considerata la prima opera di storiografia moderna, soprattutto per la parte riguardante quella fase che l’autore visse in prima persona. Il suo linguaggio scarno e preciso raggiunge in alcuni brani vertici involontariamente poetici, come nella famosa descrizione della peste di Atene del 430, la cui eco ritroviamo nel corso dei secoli nell’opera di Lucrezio e addirittura in Manzoni. Considerato il continuatore di Tucidide, Senofonte nelle Elleniche bene esprime la “sofferenza” e l’esasperazione delle popolazioni greche sottoposte alla politica imperialista di Atene nel V secolo. Filospartano, come traspare dalle pagine dedicate alla monarchia ideale della Ciropedia, prese parte alla spedizione in Persia dei Diecimila, i mercenari greci assoldati da Ciro il giovane. Il racconto della ritirata dei Greci, che reca il titolo di Anabasi, porta Senofonte oltre le soglie del suo tempo: «Mare! Mare!», il grido dei soldati allo sbando che increduli, dopo mesi di marce forzate, patimenti e pericoli, vedono comparire all’improvviso quel baluginio così familiare e rassicurante, esprime il fascino di un’opera che sorprende sempre per la ricchezza e la complessità delle sue cento sfumature.

Erodoto

nacque ad Alicarnasso, nell’Asia Minore, all’incirca nel 485 a.C. Dopo innumerevoli viaggi si stabilì ad Atene, ma morì a Turii, colonia della Magna Grecia, nel 425 a.C.

Senofonte

nacque in Attica, a Erchia, tra il 430 e il 425. Fu discepolo di Socrate e, finita la guerra del Peloponneso, si trasferì in Asia Minore. Dopo la spedizione dei Diecimila mercenari greci ingaggiati da Ciro il giovane per combattere il fratello Artaserse, fu bandito da Atene; visse in Elide e a Corinto. Secondo alcuni morì, nel 355 circa, ad Atene.

Tucidide

nacque ad Atene non più tardi del 454 a.C. Durante la guerra contro Sparta rivestì importanti incarichi militari, ma dal 424 al 404 dovette scontare un esilio nel Peloponneso. Morì dopo il 397 a.C.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2013
ISBN9788854155244
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    Anteprima del libro

    Storici greci - Senofonte

    439

    Titoli originali: Ἰστορίαι; Περί τοῦ Πελοποννησίου πολέμου, trad. di Piero Sgroj

    Ἑλληνικά, trad. di Umberto Bultrighini

    Κυρου Ἀνάβασις, trad. di Manuela Mari

    Ξενοφῶντος Κυρου παιδεία, trad. di Antonella Lucia Santarelli

    Prima edizione ebook: aprile 2013

    © 2007 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5524-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Storici greci

    Erodoto, Storie

    Introduzione di Livio Rossetti

    Tucidide, La guerra del Peloponneso

    Introduzione di Luciano Canfora

    Traduzioni integrali di Piero Sgroj

    Revisione e note di Livio Rossetti

    Senofonte, Elleniche Anabasi Ciropedia

    Introduzione di Domenico Musti

    Premesse, traduzioni integrali e note

    di Umberto Bultrighini, Manuela Mari,

    Antonella Lucia Saltarelli

    Newton Compton editori

    Erodoto, Storie

    A cura di Livio Rossetti

    In collaborazione con Graziano Ranocchia

    AVVERTENZA

    La traduzione di Piero Sgroj è stata sottoposta a revisione, fra l’altro avendo cura di assicurare una più puntuale corrispondenza con la numerazione standard di capitoli e paragrafi.

    Le note sono state appositamente predisposte per questa riedizione.

    In questo libro si menziona, fra l’altro, un gran numero di località dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. Per orientarsi può essere utile tener d’occhio, oltre alle note e all’indice, un comune atlante.

    L. R.

    Introduzione

    Erodoto di Alicarnasso, ateniese di adozione e, successivamente, turiese

    Erodoto è vissuto, all’incirca, tra il 485 e il 425 avanti Cristo. Era nato in una delle tante città costiere dell’Asia Minore che, anche sotto il dominio persiano, si consideravano poleis greche per etnia, lingua, tradizioni e assetto istituzionale. Alicarnasso era situata sulla terraferma di fronte all’isola di Cos, in bella posizione sull’estremo nord-ovest del golfo denominato Sinus Ceramicus (ora: Kerme Körfezi), in prossimità dell’attuale Bodrum.

    Nel momento dello scontro, da quando l’impero persiano tentò di affermare la sua autorità su tutte queste poleis costiere determinando la sollevazione di molte (a partire dal 499 a.C.) fino all’ultimo tentativo di sottomettere la Grecia (479 a.C.), ad Alicarnasso si erano affrontati il partito filo-persiano, che inizialmente ebbe la prevalenza, e il partito anti-persiano. Erodoto era schierato con questi ultimi e la sua famiglia fu costretta all’esilio (nella non lontana isola di Samo) quando egli era ancora un bimbo.

    La circostanza non gli impedì di intraprendere, alle soglie dell’età adulta e come privato (forse come mercante), dei viaggi di eccezionale ampiezza, attraversando in lungo e in largo l’area persiana, risalendo il corso del Nilo per un buon migliaio di chilometri, spingendosi in Arabia così come a nord del Mar Nero. Quali che fossero gli affari e le risorse che gli permisero di viaggiare, Erodoto dovette girovagare fra questi popoli investendo moltissimo nel tentativo di venire a sapere, di capire, di discernere per quanto possibile tra dati certi, dicerie e notizie inverosimili, di acquisire quindi una impressionante quantità di dati sul territorio, i fiumi, le coltivazioni, gli animali, le tecniche, gli usi, le forme di organizzazione della vita quotidiana, un po’ di leggi, le credenze, i riti che caratterizzavano le etnie più diverse.

    Sulla sua capacità di parlare le molte lingue delle popolazioni con cui venne a contatto non abbiamo, purtroppo, alcun indizio di rilievo: tale non è il fatto di saper interpretare alcuni termini «barbari» (come accade, ad es., in IV 110.1) o di distinguere il dialetto dei Sauromati dalla lingua degli Sciti (cfr. IV 117). È comunque evidente che il nostro viaggiatore dovette investire moltissimo nell’osservare, nel domandare, nel farsi spiegare, nel tentativo di capir bene, e anche nel fissare nitidamente nella memoria il mare di informazioni che veniva accumulando: la curiosità è manifestamente sostenuta da una considerevole capacità di discernere il verosimile dal fantasioso e di ricercare, per quanto possibile, dei riscontri a quel che veniva di volta in volta raccontato o asserito. Ed è verosimile che dietro a questa curiosità mediamente ben diretta ci fosse appunto la tradizione culturale delle città greche situate sul margine orientale dell’Egeo, città che avevano espresso viaggiatori instancabili – da Scilace di Carianda che, come riferisce lo stesso Erodoto, esplorò l’Oceano Indiano come ammiraglio persiano intorno al 520-510 e redasse un Periplo, a Carone di Lampsaco, se è vero che fu in grado di redigere anche lui un Periplo, ma dei mari al di là delle Colonne d’Eracle – e così pure intellettuali come Anassimandro di Mileto (nel cui libro verosimilmente si incominciava a delineare la genesi dell’universo per poi darne una prima sommaria descrizione), e il suo "compagno di strada" Anassimene (che fu in grado di impostare ardite teorie sulla struttura complessiva del mondo fisico).

    Il posto d’onore tra coloro che aprirono la strada su cui poi ebbe a incamminarsi Erodoto spetta comunque, e senza alcun dubbio, ad Ecateo di Mileto, storico e geografo vissuto, si presume, tra il 560 e il 480 a.C. Questi, infatti, ebbe l’ardimento di specializzarsi nel racconto del passato (con un’opera intitolata Genealogie) e nella descrizione del mondo e dei suoi abitanti (con una memorabile carta geografica e con un’opera intitolata Periegesi, Esplorazione della terra). Erodoto fu assai critico sul suo conto, ma nessuno come Ecateo ha potuto costituire un modello per le sue Storie.

    Non si sa quanto sia durata la stagione dei suoi viaggi. Tutto lascia pensare però che, quando Pericle decise la fondazione della colonia panellenica di Turii, in Calabria (anno 444), Erodoto fosse già ad Atene e già in contatto sia con lo stesso Pericle, ormai installato in una posizione di indiscussa leadership, sia con la cerchia di intellettuali a lui più vicina (tra costoro figuravano, in veste di ascoltati consiglieri disposti a sostenere in vario modo le sue iniziative di maggior peso, il drammaturgo Sofocle, il filosofo Protagora, l’urbanista Ippodamo, il musicologo Damone, il grande Fidia, la stessa Aspasia, lo stesso Socrate, se è vero che a quest’ultimo fu affidato per alcuni anni il compito di pensare alla formazione intellettuale del nipote di Pericle: Alcibiade). In effetti, se Ippodamo ebbe, come pare, l’incarico di progettare l’impianto urbanistico di Turii e Protagora di delinearne l’assetto istituzionale, Erodoto fu tra quelli che ben presto vi si trasferirono e vi presero la cittadinanza. Quel che più conta, la sua decisione suonò come un avvenimento, tanto che Sofocle gli dedicò, per l’occasione, un breve componimento poetico. Ciò dovrebbe significare che all’epoca Erodoto si era già fatto un nome ad Atene, che vi era stato accolto con simpatia e interesse da molti, e che probabilmente aveva già incominciato a proporre i suoi racconti, trovando un ambiente così ricettivo da indurlo ad investire ancora di più su quel suo sapere, quindi non solo a raccontare ma anche e soprattutto a progettare una esposizione ordinata delle sue conoscenze: una vasta opera in prosa di cui dava poi lettura di tanto in tanto, verosimilmente presso circoli selezionati di uditori, non sappiamo se anche paganti.

    Non è dunque un caso che Erodoto mostri una spiccata attitudine a ripensare il suo sapere – in particolare la storia delle guerre persiane – nell’ottica di Atene (si parla talora di atenocentrismo): egli era un pericleo e concorreva anche lui a edificare il mito dell’Atene democratica in sintonia con Pericle. In effetti la sua narrazione, per il fatto di erigere, e non senza motivo, la resistenza che la città aveva saputo opporre all’invasore persiano in evento cardine della storia recente della Grecia continentale ed egea, poteva solo rafforzare l’idea che quella città rappresentasse ormai la capitale morale (oltre che intellettuale, economica e, in misura significativa, anche politico-militare) dell’intera ecumene ellenica e ne costituisse il simbolo più cospicuo.

    La stagione della cultura enciclopedica nell’Atene dei tempi di Erodoto

    Se Erodoto potè scrivere le Storie, non è dunque solo perché egli aveva moltissimo da raccontare o perché sapeva porgere in modo ordinato e piacevole, ma prima di tutto perché ad Atene trovò un terreno quanto mai favorevole: una società altamente ricettiva, curiosa, addirittura avida di conoscenze.

    Questo dipende essenzialmente dalla sinergia di fattori quali:

    la posizione dominante di Atene, che appena due anni dopo la fine delle guerre persiane aveva già associato in una lega (la lega marittima Delio-Attica) un buon centinaio di poleis greche e poi, un po’ alla volta, molte altre fra cui anche Alicarnasso (a partire dal 468 circa), fino a collegarne a sé ben trecento, e a renderle sempre più subordinate;

    la straordinaria espansione economica della città, con connesso arrivo di immigrati anche piuttosto colti da tutta l’ecumene greca e conseguente curiosità diffusa per gli usi e i costumi dei popoli più diversi;

    una non meno vistosa espansione dell’alfabetizzazione (data anche la crescente complessità dell’assetto istituzionale) e della domanda di cultura, con conseguente arrivo ad Atene delle migliori menti di tutta l’Ellade (che vi trovavano un pubblico e quindi il successo, anche economico);

    una cultura improntata al pluralismo in cui si stava investendo moltissimo sia nella costituzione di "blocchi" di conoscenze specialistiche, sia nella produzione di opere enciclopediche e di trattati o trattatela in prosa sugli argomenti più disparati. All’epoca si doveva già avere un’idea del sapere inteso come un patrimonio collettivo di conoscenze al quale chiunque ne fosse capace poteva liberamente dare il suo contributo, non senza ricavarne un indiscusso prestigio. Inoltre veniva prendendo forma con sempre maggiore decisione la figura dello specialista, con progressiva fissazione del nome della singola disciplina e del professionista di un certo settore (ad es. l’astronomo: colui che da un lato sa identificare i solstizi e gli equinozi, quindi il cambio dell’anno, dall’altro sa identificare il mezzogiorno e quindi impostare l’orologio solare).

    Il fenomeno era d’altronde tale da interessare una cerchia di città ben più vasta di Atene, e all’epoca poté accadere che mentre alcuni intellettuali (fra questi Parmenide, Empedocle ed Anassagora) si dedicavano a scrivere delle trattazioni in grado di spaziare sui campi più diversi dello scibile ed a saldare tutte queste tessere in un discorso grosso modo unitario – e più d’uno ravvisò un vero e proprio punto di onore nell’essere esperto su tematiche (non propriamente materie) molto lontane fra loro – altri si specializzarono in ambiti particolari, tanto che presero forma, in particolare, una letteratura medica, una letteratura matematica, una letteratura propriamente etnografica e storico-geografica.

    Casi limite di poliedricità degli interessi conoscitivi furono due intellettuali appena più giovani di Erodoto: l’ateniese Antifonte (che fu oratore di spicco, filosofo, matematico insigne e – la cosa può sorprendere – esperto in discorsi in grado di vincere la depressione) e il nordico Democrito che, a quanto pare, scrisse intere decine di trattatelli su argomenti così diversi come la dieta e il canto, le proiezioni e i corpi celesti, il combattimento ad armi pesanti e i colori, i ragionamenti (un embrione di logica?) e la tranquillità dell’animo, la coltivazione dei campi e i numeri, gli atomi e le locuzioni dialettali. Ma ci viene anche riferito, per esempio, che Agatarco di Samo, dopo aver predisposto la scenografia per una tragedia di Eschilo, scrisse sull’argomento un opuscolo in cui la descriveva o indicava come fare ad impostarla, dopodiché anche Anassagora e Democrito avrebbero scritto qualcosa di analogo (è quanto riferisce, a distanza di secoli, Vitruvio nel De architectura, all’inizio del VII libro).

    Questa Atene già divenuta crocevia dell’intera ecumene mediterranea era dunque attraversata da una temperie culturale quanto mai favorevole a che Erodoto mettesse a frutto le conoscenze acquisite nel corso dei suoi viaggi, le esponesse in modo ordinato e piacevole (tanto da specializzarsi nel proporre vasti affreschi narrativi), effettuasse una quantità di ulteriori ricerche e si risolvesse a mettere per iscritto le risultanze delle sue indagini secondo un principio architettonico di vasto respiro e di considerevole coerenza interna. La sua capacità di mettere ordine fra i dati, di discernere con apprezzabile cura fra leggendario e verosimile, e di trasformare il tutto in una narrazione lineare e variegata, piena di excursus ma tutt’altro che caotica – quindi anche molto gradevole – fa della sua opera un modello in un momento in cui il solo termine di paragone prossimo era costituito da opere – in primis quelle di Ecateo di Mileto – di cui egli poteva dire, magari non senza rivelarsi anche un po’ ingeneroso, che

    io rido quando vedo tanti che disegnano l’immagine della terra, e nessuno che sappia poi spiegarla in modo ragionevole: disegnano un Oceano che scorre intorno ad una terra rotonda come se fosse tracciata col compasso e poi danno le stesse dimensioni all’Europa e all’Asia! (IV 36.2)

    Come dire: ne parlano in maniera scandalosamente approssimativa, propongono un grafico tirando a indovinare, non dispongono di conoscenze neppure lontanamente adeguate, non si sono documentati a dovere, non hanno viaggiato abbastanza, e non hanno neppure preso i dovuti contatti con chi poteva sapere.

    Chi tra i grandi viaggiatori può collocarsi ad un livello paragonabile ad Erodoto non è dunque certo Marco Polo, che indulge nel raccontare storie mirabolanti giusto per suscitare meraviglia, ma semmai Giovanni di Pian di Carpine, che però è un capo-delegazione trattato come tale, è seriamente preoccupato di risultare credibile, ed è esplicito nel dichiarare che si limita a riferire ciò che ha appurato di persona o appreso da persone degne di fede (Historia Mongolorum, Prologo, 4). Al confronto, l’attenzione di Erodoto spazia anche di più e le sue osservazioni si estendono volentieri anche all’adattamento dei vari popoli alle caratteristiche dell’ambiente naturale in cui vivono, con le risorse e gli intralci che ne possono derivare e le soluzioni escogitate per riuscire a viverci, quindi con dati sulle colture, la fauna, la caccia, la pesca, le imbarcazioni, la cucina, alcune misure terapeutiche, e poi gli ornamenti muliebri, i costumi sessuali, i riti sacrificali e mille altre cose. Particolarmente spiccata è poi la sua attitudine a distinguere il dato di osservazione dal sentito dire, la notizia a sostegno della quale ci sono dei riscontri da quella sospetta (v. ad es. III 2, IV 77.1 e 187), e soprattutto gli argomenti addotti per sostenere che una certa informazione non è affidabile. Può così accadere che egli senta il bisogno di dire, poniamo, che, non disponendo di indizi conclusivi, non intende pronunciarsi sul quesito se l’Europa sia o non sia lambita (e delimitata) dal mare anche a Nord e ad Est (cfr. IV 45.1). Su questa stessa linea si colloca poi l’attitudine a presentare degli interlocutori che osano tener testa a dei potenti nel sostenere, sulla base di quel che sanno, tesi anche irritanti: ad es. Solone trattando con Creso (31-33) e Demarato trattando con Serse (VII 102-105 e altrove)¹.

    La differenza di fondo, rispetto ad un Giovanni di Pian di Carpine, è appunto che Erodoto vive e scrive in un ambiente già sensibilizzato, dove sono ormai in molti a condurre delle ricerche nei più vari ambiti e a farlo con un certo metodo, dove quindi esiste già il collega (basti pensare al già ricordato Ecateo) ed è normale sia avere degli esempi, sia giudicarsi a vicenda. Di conseguenza non ci si qualificava per il solo fatto di raccontare cose inaudite: il suo uditorio era mediamente esigente ed egli si dimostra in grado di tenerne il debito conto.

    Un altro punto degno di nota è la frequenza con cui Erodoto raccoglie l’opinione collettiva di popoli e città: allorché registra il modo in cui la gente di un determinato luogo suole riferire dei fatti o spiegarsi qualcosa, egli tende ad accogliere queste loro valutazioni, salvo a registrare i casi in cui si manifestano delle divergenze.

    Molto più che viaggiatore

    La descrizione di luoghi, usi e costumi viene peraltro incastonata in un racconto che, come tutti sanno, ha per oggetto primario la formazione di un’autentica grande potenza – l’impero persiano – quindi l’offerta di una vasta messe di informazioni sull’autorità centrale, l’organizzazione amministrativa e militare, le risorse economiche (ad es. i tributi: cfr. III 90-96), gli eventi che avevano accompagnato la formazione dello stato persiano, il suo espansionismo (ultimamente sul lato orientale e poi sul lato nord dell’Egeo, cioè in direzione della Grecia propriamente detta), i rapporti instaurati in passato con le città greche dell’Asia Minore, i conflitti, l’ideazione e realizzazione delle grandi spedizioni contro la Grecia continentale.

    Il tutto è condito da una forte inclinazione a legare gli eventi a singole personalità, alla loro vicenda, alle loro gesta, alla loro stessa psicologia, agli appoggi e alle resistenze incontrate, alla casualità di alcune combinazioni di circostanze. È con questo accorgimento che la narrazione ottiene di alternare la presentazione di molti dati al resoconto di accadimenti e alla presentazione di personaggi che hanno un ruolo più o meno importante in questi accadimenti: una folla di nomi, figure, incontri, discorsi, scambi di lettere, storie di donne e di uomini la cui importanza è spesso data unicamente dalla singolarità delle circostanze in cui si sono trovati.

    Può così prendere forma una narrazione quanto mai variegata – quindi piacevole – in cui viene delineandosi molto nitidamente un universo barbarico complesso e multiforme, diverso ma non necessariamente inferiore o da disprezzare (in Erodoto l’idea della superiorità dei greci prende forma solo in riferimento allo scontro diretto): un mondo relativamente lontano ma col quale sono stati intessuti rapporti anche complessi e anche alla pari, popoli e singoli a volte un po’ bizzarri, ma che si regolano pur sempre in modo intelligibile, «come noi».

    Quest’ultimo punto è cruciale: Erodoto ci rappresenta una umanità nella cui condotta ben poco può ritenersi addirittura inspiegabile. I barbari hanno limiti e risorse non dissimili dai greci, sono vittime anche loro di piccinerie ed inganni, ma sono anche capaci di cose ammirevoli: ragionano, escogitano, tramano, sanno cavarsi d’impaccio, sanno darsi regole. Il diverso che egli rappresenta è un diverso perfettamente intelligibile, e in questo egli si comporta press’a poco come Omero si era regolato nel rappresentare non solo i troiani, ma gli stessi dèi dell’Olimpo: anche questi ultimi come figure comprensibili, e umanizzate fino al punto da ridurre al minimo la componente sovrumana, numinosa o inquietante. Analogamente Erodoto, che non a caso è anche lui impregnato della cultura ionica (e, fra l’altro, accoglie volentieri degli omerismi nel suo linguaggio), trova naturale tener basso il livello di stupore, sottolineare semmai il lato curioso, ma non certo il lato incomprensibile o inquietante della diversità. Anche l’ammirazione è molto contenuta: al massimo egli annota che alcuni, in una certa occasione, «compirono gesta che meritano la menzione» (erga apedexanto logou axia: ad es. in VIII 91.3).

    Coerente con questa attitudine è anche la tendenza a pensare che la Grecia, e in particolare Atene, rappresentino una inequivocabile avanguardia, un assetto istituzionale in grado di reggere il confronto persino sui campi di battaglia, uno standard culturale più avanzato ed anche una economia tutto sommato più espansiva e promettente. Ciò non viene fatto dipendere solo dall’esito favorevole del confronto diretto con il colosso persiano (che non mette più tanta paura). Dietro c’è anche l’aperta condivisione della forma mentis ionico-attica, fortemente marcata dall’apertura al diverso e dalla capacità di inglobarlo senza turbamenti. La varietà di usi, costumi e credenze viene anzi percepita, all’epoca, come qualcosa di cui è bene prendere atto, come un fattore di sprovincializzazione, e persino come argomento a favore di un pluralismo e di un’attitudine tollerante nei confronti sia degli usi vigenti nelle città collegate, sia di chi, all’interno della polis (o quantomeno ad Atene), ha opinioni divergenti: Pericle, ad esempio, sostiene Anassagora malgrado questi si permetta di asserire che il sole è un’entità fisica paragonabile, per dimensioni, al Peloponneso, quindi non una entità divina da venerare; dal canto suo Ecateo aveva potuto impostare la demitizzazione dell’Olimpo senza suscitare reazioni di rilievo da parte dei più decisi sostenitori della fede olimpica.

    È questa mentalità che permette ad Erodoto di raccontare la già mitizzata battaglia delle Termopili con toni, tutto sommato, smorzati. Proviamo a seguire da vicino il suo racconto, che è collocato verso la fine del VII libro.

    VII 207: i greci «atterriti, deliberavano di ritirarsi»; Leonida invece decise di rimanere lì a sostenere lo scontro nonostante tutto, sia pure non senza mandare emissari a chiedere rinforzi urgenti.

    VII 208: Serse mandò un esploratore in avanscoperta, e questi notò sia che le armi del presidio erano appoggiate all’esterno del muro di cinta dell’accampamento, sia che all’interno c’era chi se ne stava nudo a fare un po’ di esercizi atletici, e così pure chi indulgeva a pettinarsi con cura i capelli.

    VII 209: a sentir ciò, Serse non riusciva a capacitarsi, trovava il tutto ridicolo, illogico, incomprensibile. Ma è lì Demarato, pronto a spiegargli la logica di quella condotta ed a suggerire l’idea che la loro capacità di contrastare l’armata persiana non è affatto da sottovalutare.

    VII 210: Serse rimane incredulo, ma la prima giornata di scontri conferma la capacità di tenuta di quel singolare manipolo di spartani.

    VII 211-212: lo stesso accade nei giorni seguenti, malgrado Serse avesse fatto scendere in campo le sue truppe scelte. Serse si impensierisce non poco.

    VII 213-219: un greco dà a Serse il consiglio decisivo, «aggirarli». Vista la mala parata, parte delle truppe greche residue si danno alla fuga.

    VII 220: si dice però che sia stato lo stesso Leonida a ordinare a questi nuclei titubanti di dileguarsi, salvo a giudicare che per lui e per il suo reparto fosse semplicemente indecoroso fare altrettanto. «Restando lì, si procurò per sempre una grande gloria, e la prosperità di Sparta non fu annientata.»

    VII 221-225: dettagli dei preparativi e dello scontro, cenno al punto «dove ora è eretto, in onore di Leonida, il leone di pietra» (225.2).

    VII 226-227: un cenno sui tre greci più valorosi, a parte Leonida.

    VII 228: breve sintesi delle tre iscrizioni commemorative.

    Quel che risalta è, da un lato, il far parlare le cose, l’attitudine a lesinare sugli epiteti e sui superlativi; dall’altro l’attitudine a normalizzare anche questo evento, memorabile come pochi altri, guardandosi dal toccare la leva della mozione degli affetti. Erodoto infatti è quasi sempre pago di far sapere e di far capire come mai certe cose siano potute accadere. Non pretende di scatenare delle emozioni o dirigerle apertamente. Semmai è la logica degli eventi a dover suggerire determinate conclusioni, determinati giudizi di valore.

    In questo è operante, si ritiene, qualcosa come la retorica di Pericle, Protagora e Antifonte, tutti inclini a fornire elementi di giudizio da lasciare poco meno che nella loro nudità, senza amplificazioni fuor di luogo, e quindi alieni dalla tipica retorica post-periclea: quella di Trasimaco di Calcedone che, riferisce Platone, «era tremendo per la capacità di eccitare all’ira i molti [cioè delle vaste platee] e, dopo averla eccitata, rabbonirla incantandola, come egli stesso diceva» (Fedro 267c9-d2) e quella di Cleone, così come ce la rappresenta Aristofane nei Cavalieri (424 a.C.) e altrove.

    Erodoto manifestamente adotta un tipo di comunicazione intonata a quel primo standard: una retorica tutt’altro che enfatica, ma non per questo meno capace di farsi largo nella mente di uditori e lettori, non aliena dal segnalare delle differenze (per dirne una: anche lo stratagemma che, dopo inutili tentativi, permette a Serse di infrangere le difese di Leonida è opera, guarda caso, di un greco), ma con estrema penuria di sottolineature, guardandosi dall’amplificare, con ben poca inclinazione a contrapporre eroi a vigliacchi o angeli a demoni. Non è dunque un caso che egli, pur indicando il nome e la patria del traditore, non ne faccia un Giuda da esporre alla pubblica esecrazione e non si interessi al suo destino, al suo eventuale senso di colpa, alla sua fine verosimilmente ignominiosa o al disagio dei suoi parenti e concittadini. Posto di fronte ad un’eccellente opportunità per ricamare sull’evento, se ne astiene senza tentennamenti, e persino senza spendere parole per far notare che se ne astiene.

    È questo il tipo di disciplina intellettuale che presiede al suo racconto. Semmai, come si diceva, la sua concessione alle esigenze di una comunicazione appetibile e di facile consumo consiste nel passare, di tanto in tanto, dall’evento di rilevanza collettiva alla storia delle vicende di un individuo, ai dettagli di una situazione definita, contingente e magari solo curiosa. In compenso, anche nei momenti più caldi del suo racconto egli suole presentare il singolo evento sia nell’ottica di una parte dei contendenti che nell’ottica dell’altra parte, sempre per cercar di capire come hanno ragionato e perché hanno agito come hanno agito.

    Il risvolto ideologico (atenocentrico, si diceva) è dunque presente nell’opera, ma è decisamente filtrato, smorzato, disciplinato, e non solo in apparenza: dire che Erodoto fosse organico alla politica imperialistica di Pericle è infatti eccessivo. Egli è pago di registrare che in molte occasioni i greci hanno mostrato di avere una marcia in più, che la condizione di cittadino libero è oggettivamente superiore alla condizione di suddito, che l’isegorie (cioè la pari opportunità di prendere la parola in pubblico) è un valore e che si deve essenzialmente a questo se Atene ha finito per ritagliarsi, in ambito greco, un posto di rilievo almeno pari a quello di Sparta (cfr. V 78). La società persiana e quella egiziana, invece, per il fatto di dimostrarsi «incapaci di vivere senza un re» (cfr. II 147.2) trovano nella struttura piramidale del potere e nell’asservimento diffuso un obiettivo freno al loro sviluppo. Il resto, cioè il sovraccarico ideologico, rimane in larga misura fuori dal suo racconto, più che confinato fra le righe. In ogni caso la deformazione cosciente della verità gli è semplicemente estranea.

    Analogamente, in materia di motivazioni allo scrivere, Erodoto non si appella alla musa, come i poeti, ma alla semplice rilevanza delle informazioni che ha da proporre: informazioni su luoghi, persone ed eventi che sono eccezionali quanto basta perché se ne parli in maniera né fugace né approssimativa. Suo compito è far sapere, offrire dati debitamente controllati (e ove possibile misurati: dei territori, il Ponto Eusino, la piramide di Cheope), e aiutare a capire.

    Da notare, ancora, che nell’uomo che egli rappresenta c’è spazio anche per abiezione e nobiltà d’animo, ma non a livelli troppo spinti, né sul fronte dell’irrazionalità o della crudeltà, né sul fronte dell’eroismo o dell’altruismo. Ciò che egli apprezza di più è comunque l’intelligenza nella varietà delle sue manifestazioni: l’innovazione, la trovata, l’organizzazione, magari l’inganno, e più ancora il saper reggere una situazione difficile, il saper affermare il proprio punto di vista anche a rischio di contromisure temibili.

    Pure significativo è lo spazio che egli accorda alla componente femminile: molte donne eccezionali nella loro determinazione, alcune anche crudeli, altre vittime, altre eroiche, disinteressate o trepidamente materne. Vi sono poi

    quelle che discutono e decidono, di tirannide, di imperialismo, di tattica (III 53: la sorella di Licofrone; III 134: Atossa; VIII 68, 101, 107: Artemisia). Si tratta in genere, è vero, di donne altolocate, greche e non, le quali godono di autonomia di decisione e libertà d’azione, nelle rispettive società: ma è rilevante la cura con cui Erodoto registra detti e fatti e propositi di donne, che proprio il suo interesse di storico nobilita².

    Anche le donne, nell’insieme, sono dunque partecipi di quell’umanità media le cui gesta conoscono una gamma vasta e varia, ma pur sempre con escursioni contenute tra i due estremi e senza alcuna speciale connotazione di subalternità o inferiorità. Si nota semmai che le donne di cui egli fa parola sono, in netta prevalenza, non greche, ma che da questo dato, raramente segnalato, si possa legittimamente ricavare un richiamo o invito ad accordar loro maggiori opportunità anche nella società attica è una eventualità piuttosto aleatoria.

    Gli dèi di Erodoto

    I dati che siamo venuti raccogliendo potrebbero far pensare ad un Erodoto laico, pluralista, relativista, intriso di cultura sofistica, e quindi anche scettico in materia di religione: un orientamento che ben si sarebbe inquadrato nella cultura ionica (così incline a sostituire l’intervento divino con una serie di leggi o automatismi della natura), o nell’emblematica pretesa di affermare che il sole altro non è se non una sorta di fiammeggiante Peloponneso astrale (pretesa che sarebbe costata ad Anassagora una condanna per empietà quando Pericle era ancora al vertice della società ateniese).

    Invece non è così. Per illustrare questo punto converrà riportare qui di seguito una esemplare pagina dello Scarcella³:

    Una folla di divinità si muove al di sopra delle vicende storiche: si tratta degli dèi propri della Grecia, che vengono ricordati spesso, ma anche di quelli dei popoli barbari, che da Erodoto sono costantemente assimilati alle divinità olimpiche. Così Zeus si identifica con Ammone egizio, Bel-Marduk babilonese, Auramazda persiano; Apollo con Goitosiro scita e Oro egizio; Artemide è la Bubastride egizia, come Demetra è Iside e Dioniso è Osiride in Egitto e Orotalt in Arabia. Da ciò scaturisce l’impressione di una onnipresenza divina, multiforme nei nomi ma fissa nelle attribuzioni e alta nella potenza. Comunque la terra appare tramata da una rete di santuari, dove queste divinità sono adorate coi loro vari epiteti, e con i loro estrosi cerimoniali: l’Eteminanki, la torre sacra a Bel; lo splendido tempio di Iside, «ben degno di essere visto»; e, fra i riti, le bastonature rituali in onore di Ares, o le lampadoforie di Efesto. E per ovunque ritorna la voce degli oracoli, dolorosamente ambigui (come debbono constatare a loro spese Creso, I 90 ss., i Teageti, I 99, e Cleòmene, VI 80; ma si danno anche oracoli che spingono all’errore l’interrogante per poi punirlo, II 40: Policrate, VII 16 ss.: Artabane). Erodoto ne cita c. 50 come di origine delfica, ma altri dovevano discendere dalla stessa fonte: e poi vi è l’oracolo antichissimo di Dodona; e quello famoso di Artemide, a Buto, in Egitto; e quello empiromantico di Tebe. Inoltre appaiono sogni e visioni frequenti: una vite che esce dal seno di Mandane a coprire tutta l’Asia (la nascita di Ciro, futuro re di Media e Persia); Policrate librato in aria, lavato da Zeus e unto dal sole (il tiranno crocifisso e esposto alle intemperie). Ed i prodigi: le armi sacre miracolosamente portate dinanzi al tempio di Delfi, il nugolo di polvere che si leva da Eleusi. Così la storia umana è tutta intessuta di voci e volti soprannaturali. Perché lo storico è convinto che molto possa iddio, in essa: il naufragio dei Persiani all’Eubea è compiuto da dio (VIII 13 epoieeto te pan hupo tou theou) e tutta la vittoria sui barbari è opera di dèi ed eroi (VIII 109). Egli esercita anche una critica razionalistica, quando si rifiuta di credere che delle statue si siano potute inginocchiare o abbiano lampeggiato, o che Pan sia apparso a Fidippide, sui monti d’Arcadia, o che Eracle si sia trovato a combattere con gli Egizi, che tentavano sacrifici umani (II 45); ma il suo razionalismo si ferma ai particolari, e non intacca la sostanza della sua visione. Accanto ad un diffuso politeismo appaiono passi in cui si leggono espressioni spia di un timido e incipiente monoteismo filosofico: si ha ho theos (VII 10, 5), ho daimon (II 43, IV 94, IX 76, etc.), ed anche, più astrattamente, to theion e to daimon, con una frequenza che è prova di una coraggiosa revisione dei concetti tradizionali.

    In questi atteggiamenti andrà ravvisata non tanto una tessera dissonante, quanto piuttosto una non trascurabile chiave per accedere al mondo mentale di Erodoto, che non sente alcun bisogno di rompere con la religione olimpica in nome della modernità attica e, anche a questo riguardo, non disdegna affatto di ritrovarsi (o mantenersi) in intuitiva sintonia con il comune sentire.

    Comprendiamo meglio ciò che accade se consideriamo che è lo stesso ateniese medio ad essere (e sapere di essere) portatore di innovazioni che spesso non hanno paragone – importanti elementi di democrazia assembleare, prassi dell’ostracismo, limiti alla rielezione nella Boule, al punto che quasi ogni cittadino regolarmente iscritto nelle liste doveva prima o poi fungere da buleuta, tribunali in cui sovrano era il parere di un’accolta più o meno casuale di giudici popolari per nulla esperti di diritto, tasso eccezionalmente alto di ricambio nell’accesso a gran parte delle cariche pubbliche, tanto che in molti casi si era designati addirittura per sorteggio..., facoltà di trattare con sorprendente leggerezza singole tessere della religione olimpica... – senza per questo investire di meno, come nuclei familiari, in riti religiosi, donativi ai templi, erme e statuette varie di divinità sparse un po’ dappertutto per Atene, nonché una folla di altari ed altri monumenti sepolcrali rigorosamente improntati alla religione olimpica.

    Per noi è forte la tentazione di concepire queste due componenti come potenzialmente incompatibili tra loro, ed è oggettivamente difficile capire in che modo potessero andare, per così dire, a braccetto, ma che a braccetto andassero ai tempi di Erodoto e anche in epoche successive è un fatto, e un fatto di costume piuttosto macroscopico. Lo dimostra, se ve ne fosse bisogno, l’attitudine di Platone a guardare addirittura con disdegno ai miti nell’Eutifrone, salvo poi parlare indifferentemente di dio e di dèi al singolare e al plurale con impressionante regolarità di dialogo in dialogo, e così pure a rilanciare una sua versione della religione olimpica, certamente non senza ripensarla in modo personale, ma salvaguardando, per esempio, l’idea che al sole, alla luna e ai pianeti corrispondono altrettante divinità che, egli sostiene, è importante venerare (nelle Leggi e altrove, e senza che si possa parlare di un qualunque processo involutivo del filosofo in direzione politeistica).

    Di tutto ciò noi tendiamo a stupirci, ma è un fatto: a contestare sul serio la religione olimpica è soltanto una esigua minoranza di intellettuali – non senza rischio di suscitare reazioni allarmate – ed è un fenomeno particolarmente acuto negli ultimi quarant’anni del V secolo, quindi un fenomeno tutto sommato circoscritto.

    La posizione di Erodoto non ha dunque, a ben vedere, nulla di sorprendente. Egli è così semplicemente perché così ragionava una vasta maggioranza di suoi contemporanei. Egli d’altronde ha interesse a fornire dati e accertamenti, ma legati a singoli eventi, personaggi, dichiarazioni e iniziative, cosicché non sviluppa una particolare attitudine a rimettere in discussione atteggiamenti e modelli di condotta già ben stabiliti.

    Qualche altro tratto caratterizzante. Per chi scriveva Erodoto?

    Per tornare al cosiddetto atenocentrismo di Erodoto: più di un indizio impone di ritenere che la percezione della eccezionalità di Atene rispetto al resto della Grecia – e della Grecia rispetto alla società persiana non meno che ad altre culture – dovesse essere un’impressione largamente diffusa e sostenuta da forme importanti di condotta quotidiana e di massa. Erodoto si limita ad essere partecipe di quella temperie, non priva di forti elementi di autogratificazione. Gli riesce quindi naturale sentirsi in sintonia con il Pericle che edifica monumenti memorabili e promuove una spettacolare espansione della città, facendovi affluire ricchezza e immigrati, meteci altamente qualificati e semplici braccianti in cerca di condizioni meno pesanti di vita.

    Semmai può sorprendere che nella sua opera i riferimenti alla figura dello schiavo siano particolarmente rari e introdotti pressoché soltanto in relazione a ciò che accade fra i barbari. Si può obiettare che la sua narrazione non solo non gliene dava occasione, ma che egli non poteva regolarsi diversamente, se davvero ci teneva ad accreditare la tesi che in seguito venne esemplarmente formulata da Euripide nelle Supplici⁴:

    «Chi è il tiranno qui?» «Il tuo discorso incomincia male, se cerchi un tiranno qui da noi, perché qui è tutto il popolo ad esercitare il potere con nuove nomine ogni anno.»

    Rimane il fatto del sostanziale silenzio di Erodoto sul fenomeno della schiavitù in Grecia: un fatto degno di nota su cui si richiederebbe un’indagine approfondita.

    Ritorniamo, per concludere, su un elemento caratterizzante che, fra l’altro, marca la differenza rispetto all’altro grande storico dell’epoca, Tucidide: l’ampiezza dello spettro di tematiche prese in considerazione da Erodoto. Come è noto, nel narrare le vicende relative alla guerra peloponnesiaca Tucidide circoscrive la sua attenzione ai fatti rilevanti, quindi a chi detiene il potere, ai gruppi politici ed ai rivolgimenti di carattere politico, alle vicende militari, alle alleanze e alle ambascerie, a pochi eventi macroscopici collaterali (come la peste), a selezionatissimi elementi dell’atmosfera culturale complessiva: ciò che gli interessa analizzare è lo scontro Atene-Sparta nella complessità delle sue sfaccettature. Si astiene, quindi, dal menzionare fatti rilevanti solo da altri punti di vista (ad esempio una nuova legge che modifichi una certa prassi della vita pubblica ateniese).

    Erodoto, invece, guarda assai più volentieri ad una vastissima gamma di altri fenomeni e fattori, e non solo (anche se soprattutto) quando presenta delle informazioni sul conto dei popoli più lontani. Per esempio descrive con cura il territorio in cui si trova il passo delle Termopili (VII 176.1-2 e 200.1). Oppure, quando il suo discorso cade sull’ateniese Frinico, prontamente riferisce della multa che questi ricevette per essersi permesso di ricordare le sventure nazionali a teatro (VI 21.2). Gli accade di parlare di Evenio, cittadino di Apollonia (vicino Paestum), e si diffonde sulle greggi sacre di Apollonia e sui lupi che le assalirono gettando la città nell’allarme, inducendo gli apolloniati a sollecitare il responso di più oracoli ecc. (IX 93-94). Parla della battaglia di Platea, e indugia sull’anomalo cranio di uno dei caduti (IX 83.2).

    Il risultato è, in primo luogo, di arricchire la narrazione, in modo particolare nei primi quattro libri, con una impressionante molteplicità di excursus di carattere variamente informativo, con una marcata predilezione per la notizia in sé anche quando la notizia rimane episodica e non particolarmente funzionale al discorso complessivo (ciò che Tucidide invece evita con la massima cura). Pure caratteristica è la tendenza a ricondurre anche gli eventi più macroscopici a microeventi: vicende di persone, combinazioni di circostanze che, di per sé, non sarebbero di troppo grande portata, effetti su cui non ama indugiare (è verosimile che egli semplicemente non sappia impostare un discorso sostenuto sui cosiddetti effetti sistemici e di lunga gittata del ventennio di scontri tra l’etnia greca e la macchina economica e bellica dell’impero persiano).

    È giusto chiedersi quale sia il senso di una simile predilezione, e la risposta indirizza verso il tipo di pubblico per cui Erodoto scrive. Ciò che egli è impegnato ad offrire, è una informazione ordinata, credibile e ad ampio spettro, ma anche di relativamente basso profilo, qualcosa che potesse riuscire commestibile anche ad un uditorio non particolarmente qualificato. Così si spiega, fra l’altro, il gusto per le narrazioni esemplari, come la storia di Deloce e della strategia da lui posta in essere per poter diventare, un giorno, re (I 97-100), oppure la favola esopica narrata da Ciro per negare la riconciliazione con le città greche (I 141), oppure la storia della proposta che la regina Tomiri avrebbe fatto allo stesso Ciro (I 206).

    È pur vero che sappiamo ben poco su quanto avevano scritto, all’incirca sugli stessi temi, altri storici prima di Erodoto, ma è comunque verosimile che, all’epoca in cui egli redasse le sue Storie, una informazione così ampia e, al tempo stesso, precisa non fosse ancora disponibile. Infatti:

    Ecateo di Mileto dovrebbe aver composto le sue opere prima o durante le guerre persiane, cosicché intorno al 450-440 a.C. il suo apporto non poteva non risultare largamente inadeguato, se non altro perché egli non aveva potuto parlare dei persiani sapendo come lo scontro era andato a finire e con quali effetti di lungo periodo;

    l’opera di Ellanico di Lesbo è verosimilmente anteriore a quella di Tucidide, ma posteriore a quella di Erodoto;

    le altre figure intermedie sono così mal individuabili che è difficile pronunciarsi sulla consistenza dei loro apporti storiografici ed etnografici.

    È pertanto ragionevole pensare che Erodoto si sia trovato a colmare un vuoto di conoscenza (e quindi una potenziale domanda di conoscenze) piuttosto macroscopico, e non solo a riferire informazioni che solo lui era in grado di offrire, ma anche ad elaborare finalmente una risposta non troppo approssimativa a domande effettive: come è potuto accadere quel che è accaduto? e che cosa esattamente è accaduto durante quei memorabili scontri? e che si sa di preciso sul conto delle popolazioni che gravitano nel (o ruotano attorno al)l’impero persiano?

    È appunto Erodoto a dare una informazione ampia e, in larga misura, tutt’altro che fantasiosa su che cosa esattamente era stato ed era il nemico storico dell’Ellade, su come si era formata quella grande potenza, su come si viveva nei territori del Gran Re, su come si arrivò allo scontro e come esattamente si svolse il conflitto.

    Per farci un’idea della situazione in cui egli si è verosimilmente trovato a svolgere la sua opera di storico conviene – e la cosa ha del paradossale – immaginare che Marco Polo abbia dettato (o scritto) il suo Milione non cinquant’anni dopo ma cinquant’anni prima dell’analogo (ma infinitamente più preciso) resoconto elaborato da Giovanni di Pian di Carpine. In tal caso egli avrebbe dato un assaggio talmente sommario da alimentare una domanda che l’altro scrittore provvede finalmente a soddisfare con una ben più esauriente dovizia di dati, per giunta di dati raccolti con molto maggiore scrupolo documentario. Si aggiunga che la Persia era, per i greci, un vicino molto più incombente di quanto non fossero i mongoli e il Gran Khan per gli italiani dei tempi di Dante.

    Da qui una più forte domanda potenziale e l’attitudine di Erodoto a soddisfare quella domanda in modo diffuso, pensando un po’ più all’ateniese medio e un po’ meno (appena un po’ meno) alla élite intellettuale dei suoi tempi.

    LIVIO ROSSETTI

    ¹ Si nota, semmai, che ad assumere questo ruolo sono sempre e soltanto dei greci, i quali puntualmente sorprendono dei barbari.

    ² Così A. M. Scarcella in Letteratura e società nella Grecia antica. Problematiche, Roma 1987, 187.

    ³ Op. cit., 185 s. (ho solo traslitterato il greco e rimosso il grassetto in una frase).

    ⁴ Si tratta dei notissimi vv. 399-408 che, per l’occasione, propongo in una traduzione un po’ libera. Siamo nell’anno 415 a.C.

    Nota biobibliografica

    LA VITA E LE OPERE

    Sul conto di Erodoto si sa piuttosto poco.

    Che sia originario di Alicarnasso lo dice egli stesso all’inizio dell’opera.

    Un testo di epoca bizantina (la Suida) ci informa che egli si trasferì dalla sua città natale a Samo «per via di Ligdami, colui che... fu tiranno di Alicarnasso», salvo poi a ritornare in seguito nella sua città ed espellere il tiranno. La prima delle due notizie è molto plausibile. Infatti Erodoto si sente greco, e si può capire che non abbia tollerato di vivere in una città che, pur non essendo addirittura retta da un governatore persiano, era comunque sotto la tutela del Gran Re. La seconda informazione deve invece ritenersi priva di fondamento, e per due ragioni: primo, perché Erodoto si stabilì ad Atene un po’ troppo presto per aver potuto esercitare una influenza di così grande peso nella sua città; secondo, perché non vi è traccia alcuna di questo suo ruolo né nelle Storie né altrove. Se egli avesse compiuto gesta di così grande rilievo, è verosimile che ne avrebbe fatto parola. Inoltre sarebbe apparso più legato alla storia della sua città natale, cosa che invece non emerge affatto dalla lettura della sua opera. Un’altra fonte piuttosto tarda, Eusebio di Cesarea, riferisce che Erodoto, una volta stabilitosi ad Atene, diede pubblica lettura di parte della sua opera, non senza ottenere consensi, forse del denaro, forse delle pubbliche onoranze. D’altra parte Aristotele ci parla (nella Retorica) di «Erodoto di Turii», Strabone precisa che lo storico acquisì la denominazione di «Turio» perché prese parte alla fondazione di quella colonia, e altre fonti ci riportano l’epigramma che Sofocle compose in suo onore proprio a seguito del suo prendere dimora a Turii. Da ciò si deduce che egli dovrebbe essersi effettivamente trasferito per qualche tempo a Turii, forse per darle lustro con la sua già acquisita notorietà, che cioè la fase delle sue pubbliche letture sia quanto meno iniziata alcuni anni prima che Pericle prendesse l’iniziativa di fondare una simile colonia in Calabria, cioè prima del 444 a.C. E poiché all’epoca Pericle si era circondato di un manipolo di intellettuali di rango (Protagora, Sofocle, Ippodamo, Damone e, forse appena più tardi, Anassagora e Fidia), dobbiamo pensare che anche Erodoto facesse parte di quella cerchia e contribuisse da par suo a dar lustro alla squadra dei periclei. Se, come pare, intorno al 444 egli doveva essere sui quarantanni o poco di più, ciò vuol dire che i suoi viaggi sono incominciati alle soglie dell’età adulta. In ogni caso all’epoca Erodoto doveva già aver scritto non poco e aver fatto una prima serie di pubbliche letture, non senza assicurarsi una discreta notorietà. È interessante notare che Tucidide non manca di lanciare una frecciatina polemica verso questo uso erodoteo di leggere i suoi libri. Lo fa in 122.4, allorché dichiara che la sua storia è pensata come «un patrimonio per sempre e non come un pezzo di bravura da essere ascoltato sul momento», quindi come uno scritto «utile» anche se «non così piacevole all’ascolto». Il cap. 137 del libro VII include un riferimento alla guerra del Peloponneso. Ciò dimostra che Erodoto era ancora in attività verso il 430-29. Probabilmente sarà vissuto ancora per diversi anni (per la verità mancano indizi più precisi al riguardo). In ogni caso, fu in grado di condurre a termine l’opera, tanto che Tucidide potè incominciare dal punto in cui terminava il racconto erodoteo. Nessun indizio permette di supporre che Erodoto si sia dedicato a scrivere anche qualche altro testo.

    BIBLIOGRAFIA

    Edizioni e traduzioni

    >Tra le edizioni moderne del testo greco, quella più comunemente utilizzata è uscita a Oxford nel 1908 (terza edizione, 1927) nell’ambito della collana «Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis» della Clarendon Press: Herodoti Historiae, recognovit brevique adnotatione critica instruxit C. Hude (due volumi).

    Altre due edizioni autorevoli, con traduzione italiana a fronte:

    Erodoto, Le Storie, a cura di vari studiosi, Milano, Mondadori, 1977-1994 (volumi della collana «Scrittori greci e latini» della Fondazione Lorenzo Valla, tutti con introduzioni, note e carte geografiche).

    Le Storie di Erodoto, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, in due volumi, Torino, UTET, 1996.

    Segnaliamo anche Heródoto, Historias, a cura di A. Ramirez Trejo (México, unam, 1976), non senza ricordare che il flusso di traduzioni nelle lingue più diverse è continuo e che una traduzione italiana è disponibile anche nella rete web.

    Alcune opere di riferimento

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    Monografie ed altri studi su Erodoto

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    L.R.

    LIBRO PRIMO

    Creso e Ciro

    [L’antagonismo fra Asia e Europa.]

    Espone qui Erodoto di Alicarnasso le sue ricerche, perché delle cose avvenute da parte degli uomini non svanisca col tempo il ricordo; né, di opere grandi e meravigliose, compiute sia da Elleni sia da Barbari, si oscuri la gloria; e narrerà fra l’altro per quale causa si siano combattuti fra loro.

    1. [1] Risale ai Fenici, per i Persiani dotti nelle cose del passato, la causa della contesa. Sarebbero essi, dicono, venuti nel nostro mare ¹ da quello cosiddetto Rosso; e, stabilitisi nel territorio ancor oggi da loro abitato,² si sarebbero subito dati a lunghe navigazioni. Trasportavano merci assire ed egiziane, giungendo, fra l’altro, pure ad Argo, [2] città che era, nel paese che è oggi l’Ellade³, sotto ogni riguardo alla testa delle altre. Vi esponevano il carico; [3] e avevano, il quinto o sesto giorno dal loro arrivo, venduto quasi tutto; quando discese alla spiaggia, fra molte altre donne, la figlia del re, che si chiamava – e qui sono d’accordo anche gli Elleni – Io, la figlia di Inaco. [4] Compravano, presso la poppa della nave, le merci di loro gusto: quando i Fenici, fattisi l’un l’altro coraggio, si lanciarono loro addosso. Fuggirono le donne, per la maggior parte; ma Io fu, con altre, rapita. Le imbarcarono e salparono per l’Egitto.

    2. [1] Narrano così i Persiani – a differenza degli Elleni – l’arrivo di Io in Egitto, aggiungendo che avrebbe da qui avuto inizio la serie delle colpe in seguito commesse. Dopo, infatti, un gruppo di Elleni di cui non sanno riferire il nome – Cretesi, probabilmente – sarebbero approdati a Tiro, nella Fenicia, da dove avrebbero rapito la figlia del re, Europa.

    Ed il conto era pari.

    Ma sarebbero poi, gli Elleni, caduti nella seconda colpa. [2] Si dice infatti³bis che si sarebbero accostati, con nave lunga, ad Ea, nella Colchide, presso il fiume Fasi⁴; vi avrebbero sbrigato le faccende per cui erano giunti, e ne avrebbero rapito la figlia del re, Medea⁵. [3] Avrebbe, il re dei Colchi, mandato nelll’Ellade un araldo, a chiedere soddisfazione ed esigendo la restituzione della figlia. Ma avrebbero risposto, gli Elleni, che, non avendo i primi rapitori risarcito il ratto di Io l’Argiva, così non avrebbero neppure loro risarcito i Colchi.

    3. [1] Nella generazione successiva ebbe Alessandro ⁶, dicono, notizia di questi avvenimenti; e, arciconvinto di non doverne render conto – dato che neppure gli altri lo rendevano –, avrebbe pensato di procurarsi con un ratto una donna dall’Ellade. [2] E rapì Elena. Avrebbero prima gli Elleni deciso di mandar messi a chiederne la restituzione e a domandare conto del rapimento. Ma sarebbe stato loro, a tali proposte, rinfacciato il ratto di Medea: come potevano pretendere essi, che non avevano – nonostante le richieste fatte – restituito Medea, quella soddisfazione che, per conto proprio, non intendevano dare?

    4. [1] E fino a questo punto non si sarebbe trattato, dicono i Persiani, che di ratti vicendevoli. Ma gli Elleni si sarebbero, da quest’epoca, macchiati di una grave colpa: quella di aver fatto una spedizione in Asia prima che gli Asiatici la facessero in Europa. [2] Perché, dicono i Persiani, è male rapir donne, ma è stupido, avvenuto il ratto, correre alla vendetta, ed è da savi non curarsene. Certo! perché, se le donne non volessero, nessuno le rapirebbe. [3] E gli Asiatici, soggiungono i Persiani, si disinteressano delle donne rapite; mentre gli Elleni per una Lacedemone raccolsero un grande corpo di spedizione e andarono a distruggere, in Asia, la potenza di Priamo ⁷.

    [4] E aggiungono che segnò, questa spedizione, il principio della loro ininterrotta ostilità contro gli Elleni. Perché i Persiani si considerano signori dell’Asia e dei Barbari che l’abitano, da cui separano l’Europa e il mondo ellenico.

    5. [1] Così affermano i Persiani: concludendo che la presa di Ilio segni il principio della loro inimicizia con gli Elleni. [2] Ma i Fenici dissentono, per Io, la quale non sarebbe stata, dicono, condotta in Egitto con un ratto. Essa era, dicono, in relazione ad Argo con il padrone della nave, quando si accorse di essere incinta; e di propria volontà, unicamente per non farsi scoprire, sarebbe salpata con i Fenici, perché si vergognava di fronte ai genitori.

    [3] Così raccontano i Persiani e i Fenici. Ma non di questo intendo io parlare: se così o diversamente si siano svolti tali fatti.

    Comincerò, invece, dall’indicare colui di cui so che fu il primo a far torto agli Elleni; e proseguirò poi nel racconto trattando di città piccole e grandi, degli uomini, senza far differenza: [4] perché quelle che erano grandi in antico sono per lo più diventate piccole, e quelle che ai miei tempi erano grandi erano prima state piccole. Sicché, conoscendo la perpetua incostanza del benessere umano, ricorderò le une e le altre senza fare differenza.

    Storia del regno di Lidia

    6. [1] Era Creso ⁹ di stirpe lidia, figlio di Aliatte e tiranno dei popoli al di qua dell’Halys,¹⁰ un fiume che, scorrendo a mezzogiorno fra i Siri¹¹ e i Paflagoni, sfocia a settentrione nel Mare così detto Ospitale ¹². [2] Egli è il primo dei Barbari da noi conosciuti che abbia sottomesso e reso tributari alcuni popoli Elleni; come di altri Elleni acquistò l’amicizia. Sottomise gli Ioni, gli Eoli e i Dori d’Asia ¹³, e si acquistò l’amicizia dei Lacedemoni. [3] E prima dell’impero di Creso tutti gli Elleni erano liberi; perché la spedizione dei Cimmeri¹⁴ – che giunse fino alla Ionia ed è più antica di Creso – fu una scorreria, che non portò ad asservimento di città.

    7. [1] E dirò come fosse passato, il trono degli Eraclidi, alla stirpe di Creso, detta dei Mermnadi.

    [2] Era Candaule, che gli Elleni chiamano Mirsilo, tiranno di Sardi,¹⁵ e discendeva da Alceo figlio di Eracle. Il primo Eraclide re di Sardi era stato Agrone di Nino di Belo di Alceo, e l’ultimo fu Candaule di Mirso. [3] Quelli che avevano regnato su quel paese prima di Agrone erano discendenti di Lido figlio di Ati, da cui prese il nome tutto l’attuale popolo di Lidia, che prima si chiamava Meione. [4] Da costoro avevano avuto affidato il regno, in seguito a un oracolo, gli Eraclidi, che avevano avuto origine da una schiava di lardano e da Eracle e che regnarono per un periodo di cinquecentocinque anni, per ventidue generazioni, trasmettendosi il regno di padre in figlio fino a Candaule di Mirso.

    8. [1] S’innamorò, questo Candaule, di una donna che sposò. E la credeva, da innamorato, la donna senza paragone più bella del mondo. E di ciò convinto, ne decantava la bellezza a Gige figlio di Daschilo, suo preferito fra le guardie del corpo, e al quale confidava pure le cose più serie. [2] E, poiché era destino che Candaule finisse male, non passò molto che tenne a Gige un discorso di questo genere: «Io credo, Gige, che quando io ti parlo della bellezza di mia moglie tu non ne sia convinto: ci si fida, delle orecchie, meno che degli occhi. E tu fa’ in modo di vederla nuda». [3] «Che pazzia mi proponi, Signore!», gridò Gige. «Vedere nuda la mia padrona! La donna che depone la tunica mette da parte ogni pudore. [4] E da tempo hanno gli uomini ritrovato le massime di saggezza da cui dobbiamo imparare; una delle quali dice che si contenti ognuno di vedere il proprio corpo. Io sono convinto che ella sia la più bella donna del mondo; e ti prego di non chiedermi ciò che si vieta.»

    9. [1] Così disse Gige schermendosi, per timore di un malanno. Ma l’altro insisteva: «Animo, Gige, non temere né di me né d’altrui: che io ti faccia questa proposta per tentarti, o che t’incolga da parte di mia moglie qualche guaio. Perché, anzitutto, farò in modo che ella neppure si accorga che tu la guardi. [2] Ti metterò nella stanza dove dormiamo, dietro la porta aperta. Prima entrerò io; e poi verrà, per coricarsi, anche mia moglie. Vicino all’entrata c’è un seggio. Vi deporrà ella, spogliandosi, le vesti ad una ad una; e tu potrai tranquillissimamente guardare. [3] Poi lei dal seggio si avvierà al letto e volgerà la schiena; e tu procura allora di varcare la porta senza esser visto».

    10. [1] Gige si dichiarò, non potendosi schermire, disposto. E Candaule lo condusse, quando gli parve l’ora di coricarsi, nella camera. Venne subito anche la donna, entrò; e la guardava, Gige, mentre ella deponeva le vesti. [2] Poi si avviò al letto e gli volse le spalle; e Gige uscì dall’agguato per andar fuori. Ma fu scorto in quel punto; e la donna capì che cosa il marito avesse fatto; ma il pudore non le strappò un grido. Finse di nulla, proponendosi di vendicarsi su Candaule.

    [3] È, presso i Lidi e fra quasi tutti gli altri Barbari, grande vergogna, anche per un uomo, essere visto nudo.

    11. [1] E per allora non si mosse e non rivelò nulla. Ma appena giorno chiamò i domestici che sapeva più fedeli, e fece venir Gige. Il quale, credendo ch’ella fosse perfettamente ignara dell’accaduto, si presentò all’invito – non era la prima volta che la regina lo aveva mandato a chiamare e ch’egli vi si recasse. – Ma appena arrivò: [2] «Gige», gli disse la donna, «ti sono aperte due vie, di cui ti concedo di scegliere quale ti aggrada: o uccidere Candaule e prendere me e il regno di Lidia, o sei tu che devi senz’altro morire subito: affinché in avvenire non guardi, troppo ligio a Candaule, ciò che non devi. [3] O a lui che l’ha voluto, o a te che m’hai, contro il buon costume, vista nuda, tocca morire». Sbigottito, si mise Gige a supplicarla di non costringerlo a una simile scelta. [4] Ma non riuscì a persuaderla, e si vide posto dinanzi all’assoluta necessità o di uccidere il padrone o di lasciarsi uccidere da altri. E scelse di salvarsi. Le chiese quindi: «Dimmi, poiché mi obblighi e costringi ad uccidere il padrone, come lo aggrediremo». [5] «L’assalto moverà», rispose la regina, «precisamente dallo stesso posto da dove egli mi ti mostrò nuda, e avrà luogo, l’aggressione, mentre dormirà.»

    12. [1] Fu preparata l’insidia e, scesa la notte, Gige – che non era libero e non aveva modo di sfuggire, ed egli o Candaule dovevano morire – seguì nella camera la donna; la quale gli diede un pugnale e lo nascose dietro quella medesima porta. [2] Uscì Gige dall’agguato, uccise Candaule durante il sonno, e s’ebbe il regno e la donna, cosa di cui fa parola anche Archiloco di Paro, vissuto nel medesimo periodo, in un suo trimetro giambico.¹⁶

    13. [1] Ebbe il regno, e vi fu confermato dall’oracolo di Delfi. S’erano infatti i Lidi, sdegnati per la strage di Candaule, trovati in arme. Ma convennero, i partigiani di Gige e gli altri, in questo: che regnasse se l’oracolo avesse risposto ch’egli fosse re di Lidia; e che, se no, restituisse il regno agli Eraclidi. [2] L’oracolo fu favorevole, e Gige regnò ¹⁷. Ma aveva la Pizia¹⁸ aggiunto che sarebbero stati, gli Eraclidi, vendicati sul suo quinto¹⁸bis discendente: ammonimento di cui né i Lidi né i loro re non tennero, prima che si compisse, nessun conto.

    14. [1] E così assunsero i Mermnadi il regno tolto agli Eraclidi. Divenuto re, Gige mandò non poche offerte a Delfi: anzi la maggior parte delle offerte votive di Delfi sono sue. [2] E consiste, oltre l’argento e fra un’altra enorme quantità di oro, la sua offerta più memorabile, in sei crateri d’oro¹⁹, che si trovano nella camera del tesoro²⁰ dei Corinzi e pesano venti talenti ²¹ – anzi per la verità appartiene la camera del tesoro non allo Stato di Corinto, ma a Cipselo, figlio di Eezione –.²²

    Gige è il primo Barbaro da noi conosciuto che abbia recato offerte a Delfi dopo Mida²³ di Gordio, re di Frigia. [3] Perché anche Mida vi aveva recato un’offerta: ed è il trono regale, su cui sedeva per amministrare giustizia, un’opera magnifica. E questo trono si trova dove stanno i crateri di Gige. L’oro e l’argento da lui offerti sono dai Delfi chiamati, dal nome dell’offerente, gigei.

    [4] Anch’egli, salito al potere, invase con un esercito il territorio

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