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Antichità - La civiltà greca - Mito e religione: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 7
Antichità - La civiltà greca - Mito e religione: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 7
Antichità - La civiltà greca - Mito e religione: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 7
E-book393 pagine4 ore

Antichità - La civiltà greca - Mito e religione: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 7

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Info su questo ebook

Cos’era il mito per la Grecia antica? Quante e quali profonde metamorfosi ha subito questa parola nei secoli? Una parola dallo spettro semantico amplissimo che, da enunciazione autorevole, modalità del discorso, soprattutto poetico, vero e proprio modo di pensare ed espressione dello speciale rapporto con la natura e con il divino, si è fatta mitologia, assumendo un’auroralità spaziale e temporale. Come viene definito lo spazio del sacro nella sensibilità degli antichi Greci? Dove si colloca il confine tra umano e divino? Quali sono le specificità della religione in Grecia e quale il suo lessico? Un viaggio nei misteri più profondi della religiosità e della mitologia greca, tra i tanti volti del Pantheon, fra tradizioni mitiche e pratiche rituali. Alla scoperta di una religiosità dai tratti peculiari: non rivelata o fondata, ma ereditata, solidale con la lingua e la cultura, senza dogmi ed eresie, ignara di barriere tra sacro e profano; di un culto il cui attore umano è la comunità nel suo insieme e con una sfera divina perfettamente compenetrata nella vita terrena e quotidiana. Un tuffo nella memoria collettiva di una comunità, con le sue cornici sociali di riferimento, fra tradizionalità e significatività, vissuta attraverso le glorie dei suoi eroi e i capricci delle sue volubili divinità, attraverso cui quel popolo racconta la sua identità.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2014
ISBN9788897514459
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    Anteprima del libro

    Antichità - La civiltà greca - Mito e religione - Umberto Eco

    copertina

    Antichità - La civiltà greca - Mito e religione

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Antichità

    La civiltà greca

    Mito e religione

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Il mito

    Maurizio Bettini

    Agli inizi della tradizione greca la parola mythos esprime non il racconto favoloso o incredibile ma, al contrario, un’enunciazione estremamente autorevole. Solo col trascorrere del tempo mythos passa a identificare il racconto favoloso, generalmente poetico, della cui credibilità si può o si deve dubitare. Nel seguito della sua vicenda culturale questo termine assume diversi e più complessi valori, che confluiscono nel moderno concetto di mito. Fornire perciò una definizione di mito, soprattutto se la si intendesse come esaustiva e definitiva, non avrebbe senso. È possibile, però, darne almeno una definizione di tipo operativo.

    Il termine italiano mito – come il mythe dei francesi, il myth degli inglesi, il mythos dei tedeschi, e così via – deriva direttamente dal termine greco mythos. Ma possiamo esser certi che, se ci mettessimo a discutere il significato di questa parola con i suoi legittimi proprietari, i Greci, emergerebbe subito una notevole diversità di opinioni.

    Con mythos infatti i Greci indicavano la parola, il discorso, il racconto. Ma chi si aspettasse di veder definito come mythos esclusivamente il racconto sacro, favoloso, o semplicemente la storia alla quale non si presta fede – tutti significati a cui ci ha abituati la fortuna posteriore di questo termine – sarebbe destinato a restare deluso. Agli inizi della letteratura greca, ossia in Omero ed Esiodo, mythos indica sì discorsi o racconti, ma non quelli incredibili o pieni di accadimenti soprannaturali. Al contrario, nella lingua dell’epica arcaica sono definiti mythos racconti o discorsi di carattere indiscutibilmente autorevole. È mythos, per esempio, il discorso che il falco predatore rivolge con forza all’usignolo, la sua preda (Esiodo, Opere e i giorni, 206). Allo stesso modo, in Omero viene definito mythos il discorso pronunziato con veemenza da maschi guerrieri sul campo di battaglia; e quando Poseidone respinge l’ordine di Zeus di abbandonare la lotta, la sua risposta dura e potente è definita mythos (Omero, Iliade XV, 202). Non diversamente sono definite mythos le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono il prestigio necessario per farlo: come Agamennone quando caccia via dal campo acheo il sacerdote Crise, minacciandolo; o come Achille quando respinge gli ambasciatori di Agamennone (Iliade, I, 25; IX, 309). Il mythos dell’epica è un discorso assertivo, che chiede in qualche modo di essere eseguito: prova ne sia il fatto che esso non viene mai pronunziato da donne – speaker prive di autorità, perché a detenerla sono solo gli uomini – e suona male perfino sulla bocca di maschi troppo giovani. Il mythos insomma è, in primo luogo, un discorso autorevole pronunziato da locutori altrettanto autorevoli.

    Sarà solo nel seguito della cultura greca, con Erodoto e Tucidide, oltre che con Platone, che questo termine comincerà a designare il discorso favoloso, in cui compaiono eventi di carattere meraviglioso o tali comunque da suscitare il problema della credibilità. E sarà proprio attorno all’asse della credibilità del mito che si articolerà tanta parte della riflessione greca su questo tipo di racconti, con l’elaborazione di strategie interpretative che – come l’allegoria – tenderanno a salvare l’importanza della mitologia senza per questo accettarne gli imbarazzanti, talvolta scandalosi, significati letterali. In ogni caso, parlando di mythos per la Grecia classica, non bisogna dimenticare che questa forma discorsiva resta specificamente connessa alla produzione di carattere poetico: sono i poeti che hanno creato o creano il mythos, e senza di loro esso non esisterebbe.

    Quanto alla vicenda moderna della parola, è opportuno ricordare che, per designare i racconti mitologici degli antichi, il Medioevo e il Rinascimento non hanno più parlato di mythos o di mythus, ma hanno usato il termine latino fabula (da cui l’italiano favola, il francese fable e così via). Così farà ad esempio Giovanni Boccaccio che, nelle sue Genealogiae deorum gentilium, redigerà la prima grande enciclopedia delle fabulae antiche. A riportare in luce il termine greco dimenticato, sono Giambattista Vico in Italia e Christian Gottlob Heyne in Germania, entrambi nella seconda metà del XVIII secolo. Da questo momento in poi, le vicende (ma anche le metamorfosi) del mythus, mythos o mito che dir si voglia, assumono un andamento turbinoso. Con questa parola, infatti, non si designa più semplicemente un racconto, ancorché favoloso. Mythos diviene capace di veicolare significati assai più complessi, raffinati, affascinanti. Il discorso mitico comincia a essere inteso come manifestazione di una civiltà prefilosofica destinata ad essere superata dalla razionalità successiva – se poi questo trionfo della ragione sul mito fosse da considerarsi un vantaggio o meno per l’umanità era naturalmente un altro discorso. E soprattutto materia di un dibattito che, per certi versi, dura ancora.

    A motivo di questa prima trasformazione, il mito ne subisce una seconda, che sviluppa e completa quella precedente. Esso infatti perde definitivamente, il proprio valore originario di enunciazione, di modalità del discorso, soprattutto poetico, per presentarsi come un vero e proprio modo di pensare: la manifestazione di una ragione arcaica, ovvero primitiva, e in ogni caso diversa da quella condivisa dai moderni, che esprimeva in maniera fascinosamente mitica le proprie memorie storiche o le proprie idee cosmologiche e filosofiche. Il mito, concetto descrittivo, assume così lo statuto di una realtà trascendente, diviene qualcosa che esiste per sé e, soprattutto, qualcosa di cui si può parlare. Anzi – e questa costituisce la terza tappa nella metamorfosi del mito – un qualcosa di cui si può fare la scienza: siamo così arrivati alla mitologia, una disciplina per la quale si richiedono conoscenze specifiche, una specializzazione, una biblioteca. E soprattutto l’attività di innumerevoli scuole interpretative.

    Nel corso di questa vicenda si è prodotta un’altra importante conseguenza. Fondandosi sulla – presunta – equivalenza fra antichi da un lato e cosiddetti primitivi dall’altro, il termine mito è stato usato anche per designare i racconti provenienti da culture lontane: dall’America precolombiana all’Africa, all’Oceania. L’auroralità di carattere temporale, insomma, è stata vista come intercambiabile con l’auroralità di carattere spaziale, e così gli esotici primitivi dell’antropologia ottocentesca hanno potuto prendere il posto degli antichi. La parola greca mythos ha dunque finito per designare anche i racconti di culture che con quella greca non avevano nulla a che fare. Siamo così arrivati a quegli innumerevoli libri, presenti tanto nelle biblioteche universitarie che in quelle domestiche, i cui titoli suonano Miti Nordici, Miti Maya, Miti Indù e così via, di continente in continente.

    Questa pluralità di valori e significati assunti dalla categoria mito nella cultura moderna appare evidente anche dalla molteplicità di definizioni che ne vengono date. Accanto a quelle più semplici e ormai tradizionali, come racconto sugli dèi, racconto sull’origine o anche racconto connesso al rituale, ci sono poi quelle più recenti e sofisticate, che hanno a che fare con la psicoanalisi, con l’analisi strutturale o con la teoria letteraria. Di fronte al mito ci si può perfino scrollare di dosso qualsiasi necessità di definirlo, per rifugiarsi direttamente nell’empatia o nell’ineffabile: il mito lo si sente, è un’esperienza emozionale. Ecco come si esprimeva, nel 1825, il fondatore della cosiddetta mitologia scientifica, Karl Otfried Müller: Questo è comunque chiaro: che la semplice tecnica combinatoria del sillogismo, per quanto ordito con sottigliezza, può condurre vicino all’obiettivo, ma non all’obiettivo stesso; e che l’ultimo atto, la comprensione autentica e interiore [del mito], richiede un momento di entusiasmo, di eccezionale tensione e di straordinaria cooperazione fra tutte le forze spirituali, che si lascia indietro ogni calcolo (K. O. Müller, Prolegomeni a una mitologia scientifica, 1825, Guida, Napoli 1991, p. 151). Si tratta di una visione di tipo apertamente romantico, che giunge però fino al XX secolo. Basta ricordare la concezione mistica che del mito, e di quello greco in particolare, hanno propugnato studiosi come Walter Otto. Quando si va in cerca del significato del mito – quando si desidera cogliere la sua essenza o la sua verità – ciò che conta è in primo luogo il coinvolgimento dell’interprete: ciò da cui non si può prescindere è una vicinanza elettiva fra Beruf inteso come mestiere e Berufung intesa come vocazione. Insomma, più che studioso il mitologo avrebbe da esser poeta.

    Con tutto ciò, bisogna anche dire che rinunziare al mito è difficile, per non dire impossibile. La tensione fra il rifiuto e la fascinazione, il disinteresse (se non il disprezzo) e l’amore per questo genere di racconti sembra essere continua. Potremmo anche provare a mettere il problema in questi termini. Da un lato sta un discorso, definito mitico, che spesso si presenta troppo bizzarro o inverosimile per essere accettato così com’è: Bellerofonte che cavalca un Pegaso alato e uccide una Chimera con testa di leone e coda di serpente, Eracle che affronta un serpente dalle molte teste, che una volta tagliate ricrescono – ma anche la fondazione di Roma da parte di due gemelli figli di Marte e allattati da una lupa, a loro volta discendenti da un eroe troiano che aveva Venere per madre. Dall’altro lato, però, stanno dei lettori che, in qualche modo, non vogliono o non possono rassegnarsi all’idea che il mito sia solo e soltanto questo. Sono quei sapienti, come li chiamava Platone, i quali militano oggi nelle schiere degli storici (che nei miti cercano tracce di una storia mai scritta), degli antropologi (che nei miti cercano i fondamenti culturali di una data comunità), dei critici letterari (che nei miti cercano gli archetipi o i modelli dell’immaginario), degli psicoanalisti (che nei miti cercano le forme dell’inconscio), degli storici delle religioni (che nei miti cercano la giustificazione di rituali o credenze) – per non parlare dei potenti di tutti i tempi, che ai miti chiedono argomenti per giustificare il loro potere o per affermare la vera identità del gruppo cui sentono di appartenere. In altre parole, sono tutti lettori o fruitori del mito che tendono a restituire una specifica autorità al discorso mitico, anche a dispetto del modo – fantasioso, illogico, incredibile – in cui esso si presenta: o forse proprio per questo. E così facendo, questi interpreti tornano paradossalmente, e certo inconsapevolmente, a restituire al discorso/mythos quel carattere autorevole, forte, che esso aveva nella cultura greca arcaica: quasi che l’antica forza del mythos – discorso autorevole, discorso che si impone e deve essere eseguito – tornasse a farsi sentire sotto la scorza dei miti antichi.

    Detto ciò, che cosa dobbiamo farne dei miti? Volgiamo le spalle all’ineffabile di Karl Otfried Müller o di Walter Otto e proviamo a rivolgerci (almeno) al ragionevole. "I miti sono racconti tradizionali forniti di una speciale ‘significatività’ (Bedeutsamkeit): così ha scritto Walter Burkert, un grande studioso che al mito e alla religione antica ha dedicato tutta la vita (W. Burkert, Mythos - Begriff, Struktur, Funktion" in F. Graf, ed., Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das paradigma Roms, Teubner Stuttgart und Leipzig 1993, p. 9 sgg.). Questa definizione si presenta sufficientemente semplice da risultare generale, ma anche sufficientemente specifica per destare fiducia. Soprattutto, possiede un indiscutibile valore operativo. Tradizionalità da un lato e significatività dall’altro, ecco i due poli fra i quali scatta quella tensione che viene chiamata mito. Naturalmente, sugli elementi che fondano questa definizione ci si potrebbe subito mettere a discutere. Per esempio, esiste un preciso lasso di tempo in seguito al quale un racconto può essere legittimamente considerato tradizionale? Un secolo, due secoli, tre secoli... E non potrebbe essere considerato tradizionale anche un racconto nuovo di zecca che, però, di tradizionale presenta i materiali che lo compongono, o meglio ancora la forma utilizzata per costruirlo? Personalmente sottoscriverei volentieri questa possibilità. E poi, la significatività del mito a cosa deve essere riferita? Nella teoria della comunicazione, la significatività (Bedeutsamkeit) di un certo fenomeno, misurabile anche in termini di rilevanza o importanza, ne definisce l’efficacia e la qualità riguardo alla trasmissione dell’informazione. Dunque il mito viene definito in qualche modo come un racconto efficace. D’accordo, ma per chi? Efficace per la comunità, per una sua parte, per chi la governa, per chi semplicemente lo ascolta o lo legge...

    Naturalmente, poi, sarebbe ingenuo credere che tradizione costituisca un sinonimo di antichità, genuinità o autenticità. Che le tradizioni di una comunità, e con esse i suoi miti, possano essere di volta in volta ricostruite a seconda delle necessità del presente è un fatto troppo noto perché sia necessario insistervi. Si tratta di un fenomeno legato al modo in cui procede, in generale, la memoria collettiva di una comunità. Come ci ha insegnato a suo tempo Maurice Halbwachs, infatti, la memoria collettiva si fonda su una serie di cornici di riferimento – cornici a carattere sociale – che ne condizionano fortemente i contenuti. Al mutare di questi quadri sociali mutano anche le memorie che del passato si hanno. Passo dopo passo, il gruppo sociale ricostruisce dunque anche il proprio passato e la propria tradizione – adattandoli ai quadri sociali del presente che avanza – così come progetta anche il proprio futuro. Nella definizione del mito, dunque, la categoria di tradizione deve essere utilizzata indipendentemente dal fatto che questa tradizione sia da considerarsi antica o recente, genuina o manipolata, originale o ricostruita. L’importante è che il racconto mitico sia presentato e usato come se fosse un racconto tradizionale: e soprattutto, come abbiamo detto, che sia ritenuto in qualche modo significativo per la comunità a cui si riferisce.

    Rimandi

    Volume 9: Introduzione alla letteratura della Grecia

    Volume 14: Le fabulae dei Romani

    Il linguaggio del politeismo

    Gabriella Pironti

    Spesso, nei dizionari di mitologia, i ritratti degli dèi si susseguono l’un l’altro, avvalorando la falsa impressione che il divino al plurale consista semplicemente nella giustapposizione di divinità personali dalle identità semplici e dalle competenze ben definite: il politeismo, invece, è innanzitutto articolazione delle divinità tra di loro, di modo che ogni pantheon, ogni configurazione di dèi, si adatti al contesto in cui è inserita. Una divinità possiede innumerevoli aspetti, che si declinano anch’essi secondo i luoghi e le circostanze: una potenza divina, infatti, non si riduce a un solo campo o modo d’azione, ma riproduce a sua volta, all’interno della sua rete di competenze, una sorta di micropantheon.

    Le categorie native della religione in Grecia

    I Greci non si definivano politeisti: il termine polytheia, da cui deriva politeismo, è stato coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone d’Alessandria per opporre l’unicità del Dio d’Israele alla concezione pluralistica del divino che caratterizza la maggior parte delle religioni dell’antichità (tra le eccezioni più significative vi sono appunto il giudaismo post-esilico e in seguito il cristianesimo). Il termine politeismo nasce dunque con una connotazione peggiorativa e finisce col tempo per designare null’altro che l’opposto negativo di monoteismo, costrutto moderno che implica non tanto la fede in un solo dio, ma in un dio unico (monos) a esclusione di tutti gli altri. Solo dopo un lungo percorso, e grazie al fondamentale apporto delle discipline antropologiche a partire dal XIX secolo, il termine politeismo si è avviato a conquistare una certa neutralità; parallelamente, si è cominciato a riconoscere dignità di religione e, in quanto tale, di oggetto di studio, a un insieme di tradizioni mitiche e di pratiche rituali considerate fino ad allora solo come una forma primitiva o degenere di religione.

    Prima di delineare i tratti fondamentali della religione greca occorre precisare che noi adoperiamo in modo convenzionale non solo il termine politeismo, ma anche quello di religione, che non ha un equivalente esatto in greco antico: ciò non significa che i Greci non avessero una religione, ma che essi hanno elaborato una concezione del divino, e dei rapporti che intercorrono tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, ben diversa da quella che si associa comumente al termine religione. Per misurare tale differenza, basti pensare che i Greci ignorano il concetto di laicità e non conoscono quindi una separazione netta tra ciò che riguarda esclusivamente la sfera divina, e cioè la religione, e ciò che pertiene esclusivamente al mondo degli uomini. Non esiste insomma, nella Grecia antica, un sacro che si opponga al profano. Ogni aspetto della vita e della società è al tempo stesso affare degli uomini e degli dèi, sicché l’embricatura tra le due sfere è tale che la cultura greca non sembra abbia sentito il bisogno di elaborare una nozione, come quella moderna di religione, che delimiti l’esperienza e l’ambito del divino rispetto ad altre esperienze o ambiti da cui questo può essere o è escluso.

    I Greci hanno dei nomoi, al tempo stesso usi e leggi, e tra i patrioi nomoi, i costumi ancestrali di ogni comunità, vi è quello di rendere agli dèi gli onori cultuali che la tradizione riserva loro: nomizein tous theous. Nell’esprimere il loro rapporto con il divino, i Greci hanno posto l’accento non tanto sulla fede o sulla credenza, ma sugli obblighi rituali, la cui esecuzione scrupolosa, nel rispetto della tradizione, garantisce i buoni rapporti con le divinità e ne promuove la manifestazione benefica. Che gli dèi esistano e agiscano sembra un presupposto che non ha bisogno di essere formalizzato: la religiosità greca si esprime piuttosto nel riconoscere gli onori (timai) dovuti a ogni divinità attraverso l’azione che ne consegue, l’onorare (timan) gli dèi. Nel prendersi cura (therapeuein) degli dèi consiste appunto, secondo Platone (Eutifrone, 12e), l’eusebeia, vale a dire l’atteggiamento corretto da tenere nei confronti degli dèi, fatto di ammirazione, rispetto e giusto timore (sebas): l’eusebeia non è una virtù astratta, ma si traduce concretamente nel culto reso agli dèi, espresso di fatti anche con il verbo sebein. La pietas antica non si risolve però in un vuoto ritualismo: famoso è il ritratto sarcastico che traccia il filosofo Teofrasto del superstizioso, a riprova che la deisidaimonia, ossia l’eccessivo timore degli dèi e il ritualismo ossessivo che ne consegue, è altrettanto lontana dall’eusebeia quanto il rifiuto di onorare gli dèi.

    Il lessico greco del sacro consente di valutare il décalage tra la nozione moderna, che implica l’opposizione al profano, e quella antica che non la conosce: hieros, sacro, designa ciò che appartiene alla divinità o che la riguarda, ma non esprime una qualità propria del divino, ragion per cui un dio non è hieros; hieron è invece il santuario, in quanto luogo consacrato alla divinità, hiereus/hiereia, il sacerdote e la sacerdotessa, in quanto addetti al suo culto, hiereion, l’animale sacrificale che le è destinato. Il termine greco hosios, talvolta semplicisticamente tradotto con profano, non si oppone a hieros: se dikaios designa infatti ciò che è legittimo, e quindi giusto, secondo la legge umana, hosios designa invece ciò che è legittimo, consentito, secondo la legge divina; l’espressione ta hiera kai ta hosia non significa dunque le cose sacre e le cose profane, ma distingue ciò che appartiene agli dèi, ed è quindi sottratto all’uso comune, da ciò di cui gli dèi consentono l’utilizzo; pur se ta hosia designa una sfera in cui l’uomo è libero di agire, non bisogna tuttavia dimenticare che questa sfera è parte integrante di una realtà le cui coordinate sono determinate in ultima istanza dalla volontà degli dèi.

    Caratteristiche generali del politeismo greco

    La comprensione del politeismo greco richiede innanzitutto il tentativo di concepire una religione profondamente diversa da quella cui siamo abituati. Essa non si fonda su un testo sacro, non è una religione rivelata o fondata, ma è ereditata, solidale in questo con la lingua e la cultura greca in generale. Senza ortodossia né dogmi, e di conseguenza ignara delle eresie, la cultura religiosa dei Greci impone tuttavia una sorta di ortoprassia, ossia il rispetto scrupoloso dei rituali e delle norme previste in materia di culto.

    Come non esiste una sfera del sacro opposta a quella del profano, non esiste nemmeno una casta sacerdotale, depositaria esclusiva delle verità sugli dèi: spesso i sacerdoti sono magistrati, eletti o sorteggiati dalle autorità statali, senza che il loro ruolo di intermediari con il divino necessiti di vocazione o di perizia particolari. Se il culto pubblico, il cui attore umano è la comunità nel suo insieme, richiede la presenza di un sacerdote, vi sono casi in cui il semplice cittadino può compiere gli atti del culto da solo, purché nel rispetto delle regole previste. La comunicazione con gli dèi non è dunque privilegio di pochi.

    La vita delle città greche è intrinsecamente legata alla religione: gli dèi non gestiscono soltanto i destini dei singoli, ma anche e soprattutto quello della comunità, profilandosi quindi come garanti dello stato e delle istituzioni politiche. D’altro canto, ogni comunità ha un suo proprio pantheon, diversamente articolato al suo interno, e specifiche tradizioni, sicché l’espressione religione greca si riferisce piuttosto a una cultura religiosa generalmente condivisa che non a un insieme definito di credenze e di pratiche che si riprodurrebbe identico di città in città.

    Alla varietà dei pantheon locali corrisponde appunto un vincolo particolarmente stretto tra la singola comunità e gli dèi insediati nel suo territorio. Occorre inoltre precisare che la sfera sovrumana comprende, accanto agli dèi più noti, altre potenze, divine (quali daimones, ninfe, fiumi) o eroiche, anch’esse destinatarie di culto e il più delle volte strettamente legate al territorio e alle tradizioni locali.

    Lo studio del politeismo greco è stato ostacolato per lungo tempo da una serie di pregiudizi, la cui causa risiede in parte nella difficoltà di accedere a una rappresentazione del mondo non fondata su una reductio ad unum, e in parte nella difficoltà di prendere sul serio gli dèi della Grecia, troppo spesso ridotti a protagonisti sovrannaturali di favole considerate tanto affascinanti quanto assurde. Come ha dimostrato Jean-Pierre Vernant, gli dèi non sono personaggi, né vere e proprie persone dotate di una precisa identità, ma potenze divine che, in quanto tali, agiscono al tempo stesso nella natura, nell’uomo e nella società, attraversando i diversi piani del reale: anche se raffigurate per lo più sotto forma umana, le divinità possono manifestarsi attraverso una moltitudine di segni e sotto varie forme, e tuttavia non si identificano mai del tutto con le loro manifestazioni particolari. Un esempio tratto dalla vita dello storico Senofonte chiarirà la distinzione tra persona e potenza divina: nel corso della spedizione militare raccontata nell’ Anabasi, pur avendo onorato Zeus Basileus (Re), Senofonte si ritrova in difficoltà economiche perché ha dimenticato di propiziarsi un altro Zeus, il Meilichios (l’epiteto cultuale evocherebbe la parola miele), legato alla fortuna familiare (Anabasi, VII, 8, 1-6). Zeus è una potenza divina che si declina in diverse forme e aspetti, non una persona divina dotata di una sua identità: per l’uomo greco è possibile infatti concepire al tempo stesso che Zeus sia uno – e quindi riconoscibile nei suoi vari aspetti – e molteplice, al punto che Senofonte è sostenuto da una figura di Zeus, mentre un’altra figura del dio è adirata

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