La trasperenza del ghiaccio
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Anteprima del libro
La trasperenza del ghiaccio - Alberico Guido
Collana
Romanzi
diretta da
Alberico Guarnieri
ALBERICO GUIDO
LA TRASPARENZA
DEL GHIACCIO
Ogni riferimento a fatti e personaggi realmente esistiti è puramente casuale.
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2017
Isbn: 978-88-6822-567-4
Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Questo libro è dedicato a Virginia,
Virginia (Virna) Cella,
la madre di mio figlio,
l’amore della mia vita.
Alle contraddizioni della mia vita.
Ai demoni che ancora la abitano.
È aperto un concorso per segretario comunale a Scarnafigi. Se vi concorressi? Immagino un paese tagliato fuori dal mondo; un grosso borgo, piatto, terribilmente banale. Vi arriverei in un giorno di pioggia. Vi sposerei una donna insignificante, ad esempio un’economa. Nessuno saprebbe più nulla di me. Mi preparerei una vecchiaia perbene. Accarezzo l’idea. Sarebbe un suicidio tranquillo e decente; più silenzioso dell’annegamento che riempie d’acqua la bocca.
Camillo Sbarbaro (Scampoli)
LA TRASPARENZA
DEL GHIACCIO
Paolina a quel tempo era molto felice, aveva raggiunto il centro della sua anima, aveva dato fuoco ad un lume e aveva deposto un fiore.
Di quel fiore sentiva il profumo intenso ed inebriante ogni giorno ed in tutti i giorni della sua vita, in tutte le ore ed ogni ora della sua esistenza: da quando si stropicciava gli occhi, da quando spalancava le finestre e dava aria alle stanze, tirava su le coperte, rifaceva il letto e riassettava e stirava e faceva il bucato, da quando pensava a se stessa, alle cose intime delle donne, da quando si occupava della cucina ed organizzava la cena.
Viveva la sua vita a passi di valzer, aveva appena spento la sveglia e ancora si stropicciava gli occhi mentre già pensava alla colazione, al programma della giornata, alle faccende domestiche ed al tutto il resto, lo faceva ridendo, di un riso pieno e spensierato, a passi di valzer, felice di essere viva ed innamorata mentre succhiava dal cucchiaio il miele di arnica e lo sentiva in bocca, sulla lingua e contro il palato, nelle narici ed ovunque, ad inebriare i sensi con quella dolcezza aspra e pungente e rideva, rideva, rideva e rideva, perché era felice.
Paolina rideva di buon’ora ed era ignara di tutto, davanti la porta di casa dava un’ultima sistemata alla cravatta di Paolino, mentre lui era sempre fremente per il ritardo consueto da recuperare.
Paolina non immaginava cosa sarebbe successo di lì a poco e il drammatico destino che avrebbe travolto suo marito, ma lo tratteneva con mille scuse, come se presagisse un futuro talmente funesto da essere costretta a vivere intensamente il presente che le era concesso.
Lo tratteneva per toccargli ancora una volta la faccia e passargli le dita tra i capelli impomatati, gli stringeva il viso tra le mani, gli pizzicava le guance, era quasi fastidiosa, continuava a baciarlo di baci leggeri e fuggevoli dicendo parole che non aveva mai pensato prima e che mai avrebbe pensato che potessero venirle in mente mentre continuava a stringergli il viso.
Nel frattempo Paolino si dimenava quasi divertito e contento, ma sempre fremente per il ritardo accumulato, poi finalmente lei lo liberava da quella stretta amorevole ed a malincuore lo lasciava andare consegnandogli la cartella di cuoio con i documenti di lavoro e la merenda di mezzogiorno, sentendo quel presagio luttuoso che le stringeva il cuore come se la felicità non fosse nient’altro che un patto col diavolo, un pegno da pagare, una cambiale a breve scadenza.
Chiudeva la porta, ancora ridendo e con la morte nel cuore, prima ancora che Paolino si incamminasse frettolosamente lungo il vialetto che attraversava il giardino, si voltava per poggiarsi con la schiena sulla porta chiusa, continuava a ridere mentre già sognava e sospirava guardando in alto e nel vuoto, sembrava un’ebete rinchiusa in una bolla di sapone, ma era più che sana di mente, le sembrava di sentire le lacrime scendere per la felicità, poggiava le mani sui fianchi e respirava profondamente soffiando l’aria con gli occhi chiusi ed il viso rivolto in alto, pensava alle faccende domestiche, al programma della giornata, alla cena ed a tutto il resto, era convinta di essere felice, ma sentiva la morte nel cuore.
Si credeva felice e soddisfatta, felice di un amore pieno e travolgente, soddisfatta di un amore discreto e penetrante che si sentiva ovunque e aleggiava nell’aria, come l’odore del fumo che impregna le tende, la biancheria, la tappezzeria e perfino i mobili e gli oggetti sparsi in una casa che respirava silenziosamente l’amore e ne tratteneva le poche acredini e le piccole incomprensioni, come gli alberi che respirano l’aria malata e la restituiscono sana.
Paolina, a quel tempo, si credeva addirittura appagata anche perché il suo amore era fatto di una purezza che aveva a che fare con l’innocenza, infatti era nato molti anni prima ed era sbocciato all’improvviso, in un solo momento, tanto da sembrare un sogno.
Paolina, sempre a quel tempo, ancora fremeva nell’evocare quell’amore appena nato con le sembianze di una creatura indifesa e fragile, ma che poi era cresciuto maturando lentamente, nutrito di sguardi fugaci e di brevi cenni da lontano, trascritto in lettere appassionate e recapitate da fantesche compiacenti, materializzato in parole infuocate e sussurrate di nascosto ai margini delle processioni e delle messe nelle feste comandate, concretizzato in un appuntamento sospirato e concesso con falsa riluttanza, per giungere finalmente a sfiorarsi, ad avvicinarsi lentamente, finalmente a toccarsi, per sentire le mani che si intrecciano ed i fiati che si incrociano, fino a scambiarsi un bacio.
Non era altro che un bacio impresso come un sigillo sulle labbra chiuse, chiuse come gli occhi chiusi, per abbattere parole ormai inutili e per non vedere la sconcezza di un amore profondo che scopre la carne, ma anche per sognare, oppure per nascondersi, in una sorta di pudore esagerato e malcelato, quasi una vergogna, ma puro come il pensiero dei bambini.
Gli occhi chiusi, quindi, erano stati utili e forse necessari per iniziare a sognare, il bacio per quanto maldestro e sigillato sulle labbra chiuse era invece diventato una promessa per tutta la vita e quindi una promessa per sempre.
Quella stessa promessa, racchiusa in quel bacio, tra le labbra serrate, con gli occhi chiusi, era stata mantenuta in ogni giorno e in tutti i giorni della vita successiva.
Era stata solennizzata davanti a Dio e davanti agli uomini.
Era stata onorata in tutti i momenti di quella breve storia d’amore.
Era stata vissuta in ogni atto quotidiano ed in ogni pensiero quotidiano.
Era stata coniugata lungo un cammino consacrato che era iniziato ai piedi dell’altare, nella solennità della liturgia, ed era proseguito nel corteo lungo il corridoio tra le panche, poi sul portale e poi sul sagrato, e poi ancora giù per le scale, infine si era inerpicato nelle parole, nei pensieri e nei desideri ed in ogni passo, azione, o malinconia ed in ogni mistero che fa parte dei fatti incomprensibili di ciascuna donna, come il segreto impercettibile del lieve rossore che colorisce le guance quando si scopre il fine piacere che si prova, nel timore di Dio, nel concedersi ai doveri coniugali.
Paolina quel giorno fatale continuava a sentirsi contenta, appagata e felice, si era poggiata di schiena sulla porta chiusa e rideva con lo sguardo per aria, soffiava il suo respiro con lo sguardo per aria e la morte nel cuore.
Paolino era uscito affrancato dal bacio e dalle accortezze insistenti e quasi fastidiose di sua moglie, era fremente ed in ritardo, come sempre, ma sentiva un presentimento ed avrebbe voluto tornare indietro per farsi trattenere ancora per un poco sulla porta di casa mentre lo aspettava un’altra lunga giornata di lavoro come contabile nella fabbrica del ghiaccio del Cavaliere Raimondi, amico di suo padre.
Dopo alcuni passi affrettati nella nebbia della prima alba e mentre calzava il cappello con la mano sinistra, serrando nell’altra mano il manico della cartella di cuoio, il suo sguardo appiattito inquadrò e mise a fuoco, alla fine del vialetto che attraversava il piccolo giardino, la sorte che lo attendeva davanti il cancello.
Scorse la figura dell’uomo che avrebbe compiuto il suo destino e che stringeva in mano un coltellaccio a serramanico dalla lama ricurva e lunga oltre sei dita, rimase attonito ma come sempre senza profondità.
La stanza appariva ordinata di un ordine composto e surreale ma indecifrabile alla luce dei fatti!
Ciò che colpiva in maniera particolare era la dimensione del letto, mai visto nella sua larghezza e sicuramente costruito a misura, ma poi si notava anche la violenza con cui era stato disfatto, sembrava che una furia lo avesse investito come un turbine, in particolare attirava l’attenzione la macchia di colore rosso scuro che si allargava tra le lenzuola intrecciate e disfatte ed i tre guanciali disposti in maniera asimmetrica alla testa del letto: due cuscini erano adiacenti quasi uno sull’altro, mentre il terzo era tutto scostato a sinistra.
La testiera era di ferro battuto ed era decorata con un disegno a forma di cuori, adiacenti l’uno all’altro come le perline delle malghe, ai margini di destra e di sinistra aveva dei pomoli dorati, mentre in alto era sormontata da una stampa del Sacro Cuore di Gesù con tanti santini colorati incastrati tra la cornice ed il vetro, come se fossero appunti presi per ricordarsi di pregare San Zeno, la Madonna del Pilerio, San Vitaliano, Sant’Agata e qualche Dottore della Chiesa.
Ai piedi del letto e sul davanti una cassapanca ed un inginocchiatoio facevano mostra di sé, mentre sul lato sinistro, quello opposto alla porta ed ai margini della scena, si intravedeva la figura immobile di un corpo che avvicinandosi si sarebbe rivelato di donna e che era riverso a terra avvoltolato in un camicione ampio, pieghettato e di un colore che si sarebbe detto giallo opaco.
Il lenzuolo coprente, quello di sopra, era stato trascinato insieme alle coperte intrecciate come una corda che si apriva a ventaglio oltre la sponda del letto ed era scivolato obliquamente sulle gambe, su parte del ventre e sul petto, fino a raggiungere la base del collo, per poi disegnare un drappeggio sopra la spalla e lungo il braccio addotto e semiflesso e tra i capelli sciolti ed impastati dal sangue, la mano sinistra della donna ne stringeva ancora un lembo, mentre una piccola scintilla baluginava sotto la mandibola, come una pietra preziosa, incastonata nel collo.
Tutto intorno un ordine impensabile incorniciava la scena, persino una veste da camera era diligentemente piegata sulla spalliera di una sedia, il lume sul comodino rischiarava a malapena il pavimento della stanza e si disperdeva a mezz’aria nell’apparenza di una penombra asciutta, ambigua ed ingannevole.
L’unica cosa certa era il fatto che si respirava un odore intenso di sangue che sapeva di ferro.
Ogni cosa trasudava il lutto composto di quella scena di morte e di dolore ferma nel tempo, come una fotografia, ma era evidente una storia che veniva da lontano come se fosse l’epilogo di una tragedia già scritta.
Furono necessari quattro passi in avanti, lungo la