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Antichità - La civiltà romana - Letteratura: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 16
Antichità - La civiltà romana - Letteratura: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 16
Antichità - La civiltà romana - Letteratura: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 16
E-book336 pagine3 ore

Antichità - La civiltà romana - Letteratura: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 16

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Info su questo ebook

La letteratura romana gode di un singolare privilegio: quello di nascere adulta. Come un innesto fatto sul ceppo di una pianta già cresciuta, le sue radici sono quelle di un albero annoso, che le dà linfa, così da renderla più rigogliosa e più forte. Così è per la letteratura latina, che si è trovata a crescere sul ceppo di quella greca, assumendo pian piano sempre più coscienza di sé, della propria identità e delle potenzialità espressive della propria lingua.

In questo ebook la letteratura latina in tutte le sue declinazioni, dalla martellante trama fonica delle origini all’arioso periodo ciceroniano, dalla tonante voce dell’epica, alle note soffuse e intimistiche di Catullo, fino alle sferzanti satire di Giovenale; una letteratura che, affinando di volta in volta il proprio armamentario retorico, ha saputo raccogliere la lezione greca al punto da superarla e farsi essa stessa modello per le culture a venire.

Un ebook per conoscere quella letteratura che ha inciso profondamente sul modo di vivere e di pensare che ci è proprio, ed è rimasta tuttora a paradigma non solo di una visione del mondo, dell’uomo e della vita ma di un modo mirabile di scrivere e organizzare il pensiero.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514381
Antichità - La civiltà romana - Letteratura: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 16

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    Anteprima del libro

    Antichità - La civiltà romana - Letteratura - Umberto Eco

    copertina

    Antichità - La civiltà romana - Letteratura

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Antichità

    La civiltà romana

    Letteratura

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla letteratura di Roma

    Maurizio Bettini

    La produzione letteraria romana ci si presenta come il primo esempio, a noi noto, di che cosa significa raccogliere in archivio i testi di una grande cultura e metterli a disposizione di intellettuali che appartengono a una lingua e a una cultura diversa. A Roma, infatti, ciò che noi chiamiamo letteratura nasce dall’assimilazione del grande archivio messo insieme dai Greci con la sistemazione della loro produzione culturale del passato. Ciò non significa che la letteratura latina sia inferiore a quella greca, come in passato si è sostenuto: al contrario, è davvero appassionante potersi render conto di ciò che autori come Cicerone, Virgilio, Orazio o Seneca sono riusciti a creare, e a tramandare alle generazioni successive, vivendo questa esperienza di mescolanza e di ricreazione.

    La letteratura romana gode di un singolare privilegio: quello di nascere adulta. Se volessimo trovare un’immagine per illustrare questa affermazione – come del resto ci inviterebbero a fare i retori antichi – potremmo ricorrere alla seguente: rassomiglia a un innesto fatto sul ceppo di una pianta già cresciuta. Per quanto giovane, le sue radici saranno quelle di un albero annoso, per cui lo sviluppo del nuovo virgulto sarà necessariamente più rapido, più rigoglioso, più forte. Così è per la letteratura latina, che si è trovata a crescere sul ceppo di quella greca. Ma di questo parleremo fra un momento. Piuttosto, che cosa producono i Romani prima che la cultura greca sia massicciamente importata nella città? Quali sono le loro forme di comunicazione letteraria? Cominciamo dalle parole.

    Quando i Romani vogliono indicare la poesia, dicono carmen. Si tratta di un termine antico, che essi sentono in qualche modo connesso con il verbo cano cantare. Dunque a Roma la poesia sarebbe stata in realtà un canto? Se così fosse, ciò costituirebbe subito una notevole differenza rispetto al nostro modo di intendere la poesia. Per noi, infatti, quest’arte non presuppone alcun uso melodico, o musicale, della voce. Per i Romani invece sì, la poesia prevede (a quanto pare) anche un uso melodico della voce umana. Ma quale tipo di uso melodico? Andiamo avanti, perché la parola carmen ha in serbo per noi altre sorprese.

    A Roma infatti si chiamano carmina – al plurale – non solo le poesie, ma anche numerosi tipi di testi relativi ai campi più svariati della cultura: precetti, leggi, incantamenti, formule di giuramento, preghiere, oracoli, e così di seguito. Sotto i nostri occhi la categoria usata dai Romani per definire la poesia sembra sfaldarsi senza rimedio: se si possono chiamare carmina anche una legge o una preghiera al dio Marte – come quella, celebre, registrata nel De agricultura di Catone – dove va a finire la poesia? Credevamo di ascoltare le note arcane di un canto, invece stiamo assistendo alla solenne celebrazione di un sacrificio. In realtà la poesia, ovvero il canto, ci sono ancora, basta capire bene di che si tratta. Se si prendono infatti ad una ad una le produzioni che i Romani definiscono carmina – anche quelle apparentemente più lontane dalla poesia, come una formula di giuramento o il responso di un oracolo – si nota che tutte quante sono accomunate dalla stessa caratteristica: si tratta di testi che si presentano radicalmente diversi dal parlare comune. In altre parole, vengono definiti carmina degli enunciati concepiti non per essere usati e subito dimenticati (come accade con qualsiasi discorso quotidiano), ma per essere conservati nella memoria della comunità. Una legge, una preghiera, un vaticinio, un precetto di saggezza, e così di seguito, sono destinati a durare – la legge non si applica certo una volta sola, il sacrificio e la preghiera sono, come minimo, annuali. Tutte le composizioni che i Romani definiscono carmina, insomma, sono pensate in modo tale da poter essere ripetute ogni volta che se ne presenti la necessità. Per ottenere questo scopo, però, bisogna dare al discorso un taglio specifico: usando un lessico poco consueto, ma soprattutto costruendo parallelismi fra le singole frasi, creando giochi fonici capaci di colpire l’attenzione e la memoria – in una parola, ricorrendo agli strumenti dell’analogia.

    Nella fase storica di cui stiamo parlando, infatti, la civiltà romana è ancora profondamente orale. L’uso della scrittura è limitato e sia la produzione, sia la conservazione dei testi, anche quelli più rilevanti, sono in definitiva affidate alla memoria. Nella società moderna, perché un testo possa durare basta metterlo per iscritto, meglio ancora se lo si inserisce in un libro o in una raccolta che porti un titolo autorevole (tipo Codice di diritto civile o Messale Romano). Ma come si fa ad ottenere lo stesso risultato in un mondo in cui tutti i discorsi si presentano uguali, perché tutti sono ugualmente fondati sulla bocca, sull’orecchio e sulla memoria? L’unica cosa da fare è costruirli in modo tale che essi si presentino immediatamente come diversi, usando uno stile ricco di allitterazioni, giochi fonici, echi, parallelismi e così di seguito.

    Ma questo non basta ancora. È lecito infatti aspettarsi che, quando questi carmina vengono recitati, si faccia ricorso anche ad una dizione adeguata alla natura eccezionale del testo. In altre parole, che si utilizzino quei tratti che i linguisti definiscono soprasegmentali, come l’intonazione e il ritmo di frase: per far comprendere immediatamente all’uditorio che tipo di discorso sta ascoltando. Possiamo insomma supporre che, al momento di recitare un carmen, la voce assuma una curva melodica, musicale, e in qualche modo vada assomigliando a un canto. Ecco perché i Romani chiamano carmina (da cano cantare) i testi destinati ad entrare – e a restare – nella memoria della comunità. La poesia, intesa come successione di versi, fa ovviamente parte di questo insieme, e ne costituisce anzi uno degli esempi più ragguardevoli.

    Non dimentichiamo infine che la lingua dei Romani ha una struttura che, per sua stessa natura, predispone al canto. Le vocali del latino hanno ciascuna una loro specifica durata – sono infatti brevi o lunghe, come note di differente valore – e ugualmente brevi e lunghe sono considerate le sillabe di cui ciascuna parola si compone. Quanto all’accento, anch’esso ha natura musicale, ossia corrisponde non ad una forte espirazione, come in italiano, ma ad un innalzamento ovvero abbassamento del tono della voce. Per un poeta romano, insomma, è abbastanza naturale cantare.

    Noi non potremo mai ascoltare la melodia, se possiamo chiamarla così, di un antico carmen. È anzi lecito chiedersi se gli autori romani che ci sono noti l’avessero mai udita. Come dicevamo, infatti, quando si parla di carmen ci si riferisce ad una fase molto remota della cultura romana, ben diversa da quella che ci è attestata nei documenti scritti. Per fortuna qualche prosatore, o qualche grammatico, ha sentito la necessità di trascrivere, almeno, qualcuno di questi antichi carmina: sono preghiere, formule, incantesimi. Ma sono anche frammenti tratti dalla più antica poesia (scritta) dei Romani, la traduzione che Livio Andronico fa dell’Odissea di Omero e il poema che Gneo Nevio scrive sulla prima guerra punica, il Bellum Poenicum. In questi testi forse risuonano ancora alcune note dell’antico carmen: il metro usato è quello della poesia romana più antica – il saturnio, verso dei fauni e degli indovini – mentre il lessico e la sintassi appaiono ancora fortemente marcati dall’oralità e dalla costruzione analogica. Soprattutto, la dea che presiede a questa poesia non è la Musa dei Greci, come accadrà in seguito, ma è ancora la Camena: una divinità profetica e poetica nello stesso tempo, legata al mondo delle acque, il cui nome, come quello del carmen, i Romani sentono connesso con il verbo cano. Solo che, nel frattempo, nel Lazio si sta verificando un evento culturale di importanza capitale, non solo per i Romani ma anche per i moderni: l’incontro con la produzione letteraria dei Greci. Eccoci tornati al punto da cui siamo partiti: la letteratura romana nasce adulta.

    Acculturazione ellenica a Roma

    La velocità con cui a Roma si realizza l’acculturazione ellenica, se possiamo chiamarla così, ha qualcosa di impressionante. È un processo innescato dai libri dei Greci – rotoli di papiro, in latino volumina – ma che certo non potrebbe compiersi senza l’apporto di alcuni uomini i quali, a motivo della propria appartenenza culturale, di questi libri possono farsi mediatori. I primi autori romani, infatti, non sono cittadini di Roma. Livio Andronico è uno schiavo greco che viene da Taranto, Gneo Nevio è campano, Quinto Ennio è nato a Rudiae, in Puglia. Aulo Gellio racconta che Ennio aveva l’abitudine di dire che aveva tria corda, tre cuori, perché sapeva parlare greco, latino e osco. I Romani identificano infatti nel cor la sede delle capacità spirituali dell’uomo, la sua memoria, la sua cultura: in una parola qualcosa di simile a ciò che noi oggi definiremmo identità. Dunque Ennio, con le sue tre lingue, ha in certo modo tre identità, vivono in lui tre persone diverse.

    In ogni caso, quel che accade a Roma in quegli anni ha del miracoloso. Nel giro di pochi decenni gli scrittori di Roma – autori cioè che compongono in latino – sono in grado di far passare la cultura romana dai carmina tradizionali alla composizione di opere raffinate, addirittura nello stile dell’ellenismo greco. Fra il III e il II secolo a.C. Ennio, il poeta di cui si è già detto, compone non solo il primo grande poema epico che celebra la storia romana, dalle origini mitiche ai giorni suoi, gli Annales, ma anche eleganti epigrammi e perfino poemetti scherzosi. Uno di essi, gli Hedyphagetica, è praticamente una gastronomia in versi, e per cantare le virtù dei pesci da mettere in pentola, trasformandoli ironicamente in valorosi eroi, Ennio si serve delle sue stesse formule epiche, facendo insomma il verso ai suoi stessi Annales. L’uomo di Rudiae usa con disinvoltura i metri dei Greci, e deride il saturnio dei suoi predecessori. Mentre spiega al suo pubblico che le Camenae altro non sono se non le greche Musae.

    Più o meno negli stessi anni, Plauto, un umbro di Sarsina, traducendo e rielaborando liberamente i copioni dei commediografi attici, come Menandro, è capace di regalare al pubblico romano pièces di grande successo e, soprattutto, di eccezionale valore artistico. Per merito di Plauto, nel giro di pochi anni l’inventario occidentale dei generi letterari si accresce di una voce non trascurabile, la commedia romana, detta palliata. Creando un favoloso universo scenico in cui gli schiavi, per la loro superiore furbizia, trionfano sui padroni, e i giovani hanno ragione dei vecchi. Terenzio, un africano che di Plauto è un più raffinato continuatore, porta anzi questo genere alla condizione di un vero e proprio canone, ammirato, e soprattutto seguito, dal Medioevo fino al Settecento. Mentre Catone il vecchio, nonostante i suoi molteplici impegni di console e di censore, può mettere insieme un prezioso trattato di agricoltura, alcune orazioni dallo stile ancora tanto allitterante (eco degli antichi carmina?) quanto efficace, e soprattutto la prima grande storia non solo di Roma, ma anche delle altre città italiche: sette libri di Origines. E tutto ciò, dicevamo, avviene nel giro di pochi anni. Come è stato possibile?

    Al generale tedesco Karl von Clausewitz si attribuisce, com’è noto, una frase tanto cinica quanto efficace: la guerra, diceva, costituisce un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. Proviamo a piegare questo schema di ragionamento in una direzione se non altro meno nociva. Potremmo dire allora che la produzione letteraria romana, da un certo punto in poi, costituisce un seguito del procedimento letterario greco, una sua continuazione con altri mezzi – mezzi linguistici e culturali, ovviamente. Non che i Romani siano stati, come talora si è detto in passato, semplicemente degli epigoni o degli imitatori dei Greci; tanto meno si può affermare che le opere composte dagli autori latini costituiscano addirittura un prodotto di seconda scelta. Solo un lettore prevenuto, o meglio sprovveduto, potrebbe affermare che l’Eneide è una brutta copia dei poemi omerici. Le cose sono molto più complicate di un banale concorso di poesia, con il primo premio assegnato al componimento più originale. I rapporti fra le culture, e dunque quelli fra i prodotti che ne derivano, non possono essere valutati in base a un criterio – quasi sempre arbitrario – di originalità, ma piuttosto in base al metro della continuità, ovvero del progressivo nutrimento letterario nel passaggio da una cultura all’altra. Il fatto è che i Romani hanno imparato dai Greci tanto quanto il Medioevo ha imparato dai Romani, e così di seguito, fino ad oggi. Una contesa poetica fra i Greci e i Romani non avrebbe senso. È inutile chiedersi se la letteratura e la poesia dei Romani siano inferiori o superiori a quella dei Greci: chiediamoci piuttosto che cosa è avvenuto, a Roma, allorché gli scrittori abbandonarono la Camena per rivolgersi senza rimpianti alla Musa.

    La letteratura testimone dello sviluppo della società romana

    A cavallo fra il IV e il III secolo a.C. nel mondo greco è stata compiuta una straordinaria opera di sistemazione e raccolta dei classici, se possiamo chiamarli così. I testi storici, filosofici, epici, tragici, comici, lirici, elegiaci e così via sono stati riuniti in grandi corpora e depositati in biblioteche che, come quella di Alessandria, costituiscono il vanto delle monarchie ellenistiche.

    Ciò che è stato realizzato in quel periodo, dunque, è la creazione di un grande archivio testuale – oggi, nell’era del computer, possiamo renderci conto ancora meglio di che cosa ciò possa significare – un archivio che i Romani, quando accolgono la cultura dei Greci, si trovano a disposizione. Per questo all’inizio di questa introduzione abbiamo detto che la produzione letteraria latina nasce come un innesto realizzato su un ceppo le cui radici sono già profondissime, visto che scendono fino ad Omero. È per questo che essa può sbocciare, crescere e fiorire così rapida e rigogliosa. Lungi dall’essere una brutta copia della poesia e della cultura dei Greci, la produzione romana ci si presenta dunque come un fenomeno culturale di straordinario interesse. Essa costituisce il primo esempio, a noi noto, di che cosa significa trascrivere, raccogliere, depositare in archivi i testi di una grande cultura e, soprattutto, mettere questi archivi a disposizione di intellettuali che appartengono a una lingua e a una cultura diversa. Se Ennio dice di avere tria corda, tre cuori, perché sa parlare greco, latino e osco, gli autori latini delle generazioni seguenti avrebbero potuto dire più modestamente (ma con altrettanta verità) che di cuori ne avevano almeno due: uno romano, uno greco.

    La storia va avanti, e trascina con sé tutte le mutazioni che caratterizzano lo sviluppo di una grande società. Di questo le opere letterarie costituiscono spesso la testimonianza più duratura. Quando Lucrezio si mette a comporre la sua grande opera filosofica in versi, il De rerum natura, la metrica che usa e la lingua poetica che si trova a disposizione sono ancora quelle del poeta Ennio, il quale è vissuto cent’anni prima di lui. Ma quale differenza! Se la musica dei versi è spesso la stessa, Lucrezio compone con un’angoscia interiore, personale, che certo Ennio (semai la provò) non avrebbe certo pensato di esprimere. Soprattutto, Lucrezio si rivolge adesso a un pubblico che, dalla poesia, si aspetta non solo il racconto di epiche gesta o qualche raffinato gioco letterario, ma addirittura risposte sul mondo e sul significato dell’esistenza. Lucrezio, filosofo oltre che poeta, legge e studia le opere di Epicuro, un’altra sezione importante del grande archivio dei Greci, e contro le stesse opinioni del suo maestro, il quale non ha stima della poesia, si consacra a quella didascalica. E in versi si fa banditore di temi come il disinteresse degli dèi verso il mondo degli uomini, i mali provocati dalla religio, la fisica degli atomi (che ugualmente conduce l’uomo alla liberazione dall’angoscia della morte).

    Quasi contemporaneamente a Lucrezio, un giovane di Verona, di nome Catullo, utilizza altre forme dei Greci – prima di tutto l’epigramma – per parlare di sé, dei suoi amici e dei suoi amori. Catullo vive in una società ormai ricca, colta, che ama la poesia e ancor più ama la vita. Da questa esperienza, che è prima di tutto un’esperienza sociale, di micro-società giovanile, nasce quello che ancora oggi chiamiamo il Liber di Catullo. Una raccolta poetica di grande originalità, in cui composizioni provocatorie, talora assai divertenti, si alternano ad altre appassionate fino alla disperazione. Ma il giovane veronese – chissà che cosa sarebbe riuscito a fare, se non fosse morto a trent’anni – non rinunzia neppure ad apparire poeta dotto, alla maniera degli alessandrini. E compone carmi di argomento mitologico e poemetti che si rifanno ad esoteriche forme religiose: il suo Attis

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