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Antichità - Temi trasversali: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 19
Antichità - Temi trasversali: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 19
Antichità - Temi trasversali: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 19
E-book356 pagine4 ore

Antichità - Temi trasversali: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 19

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Varie e profonde differenze separano la cultura greca da quella romana. Basti pensare alla differenza tra l’arte greca del periodo aureo e il tardo realismo romano, o ancora alla differenza tra il concetto di polis e quello di impero o al diverso modo di confrontarsi coi barbari. Ma ci sono alcuni temi che attraversano entrambe le culture, vuoi senza cambiamenti sensibili, vuoi in un processo di sviluppo che non conosce brusche interruzioni. Ecco perché in quest’opera diventa centrale il confronto serrato tra le due civiltà in dialogo, quella greca e quella romana, ciascuna con la propria personalità. Si veda ad esempio l’insieme delle teorie sul linguaggio e sul segno: un ininterrotto scambio di esperienze e ricerche che attraversano la logica, la poetica, la retorica, il diritto e la medicina, sia che si tratti di Ippocrate o di Galeno, di Aristotele o di Quintiliano; e la sintesi che ne tenta Agostino è volta a unificare tutta la precedente tradizione greco-romana.
In questo ebook si trova una selezione di temi in cui cultura greca e romana si confrontano secondo gli specifici punti di vista, talora opposti talora convergenti, perché la storia vive delle sue contemporaneità e delle interrelazioni dei popoli che la costruiscono. Un utile strumento che presenta la storia nella sua polifonia, fatta di realtà magmatiche, distinte e interagenti, a loro volta costituite da persone vive e comunicanti.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2014
ISBN9788897514442
Antichità - Temi trasversali: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 19

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    Antichità - Temi trasversali - Umberto Eco

    Teorie dell’origine del linguaggio

    Giovanni Manetti

    Il problema di ricostruire le origini di una determinata istituzione umana o di un certo fenomeno culturale ha ossessionato l’antichità classica. Il linguaggio, istituzione umana per eccellenza, non è stato a questo proposito oggetto di eccezione. Così, da parte di molti filosofi, ci si è chiesti se in origine i nomi fossero stati posti in corrispondenza con le cose per una convenzione (nomo, thesei) tra gli uomini o in seguito ad una ispezione della natura (physei) delle cose stesse. E, paradossalmente, entrambe le soluzioni sono state invocate per spiegare il fatto osservabile della diversità delle lingue. Per Aristotele, capofila del convenzionalismo linguistico, i diversi popoli, pur avendo affezioni mentali identiche in relazione alle cose, le rappresentano linguisticamnete attraverso espressioni diverse. Per Epicuro, invece, che immagina una nascita del linguaggio a due stadi, e in relazione al primo stadio propone una soluzione naturalistica, nella prima fase gli uomini hanno affezioni mentali diverse da popolo a popolo, in corrispondenza con i diversi ambienti naturali, e di conseguenza le rappresentano linguisticamente attraverso espressioni diverse.

    Introduzione

    L’antichità classica ha insistentemente posto il problema dell’origine del linguaggio in tutto l’arco cronologico del suo sviluppo, dagli inizi fino ai periodi più tardi, quando questo tema verrà passato al Medioevo, che lo assumerà traducendolo in forme cristiane. Il nomoteta platonico diventerà allora l’Adamo biblico che nomina tutte le cose. La rilevanza della discussione sulle origini del linguaggio nell’Antichità non è affatto secondaria rispetto ad altri temi che potrebbero apparire filosoficamente più centrali, in quanto è in certo senso un modo mascherato e sostitutivo di discutere di problemi di essenza, di proiettare in una dimensione diacronica relazioni tra concetti che si situano più propriamente su una dimensione sincronica.

    Non a caso Proclo, nello scolio XVI al Cratilo platonico (Pasquali, ed., 1908), presentando una rassegna delle opinioni dei filosofi intorno al linguaggio, prende come elemento centrale della classificazione l’opposizione tra naturalità e convenzionalità, relazione sincronica che si stabilisce tra segno linguistico e oggetti, variamente intrecciandola con il tema specifico delle origini. Così inizia dividendo nettamente le opinioni di coloro che ritengono il linguaggio naturale – Pitagora e Epicuro – da quelle di coloro che ritengono il linguaggio convenzionale – Democrito e Aristotele. In effetti, soprattutto i sostenitori dell’origine naturale dei linguaggio legano la loro teoria linguistica alla più vasta concezione del mondo. Così è per Pitagora, che ritiene il mondo organizzato da un principio di unità e quindi non lascia spazio a una concezione in cui i nomi che esprimono le cose fluttuino arbitrariamente rispetto agli oggetti del mondo. La creazione del nome per Pitagora non appartiene al primo venuto, ma solo a chi può percepire la natura degli esseri e imitarli di conseguenza nel linguaggio. Ugualmente il linguaggio è naturale per Epicuro, che lega questo carattere al materialismo integrale della sua filosofia, per cui le parole sono il risultato di meccanismi naturali di ordine psichico (anche se immagina una genesi del linguaggio che comprende due stadi abbastanza diversi tra loro).

    Per quello che riguarda le opinioni di Democrito sul tema del linguaggio, Proclo cita solo gli argomenti che permettono di sostenere la tesi del suo carattere convenzionale, sottolineando il fatto che esistono degli omonimi e dei sinonimi ed il fatto che le cose possono cambiare di nome. Ma bisogna anche tener conto del discusso passo di Diodoro Siculo (1, 8, 3-4) contenente una teoria sull’origine del linguaggio, nella quale sono previsti vari stadi: (i) un primo stadio in cui gli uomini emettono suoni inarticolati e privi di significato; (ii) un secondo stadio che porta alla creazione di suoni molteplici e articolati e quindi alla formazione delle parole; (iii) un terzo stadio in cui si genera una convenzione per cui alcune parole diventano i segni di riconoscimento degli oggetti circostanti; (iv) un quarto stadio in cui si formano le diverse lingue che variano da popolo a popolo.

    L’elenco di Proclo si conclude ricordando il convenzionalismo aristotelico, anche se per la verità Aristotele non affronta mai specificamente il problema dell’origine del linguaggio, ma solo quello del rapporto tra nomi, stati mentali e oggetti, considerati in una dimensione acronica.

    Ad ogni modo le teorie sull’origine del linguaggio elaborate nel mondo antico, che hanno sollevato maggiore interesse e sono state variamente riprese e discusse anche nei secoli successivi, sono, rispettivamente, quella attribuita a Platone e quella di Epicuro (variamente riecheggiata da Lucrezio, nel suo La natura delle cose (V, 1028-1090).

    La posizione di Platone

    A lungo si è ritenuto che il Cratilo di Platone costituisse sostanzialmente una discussione sull’origine del linguaggio. Oggi non si pensa più che questo sia un tema centrale del dialogo; tuttavia vari argomenti in esso rintracciabili possono essere connessi a quel tema se si interpreta la questione dell’origine del linguaggio come articolabile nei seguenti aspetti: (i) la creazione del linguaggio da parte dei primi uomini che hanno posto i nomi (i nomoteti); (ii) la questione se i nomi siano stati posti per natura o per convenzione; (iii) l’evoluzione diacronica delle forme linguistiche.

    Il primo aspetto, quello che riguarda l’accenno che viene fatto nel dialogo alla presenza di un nomoteta, legislatore, datore di nomi o impositore della norma (linguistica) (388e-390e), è il fattore che ha più influenzato coloro che hanno sostenuto l’idea che il Cratilo fosse centrato sul tema dell’origine del linguaggio. In effetti il nomoteta simbolizza una autorità linguistica che trascende il singolo individuo e contemporaneamente la creatività linguistica nella fase ipotetica dell’invenzione del linguaggio. Il nomoteta non viene da Platone identificato con una figura mitica (come si è talvolta creduto), piuttosto con gli antichi, senza tuttavia che venga precisato niente di più rispetto ad essi (cfr. D. Di Cesare, La semantica nella filosofia greca, Roma, 1980). L’evocazione degli antichi, contrapposti ai contemporanei, serve a Platone per mostrare come le parole nascondano in realtà la visione che delle cose avevano i primi uomini che imposero i nomi. Tutta la sezione etimologica del Cratilo è rivolta a questo scopo. I primi nomoteti, in effetti, potevano anche sbagliare e proprio per questo avrebbero dovuto, secondo Platone, essere assistiti dal dialettico nella loro operazione onomastica (390c-d). Tuttavia, il fuoco dell’argomentazione di Platone è posto sulla mancanza di corrispondenza tra linguaggio e realtà, proprio perché il linguaggio, così come ci è dato – ammesso che rispetti una relazione naturale – non rispecchia fedelmente e oggettivamente la natura delle cose, bensì il giudizio soggettivo che delle cose avevano gli antichi nomoteti. Il nome antico svela l’intenzione di chi lo pose, dice Socrate (418c).

    Il secondo aspetto riguarda una domanda sul modo in cui il linguaggio è organizzato, se, cioè, i nomi siano legati ai loro referenti in base a convenzione (syntheke) e accordo (homologia) o in un altro modo, che può essere chiamato naturale. Lo spazio per collegare questo tema a quello di una teoria circa l’origine del linguaggio è dato dalla considerazione che comunque i nomi sono posti. Infatti nel dialogo non si sostiene mai che l’esistenza di nomi corretti per natura comporti che tali nomi non siano stati posti. Natura (physis) non viene mai opposta a imposizione (thesis): al contrario, un nome può essere posto o secondo la natura dell’oggetto (physei), o secondo un accordo stabilito con altri uomini (syntheke). Ma comunque l’assunzione che viene fatta da entrambi i contendenti è che le parole devono essere poste in ogni caso. E questo è il compito appunto del nomoteta.

    Sebbene più marginalmente, nel dialogo viene dato spazio anche al terzo aspetto, quello dell’evoluzione diacronica del linguaggio. Infatti, nella parte finale, Socrate accenna ai cambiamenti che il linguaggio ha subito, dalle forme originarie alle attuali, mostrando che i nomi possono essere sottoposti a vari tipi di mutamenti: possono deviare (paraklinein) e coprirsi (epikalyptesthai) (395b); possono aggiungere lettere, toglierle, spostare gli accenti (399a); essere presi dagli stranieri (409e e 421c) prima di assumere una forma greca. Del resto, poi, i motivi che hanno prodotto la trasformazione dei primi nomi possono essere ricondotti al desiderio di abbellimento (402e, 407c; 416b), di conferire un tono solenne (414c; 418c), di facilitare la pronuncia (412e; 414c), di dissimulare il vero significato (402c; 404c; 421c).

    L’origine del linguaggio in Epicuro

    La teoria dell’origine del linguaggio proposta da Epicuro nella Epistola ad Erodoto, 75-76 (tr. e comm. di F. Verde, intr. di E. Spinelli, Roma, 2010), è stata spesso riconosciuta come la più interessante e la più precisa. La sua esposizione viene preceduta da alcune considerazioni generali concernenti l’origine e lo sviluppo della cultura e della civiltà, in cui vengono contrapposte due fasi diverse, l’una dominata dalla natura (physis), l’altra dal ragionamento (logismos). Allo stesso titolo nella teoria dell’origine del linguaggio vengono contrapposte due fasi: (i) quella presentata nel paragrafo 75, alla fine, che corrisponde al momento della natura; (ii) quella presentata nel paragrafo 76, che corrisponde al momento della convenzione e del ragionamento. Vediamo in dettaglio il passaggio che riguarda la fase naturale:

    "Ragione per cui (si deve supporre) che anche i nomi non si siano formati da principio per convenzione (thesei), ma che le stesse nature degli uomini, subendo affezioni proprie (idia paschousas pathe) a seconda di ciascun popolo e ricevendo particolari rappresentazioni (idia lambanousas phantasmata), facevano uscire l’aria imprimendole una configurazione propria (idios ton aera ekpempein), emessa sotto l’effetto di ciascuna delle affezioni e delle immagini, anche a seconda della differenza che eventualmente vi fosse fra i popoli in base ai luoghi occupati".

    Vi sono tre possibili interpretazioni del passo, in base al significato da dare al lessema idios, sulla base, cioè, della domanda su quale possa essere il completamento di questo aggettivo: proprio a chi, o a che cosa?.

    La prima interpretazione, che può essere definita come individualista, consiste nel dire che le configurazioni linguistiche che nascevano all’origine erano proprie a ciascun individuo: di fronte ad un medesimo oggetto fisico, ciascun individuo riceveva una impressione diversa, non paragonabile a quella di nessun altro individuo, e di conseguenza produceva una espressione vocalica idiosincratica (cfr. J. e M. Bollack - H. Wismann, La lettre d’Epicure, Paris, 1971).

    La seconda è un’interpretazione che potremmo definire etnica: Epicuro, infatti, parlando della particolarità delle affezioni, delle immagini e della loro espressione vocale, potrebbe avere avuto in mente la particolarità dei singoli popoli, come entità collettive limitate, e dunque potrebbe essere stato impegnato a cercare una soluzione al problema della differenza tra le lingue, osservabile al presente, ma proiettandone la descrizione nella fase primitiva. In questo caso, l’opposizione tra proprio e comune (che compare dopo), sarebbe quella che separa i singoli popoli dalla comunità del genere umano, e non quella che si stabilisce tra individuo e collettività, come era nel caso dell’interpretazione precedente. (cfr. G. Arrighetti, ed, Epicuro, Opere, Torino, 1973; D. Sedley, Epicurus, On Nature, Book XXVIII, in Cronache Ercolanesi, 3, 1973).

    La terza interpretazione consiste nel mettere in relazione la particolarità delle immagini, delle loro affezioni e delle relative espressioni vocali, non più con i singoli individui, o con i singoli popoli, ma con la diversità degli oggetti, che provocano i processi percettivi e patemici. Questa interpretazione oggettiva potrebbe spiegarsi con l’intento di Epicuro di dare ragione non tanto della nascita del linguaggio, in senso generale, quanto della nascita dei singoli nomi, dunque del lessico (cfr. J. Brunschwig, Epicure et le problème du langage privé, in Revue des sciences humaines 163, 1977).

    L’identità dell’ambiente per coloro che abitano una stessa zona geografica e la similarità delle reazioni naturali ai medesimi oggetti da parte dei membri di un unico gruppo etnico sono i fattori che possono spiegare l’apparizione di codici linguistici comuni a gruppi etnici specifici. Tuttavia è chiaro che in Epicuro la differenza tra le lingue è una differenza originaria e che il linguaggio naturale non è un linguaggio universale. Un elemento di originalità della sua teoria del linguaggio è di aver sfruttato in chiave naturalistica l’argomento della differenza delle lingue, normalmente cavallo di battaglia dei sostenitori della tesi convenzionalista: per Epicuro le lingue sono diverse perché le cose variano da regione a regione, dando origine a impressioni e passioni diverse a cui si conformano le espressioni vocali.

    Alla fase naturale dell’origine del linguaggio segue una seconda fase in cui intervengono il ragionamento e la convenzione, che è però articolata in due momenti, come mostra il passo seguente:

    "Successivamente, (hysteron), tuttavia, in modo comune (koinos), a seconda di ciascun popolo (kath’ hekasta ethne), si fissarono (tethenai) i nomi particolari (idia), affinché le espressioni (deloseis) divenissero per gli uni e per gli altri meno ambigue e fossero enunciate in maniera più concisa; e coloro che erano esperti, introducendo alcune cose non note, imponevano determinate espressioni verbali, alcune in quanto dettate dalla necessità naturale, altre scelte dietro ragionamento (logismo) seguendo la ragione più forte che consigliava di esprimersi in tal modo".

    Nel primo momento di questa seconda fase interviene la convenzione che permette di stabilire in maniera comune, popolo per popolo, le denominazioni al fine di produrre una comunicazione reciproca più rapida ed efficace. I diversi oggetti sono denominati in maniera appropriata attraverso un atto di volontarietà e di deliberazione che le convenzioni comportano. Quando le forme linguistiche create risultano ambigue o eccessivamente lunghe, si verifica un accordo tra gli uomini per razionalizzarle. Conformemente a quello che sappiamo della teoria generale di Epicuro circa la creazione tecnica, l’artificio e la volontà deliberata si innestano su una base naturale preesistente. Non si tratta di una trasformazione qualitativa, ma di una trasformazione di grado: l’obiettivo delle convenzioni è quello di rendere meno equivoche e più concise le denominazioni. Il linguaggio è già pubblico fin dalle origini (altrimenti non avrebbe avuto la sua funzione fondamentale: quella comunicativa), ma si configura come uno strumento ancora imperfetto che deve essere migliorato; ciò avviene nella seconda fase, sotto l’azione di convenzioni razionali.

    All’interno della seconda fase vi è poi un ruolo specifico dei pensatori, i quali, attraverso l’ausilio del ragionamento, introducono nuovi concetti che si collocano al di là delle possibilità di percezione, e scelgono dei nomi per essi, a seguito o di nuove scoperte o anche, più semplicemente, perché spinti a ciò dalla necessità. È verosimile che Epicuro immagini come prodotto di questa fase anche l’introduzione dell’uso di espressioni per i concetti astratti, per quelli metaforici e per la terminologia filosofica.

    Teorie del linguaggio e del segno

    Giovanni Manetti

    L’interesse per il linguaggio e per i segni non verbali è una costante che caratterizza la cultura antica dalle origini fino ai suoi più tardi esiti. Sono i segni non verbali che appaiono per primi nei testi (e nella implicita riflessione in essi contenuta) relativi alle pratiche semiotiche sia non scientifiche (come la divinazione babilonese e quella greca), sia in quelle orientate scientificamente (come la medicina greca). In seguito la filosofia si assume il compito di definire i paradigmi entro cui devono essere inquadrati, da una parte, lo studio del linguaggio (attraverso l’elaborazione di categorie come quella di naturalità in opposizione alla convenzionalità, di symbolon o di semainon linguistico, di concetto, di significato, di definizione ecc.), dall’altra lo studio dei segni (semeia), considerati come strumento per allargare i confini della conoscenza (soprattutto nelle scuole post aristoteliche stoica ed epicurea) o visti come strumento di persuasione (nella retorica sia greca, sia romana). Le due teorie, quella del linguaggio e quella del segno non linguistico, corrono parallele senza incontrarsi nell’antichità (a differenza di una sostanziale omogeneità nelle moderne teorie semiotiche, in cui si registra il primato del modello equazionale del segno linguistico) fino ad Agostino, nei cui scritti si fondono, dando luogo ad una categoria unificata, quella di signum, come espressione linguistica e come segno non verbale, sotto il modello sostanzialmente inferenziale di quest’ultimo.

    Il segno nella divinazione mesopotamica

    Una delle prime apparizioni della nozione di segno, che registra e fissa contemporaneamente anche una terminologia relativa per indicarlo, si può trovare nell’uso che dei segni fa la divinazione mesopotamica a partire dal III millennio a.C.; anzi, si può dire che il suo aspetto più rilevante consiste nel fatto di essere centrata proprio su una nozione non banale e specifica di segno, che porta ad articolarlo ad uno schema di ragionamento inferenziale tale da permettere di trarre particolari conclusioni da particolari fatti. Nei testi della divinazione mesopotamica si possono trovare esempi come: Se un uomo ha dei peli ricciuti sulle spalle, allora le donne lo ameranno, o Se nel giorno della sua sparizione la luna si attarda nel cielo (invece di sparire tutto d’un tratto), allora vi saranno siccità e carestia nel paese, o ancora Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo, allora avrà un figlio e, infine, Se il polmone è rosso vivo a destra e sinistra, allora vi sarà un incendio.

    Grazie a numerosi trattati divinatori che ci sono pervenuti, strumenti ad uso di coloro che dovevano apprendere e praticare l’arte divinatoria, possimo formarci un’idea abbastanza chiara di questa struttura del segno. Tali trattati consistono in lunghe liste di proposizioni complesse, ciascuna organizzata in una protasi seguita da una apodosi. La protasi è introdotta dall’espressione summa (che è l’equivalente della congiunzione condizionale se) e ha il verbo al presente o al passato. Questo è da considerarsi l’omen, ovvero il segno ominoso, il presagio, che deve essere interpretato. L’apodosi è invece una proposizione che normalmente ha il verbo al futuro e forma l’oracolo, ovvero ciò che è indicato o rivelato dalla interpretazione del segno.

    Gli esempi di segno che sono rintracciabili nella divinazione mesopotamica ci permettono di fare due osservazioni sul meccanismo semiotico che contengono. Innanzitutto la struttura del segno è espressa in termini di relazione tra due proposizioni e non tra due unità lessicali o tra un significante e un significato (come nel segno moderno secondo lo schema proposto da de Saussure). Questo dipende dal fatto che ciò che è preso in considerazione come segno è un fatto (o un evento), e non un’espressione linguistica, il quale può però essere tradotto nella forma di una proposizione che lo descrive.

    In secondo luogo, la relazione tra la protasi e l’apodosi all’interno di ciascun segno è di tipo implicativo ed è molto vicina a quello che sarà lo schema tramandato dal pensiero greco nel momento della sua più alta maturità semiotica: il modello dell’inferenza, secondo cui si può inferire qualcosa di nascosto o di non presente da qualcos’altro che sia percepibile o presente (secondo la formula "Se p, allora q"). Questo modello sarà proposto dai filosofi della scuola stoica (molti secoli dopo e in un’altra area geografica, per quanto i primi stoici fossero di provenienza medio-orientale) per definire in maniera formale il legame implicativo che caratterizza le due proposizioni che costituiscono la duplice dimensione del segno.

    Il segno nella divinazione greca

    In contrasto con la divinazione mesopotamica – e in diretto collegamento con la natura della cultura greca, che da un certo punto di vista e in un certo senso è improntata fondamentalmente all’oralità – il modello fondamentale della divinazione che ha prevalso nell’antica Grecia è quello della profezia ispirata. In Grecia, infatti, non soltanto la scrittura è un fenomeno recente, ma è del tutto dipendente dal parlato, che viene riprodotto foneticamente, a differenza di quanto avveniva nella cultura mesopotamica, nella quale la scrittura era molto più antica e funzionava come un sistema relativamente autonomo rispetto alla lingua, poiché presentava in modo specifico e differenziato, attraverso i segni grafici, quello che la lingua presenta in altra maniera.

    Inoltre in Grecia la divinazione, soprattutto nell’età classica, ha una importanza marginale come pratica effettiva (incomparabilmente minore rispetto all’importanza ad essa attribuita da molti scritti letterari e filosofici): nella realtà, il regime della polis prevede che si consulti l’oracolo non per ottenere una predizione sul destino personale (come risulta dai testi letterari), ma per prospettare, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che ha rilevanza per la collettività e che si ha intenzione di intraprendere (come ad esempio una guerra o la fondazione di una nuova città) e per domandargli se la via è libera o preclusa. Dopodiché la decisione spetta all’assemblea della città, che può anche sottoporre il responso ad un contraddittorio dialettico. Lo dimostra il famoso episodio raccontato da Erodoto (Storie, VII, 141) in cui Temistocle convince l’assemblea ateniese che il muro di legno, a cui allude il responso della Pizia, interrogata sulle azioni da intraprendere nei confronti del pericolo persiano, è da interpretarsi come la costruzione di una flotta e non come la fortificazione dell’acropoli con una palizzata, interpretazione proposta dagli anziani dell’assemblea, tra cui alcuni cresmologi.

    Nella forma di divinazione ispirata il dio parla all’uomo attraverso un profeta o una profetessa che sono scelti come sua voce, come avviene nella forma di divinazione oracolare più nota: quella praticata dalla Pizia a Delfi. Non è affatto un caso che nell’antica Grecia non ci fosse alcuna formazione, né alcuna presenza di una classe specializzata per l’interpretazione dei segni sia della scrittura (scribi), sia della divinzione (sacerdoti), come invece in Mesopotamia.

    Comunque la divinazione costituisce la prima area omogenea in cui nella cultura greca antica si può parlare di uso dei segni. Il termine semeion, che incontriamo in questo ambito, è una espressione generica che indica un segno divinatorio di qualunque tipo, incluso il responso oracolare, che è normalmente un testo verbale.

    Tale segno divinatorio (che è lo strumento attraverso cui si ottiene la conoscenza del futuro, o di un passato sconosciuto), provenendo non dalla sfera umana, ma da quella più alta e più numinosa del divino, è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale del dio e quella limitata dell’uomo. È anche l’area in cui la conoscenza divina fa irruzione nella sfera umana.

    Ma il linguaggio del dio non è lo stesso linguaggio dei mortali. Le parole contenute nel responso oracolare sono parole umane solo nella misura in cui contengono suoni della lingua parlata dagli uomini: tuttavia tali suoni non producono un significato immediatamente decodificabile, quando viene loro appplicato il codice del linguaggio verbale umano. Questa mancanza di diretta equivalenza significante tra il testo della profezia e il contenuto di conoscenza che dovrebbe veicolare è ciò che separa l’umanità dalla divinità. Tra l’uomo e il dio, in effetti, c’è anche una radicale differenza che riguarda le rispettive modalità della possibilità di conoscenza: il dio domina il tempo per mezzo di una simultanea vista del passato, del presente e del futuro; l’onniscienza divina deriva proprio da questo possesso di una visione panottica. Apollo, secondo l’espressione di Pindaro, possiede l’occhiata che conosce ogni cosa (Pitiche, III, 29). I mortali, invece, possono vedere soltanto il presente, mentre le altre dimensioni del tempo rimangono loro inaccessibili, a meno che non intervenga, attraverso il segno divinatorio, appunto, la mediazione degli dèi. Ma anche quando intervengono gli dèi attraverso la divinazione, la visione è sfuocata nel corso del trasferimento. Questo è il motivo per cui il segno divinatorio è enigmatico, oscuro e praticamente incomprensibile. Come dice Eraclito nel famoso frammento 93 (DK), "Il dio di Delfi, non dice e non nasconde, ma si esprime attraverso segni (semainei). Segni che devono essere interpretati e che sono il luogo di una strenua lotta tra gli dèi e gli uomini, gli uni tesi a non rivelare in maniera chiara e totale ai secondi la conoscenza del futuro, i secondi tutti protesi nello sforzo di strappare ai primi i barlumi di una conoscenza loro preclusa. La lotta è, secondo la visione che ce ne danno i testi letterari e filosofici in cui è tematizzato un processo divinatorio, impari e di solito sfavorevole per gli uomini, come ci dimostrano i cosiddetti romanzi oracolari" che si possono ritrovare in Erodoto a proposito delle imprese divinatorie di Creso e di Cambise. Esemplare quello in cui l’oracolo aveva predetto a Creso che se avesse fatto guerra ai Persiani

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