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Era una brutta giornata: Incontrarsi per caso, amarsi per scelta
Era una brutta giornata: Incontrarsi per caso, amarsi per scelta
Era una brutta giornata: Incontrarsi per caso, amarsi per scelta
E-book256 pagine3 ore

Era una brutta giornata: Incontrarsi per caso, amarsi per scelta

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Info su questo ebook

Qual è il momento giusto per riprendere in mano la propria vita e aggiustare le cose che non vanno? Qual è il giorno in cui tutto ci appare chiaro e siamo disposti a rimettere tutto in discussione? Ai protagonisti di questa storia è successo in "una brutta giornata", quando le carte in tavola vengono rimescolate da un destino stanco di vedere due persone arrancare cercando di sopravvivere anziché vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2022
ISBN9791221452426
Era una brutta giornata: Incontrarsi per caso, amarsi per scelta

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    Anteprima del libro

    Era una brutta giornata - Francesca Dedin

    FRANCESCA DEDIN

    ERA UNA BRUTTA GIORNATA

    INCONTRARSI PER CASO

    AMARSI PER SCELTA

    Youcanprint

    Titolo | Era una brutta giornata

    Autore | Francesca Dedin

    ISBN | 979-12-21431-90-2

    © 2022 - Tutti i diritti riservati all'Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100  Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    NOTA IMPORTANTE

    In questo libro si fa accenno a temi delicati come depressione, autolesionismo e tentato suicidio che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori. Ogni riferimento ad essi è frutto dell'esperienza personale dell'autrice e pertanto vanno interpretati come visione soggettiva della stessa.

    Questo romanzo rimane comunque un'opera di fantasia e ogni rassomiglianza con persone, luoghi e accadimenti è da ritenersi puramente casuale.

    CAPITOLO UNO

    Era una brutta giornata. 

    Di quelle brutte davvero, iniziata con un brusco risveglio dopo un incubo: di quelli che ti rimangono dentro per ore, di quelli che non ricordi nitidamente, ma che si appropriano delle tue emozioni per il resto del giorno.

    A letto, nel silenzio delle prime ore del mattino, lui si voltò a guardare la donna che dormiva al suo fianco. Per la prima volta permise a quella domanda, nascosta da tempo nella profondità della sua mente, di venire alla luce: Perché sono ancora qui?

    Si alzò cercando di non far rumore, bloccando così di fatto, ancora una volta, quella frustrazione che pian piano, un giorno alla volta, si stava impadronendo di lui facendolo sentire sempre più impotente e imprigionato in una vita che non riconosceva più come sua.

    Andò in bagno dove c'era un gradevole tepore ad attenderlo, appoggiò i piedi nudi sul soffice tappeto grigio e iniziò a spogliarsi. Quando entrò nel box doccia decise di aprire il rubinetto dell'acqua calda anziché quello dell'acqua fredda come era solito fare. Aveva bisogno di riflettere, di prendere del tempo per piangersi addosso e per lasciare la mente libera di muovere i pensieri in ogni direzione avesse voluto.

    Ripensò all'incubo appena fatto, ma ormai le immagini si erano completamente offuscate. L'angoscia che lo aveva attanagliato però, la sentiva ancora reale in ogni respiro.

    Decise di respingere quel vago ricordo fatto per lo più di sensazioni e, seppur faticosamente, ci riuscì.

    Mentre si insaponava sotto la piacevole cascata d'acqua, sul suo volto comparve un sorriso di rassegnazione e nostalgia, un sorriso amaro che sarebbe stato accompagnato, a breve, da grosse lacrime: qualche anno prima sua moglie lo avrebbe raggiunto sotto la doccia e avrebbero iniziato la giornata insieme, nel migliore dei modi.

    Ricordò quando ancora riusciva a convincerla a guardare i film accoccolati sul divano e quando, d'estate, in giardino, la teneva con sé a conversare distesi sopra la stessa sdraio non di rado addormentandosi alla luce della luna e al tepore del braciere che lui aveva costruito.

    Quanta soddisfazione aveva provato una volta terminato quel progetto, ci aveva lavorato ogni minuto libero durante il primo inverno passato a vivere nella loro nuova casa, una volta sposati. Da professore di lettere alla scuola media, si era improvvisato geometra e muratore ed il risultato finale non era male: quante giornate passate in compagnia degli amici, quanti canti improvvisati con i vicini al suono di chitarre e percussioni.

    Sebbene i ritrovi festosi con gli amici di sempre non avessero mai smesso, le serate con la moglie si erano trasformate in serate di solitudine o in compagnia di un calice di vino: bianco o rosso, costoso o da discount che fosse, non faceva differenza.

    E il fuoco del braciere non gli trasmetteva più nessun calore.

    La loro relazione ormai era ridotta solo allo vivere insieme: rare le carezze, i baci, i gesti affettuosi, più nessuna sorpresa e nessun augurio per le feste comandate.

    Niente buon giorno.

    Niente buonanotte.

    Niente.

    L'acqua calda della doccia, puntata direttamente sul viso, si mescolò alle lacrime che finalmente trovarono la strada per uscire dagli occhi.

    Cos'era successo? Perché lui aveva smesso di cercarla?

    In fondo l'amava ancora e sapeva che non l'avrebbe mai lasciata. In quel matrimonio ci credeva, ci aveva sempre creduto.

    Sapeva fin dall'inizio che lei non era incline ad esprimere, con i gesti o con le parole, i propri sentimenti, non gli aveva mai detto ti amo e mai lo avrebbe fatto, non lo avrebbe mai preso per mano durante una passeggiata, mai lo aveva, o lo avrebbe, abbracciato di propria iniziativa, né in pubblico né in privato. Faceva fatica anche a ricevere quei gesti affettuosi che lui non si stancava mai di fare e dare.

    Le uniche eccezioni erano quelle incursioni in doccia e per questo erano così speciali.

    Lei proveniva da una famiglia dove i sentimenti e le effusioni erano cose da nascondere.

    Per lui, invece, era più facile: da bambino aveva visto i suoi genitori scambiarsi tenerezze, la sua casa d'infanzia era piena di calore, il saluto non mancava mai, ogni occasione era buona per fare festa, a differenza della casa dei suoi suoceri: sempre impeccabile, ma senza anima.

    Per lui era normale salutarla con un bacio, sia quando usciva di casa sia quando rientrava, abbracciarla di sorpresa e organizzare, nei minimi dettagli, cene e gite romantiche.

    Non mancava mai di regalarle fiori ad ogni ricorrenza e diceva di amarla senza nessuna esitazione.

    Tutto questo lo aveva fatto con grande piacere, sperando che anche lei imparasse a lasciarsi andare.

    Nutriva comunque dei dubbi sul fatto che quella donna, cresciuta in un ambiente tanto freddo, cambiasse.

    Anche per lui, però, la vita non era stata sempre facile e felice.

    Durante gli anni dell'adolescenza la depressione lo aveva rapito: ricordava un tempo buio, pieno di bugie a sé stesso e agli altri. Fare qualsiasi cosa era difficile, al limite dell'impossibile: dallo svegliarsi il mattino allo studiare il pomeriggio.

    Lavarsi, mangiare, uscire di casa, richiedevano uno sforzo notevole. Si sentiva in gabbia. Trascorreva il giorno in uno stato di torpore, facendo il minimo indispensabile, incapace di reagire agli stimoli.

    La notte, al contrario, la passava quasi tutta camminando su e giù per la camera, incapace di stare fermo, maledicendosi per aver sprecato un altro giorno, formulando propositi e piani d'azione per il giorno dopo.

    Elaborava progetti per il futuro, i pensieri si accavallavano uno sopra l'altro, anche la sua mente era incapace di stare ferma.

    Si addormentava esausto solo verso mattina, cadendo in un sonno poco profondo e per nulla ristoratore.

    I suoi genitori si erano accorti del suo stato e avevano fatto di tutto per sostenerlo, ma lui li aveva allontanati, non voleva essere aiutato.

    Ci fu un lungo periodo dove la lametta del rasoio divenne la sua migliore amica, la cercava, la desiderava e la utilizzava perché solo il filo rosso di sangue, che usciva dai polsi, lo faceva stare meglio. Al suo passaggio, l'ansia che lo attanagliava lo lasciava respirare per qualche istante.

    Vedere il suo sangue gli ricordava che era ancora vivo, che il suo cuore batteva nonostante tutto, che forse l'uscita dal tunnel era vicina.

    Niente di più falso! Quella lametta si era trasformata nella sua dipendenza e gli intervalli di tempo tra un utilizzo e l'altro si facevano sempre più brevi e le ferite sempre più profonde: lucidamente, però, stava attento a non esagerare, non doveva correre il rischio di aver bisogno di un medico.

    Le sottili cicatrici erano lì, bianche, quasi mimetizzate con il colore della sua pelle, ma presenti e ultimamente si soffermava spesso a guardarle: troppo spesso. Nessuno le aveva mai viste e, nei giorni in cui le ferite erano fresche e ben visibili, le aveva tenute nascoste indossando maglie dalle maniche molto lunghe e non era stato difficile: aveva imparato a mentire e inventare scuse credibili era diventato il suo passatempo preferito.

    Era il suo segreto, ne era geloso. D'altra parte, nessuno vede ciò che non vuole vedere.

    Non era mai stata sua intenzione, però, tentare il suicidio, nemmeno nei giorni più neri aveva pensato di farla finita.

    Durante questo periodo terribile conobbe lei: quella ragazza carina, ma non bellissima, quella ragazza dai lunghi capelli castani e dagli occhi color nocciola che piano piano gli rapì il cuore e che, a distanza di anni, sarebbe diventata sua moglie.

    Lei frequentava il suo stesso liceo, lui al quarto anno, lei al primo.

    Si parlarono la prima volta al distributore di merendine durante la ricreazione: iniziò lei con una battuta sul fatto che lui ci stava mettendo troppo a scegliere. Lui, assorto nei suoi pensieri, mugugnò qualcosa di incomprensibile e lei, senza aspettare, digitò il codice al posto suo, la macchina si mise in moto e fece scendere il prodotto corrispondente a quei tre numeri digitati: una barretta dietetica ai frutti di bosco che mai e poi mai lui avrebbe preso in considerazione non solo di prendere, ma anche di assaggiare.

    Velocemente, lei gli prese la mano, gliela girò mettendola a palmo in su, ci appoggiò qualche monetina, prese la barretta e se ne andò salutandolo.

    Lui rimase lì, in piedi, inebetito, senza muoversi o proferire parola. Lo aveva piacevolmente sorpreso quello che era successo in così breve tempo e si trovò a sorridere.

    Da quel giorno, l'ora di ricreazione divenne il loro appuntamento fisso, l'ora nella quale una forte amicizia nacque e crebbe.

    Dopo qualche mese iniziarono a frequentarsi anche fuori da scuola scoprendo di avere interessi ed amici in comune, idee per il futuro diverse, ma delle quali potevano parlare insieme.

    E più vedeva lei, meno aveva bisogno dello psicologo, dal quale aveva iniziato ad andare per delle sedute di psicoterapia. Tutto stava, pian piano, tornando alla normalità, sia in casa che nella sua testa.

    Ormai la lametta del rasoio poteva essere relegata in fondo al cassetto della scrivania. Era stata parte della sua vita e, di conseguenza, non l'avrebbe buttata via.

    Fu durante il periodo in cui lui la aiutò a studiare per gli esami di maturità, che il loro sentimento cambiò trasformandosi in amore: passare tanto tempo insieme, vicini, condividendo i momenti della giornata più strani, diede i sui frutti.

    Il primo bacio se lo scambiarono durante i festeggiamenti fatti dopo l'ultima prova d'esame. Prese lui l'iniziativa, aveva capito che anche lei lo desiderava e dopo un lungo momento di imbarazzo appoggiò le sue labbra su quelle di lei. Il bacio non durò a lungo, ma fu bello.

    Con il passare del tempo, conoscendo meglio lei e la sua famiglia, lui comprese il perché della freddezza nell'esternare i sentimenti che comunque c'erano ed erano forti. Accettò la cosa anche perché a lui non importava. La amava, era amato e tanto bastava. Avevano progetti da realizzare per la loro vita insieme e questi avevano sicuramente un'importanza maggiore del dover dare un bacio per primo.

    Ad un certo punto della sua vita, dopo molti anni insieme però, si accorse che anche lui aveva bisogno di ricevere quel che dava, sentiva il desiderio che fosse lei a fare il primo passo. Aveva provato più volte a dirglielo, ma la risposta che riceveva era sempre la stessa, ovvero che lui si stava immaginando tutto.

    Iniziò allora a tenere le distanze, sperando che lei sentisse la mancanza dei suoi baci e dei suoi saluti. Ma ciò non avvenne. Non sapeva dire se lei non se ne fosse accorta o se invece fosse sollevata dal fatto di non ricevere più mille attenzioni.

    Lui, con il passare dei giorni, si accorse che si stava abituando alla lontananza, che faceva sempre meno fatica a trattenersi dal rivolgerle qualsiasi gesto d'affetto, cercarla non era più la prima cosa che faceva una volta tornato a casa.

    A cena stavano a tavola il tempo necessario per mangiare e scambiare poche frasi formali con i telefoni ormai sempre accesi e, attraverso di loro, il lavoro importante che lei svolgeva, iniziò ad occupare anche quegli spazi intimi.

    Fino a quel momento lui aveva preteso che durante la cena non ci fosse nessuna interferenza lavorativa, era un momento che doveva rimanere solo loro. Lei aveva assecondato quella richiesta senza condividerla. Il ruolo di responsabile che ricopriva richiedeva grande dedizione anche oltre l'orario di lavoro e questo lui non l'aveva mai messo in dubbio, ma più ci pensava, più si rendeva conto che era lei, la maggior parte delle volte a non voler staccare. Il lavoro, quel lavoro, la rendeva euforica, era diventato quasi una dipendenza. E più lui si mostrava insofferente, più lei aumentava il ritmo.

    Ora sua moglie poteva farsi assorbire totalmente dal lavoro: a lui non importava più. O forse lo credeva.

    Il peso che aveva sul cuore non accennava a sparire, anzi, aumentava ogni giorno. Non tollerava quasi più la solitudine che provava e sentiva che stava per tornare indietro nel tempo. Era quasi tentato di lasciarsi abbracciare dalla sua vecchia amica, di lasciarsi prendere per mano e seguirla nuovamente all'interno di quel tunnel senza luce. Ma la speranza che le cose si sistemassero, era ancora forte e lo tratteneva sul ciglio del burrone.

    Un getto d'acqua fredda della doccia lo riportò alla realtà. Quanto tempo era passato?

    Guardò l'orologio appeso alla parete, ma non riuscì a leggere l'ora per via dell'enorme quantità di vapore che si era creata. Uscì dalla doccia, infilò l'accappatoio bianco e si mise davanti allo specchio. Ci passò sopra una mano per togliere lo strato di condensa che gli impediva di vedersi riflesso, in un impeto di pazzia stava anche per mettersi a disegnare come faceva da bambino, ma lo sguardo cadde sulle lancette del suo orologio e si accorse che rischiava di fare tardi.

    Si lavò i denti e, dopo aver dato un'occhiata alla sua immagine rifessa, decise che poteva fare a meno di radersi. Il suo volto appariva così un po' trascurato, ma non gli importava.

    Sempre con l'accappatoio addosso, aprì finestre e balconi per far uscire il vapore e far entrare un po' di aria fresca e pulita.

    Vide che anche fuori la giornata non era delle migliori: piovigginava e c'era una leggera nebbia. I vicini avevano acceso la stufa e il fumo veniva tutto verso la sua finestra aperta. Si affrettò a chiuderla imprecando e chiedendosi che bisogno c'era di accendere il camino quando le temperature erano ancora miti.

    Quella mattina non sopportava nulla.

    Cercando di fare il meno rumore possibile, tornò in camera per vestirsi, ma trovò la luce tenue della lampada di sale accesa ed il letto vuoto.

    Lei si era già alzata e sicuramente si stava preparando il caffè.

    Di rado capitava ancora che lo preparasse anche per lui, ma di sicuro non nei giorni lavorativi come quello.

    Iniziò a vestirsi.

    Moralmente a terra sarebbe andato a lavoro in tuta e scarpe da ginnastica, ma il Preside non avrebbe gradito, avendone, tra l'altro tutte le ragioni.

    Scelse di mettersi un paio di vecchi jeans e una camicia bianca stirata ed inamidata alla perfezione. Profumava di fresco.

    Pensò che quella camicia rappresentava al meglio quello che era sua moglie: rigida e impassibile nel dimostrare i sentimenti che provava per lui, ma allo stesso tempo leggera e libera quando si trovava in mezzo alla gente o nel suo posto di lavoro.

    A volte si chiedeva se fosse lui il problema, se lei si sentisse in gabbia, se quel matrimonio lei l'avesse semplicemente subito.

    Non sapeva che risposte dare a quelle domande e soprattutto quella non era la giornata giusta per farsele.

    Mentre si metteva la giacca difronte allo specchio che si trovava all'interno della porta dell'armadio, la sentì salire le scale.

    Quando la vide entrare in camera si sentì un perfetto idiota e l'amore che provava per lei tornò prepotentemente ad occupare il posto che gli spettava, al centro dei suoi pensieri.

    Solo per un attimo.

    Chiuse la porta dell'armadio, le sorrise e, dopo molto tempo, l'abbracciò e le sfiorò le labbra con un bacio.

    Lei non sembrò sorpresa, era come se tutti quei mesi di silenzio non fossero mai esisti, ma lui sentì tutta la lontananza che c'era tra loro.

    La salutò mettendoci tutto il calore di cui era ancora capace, uscì dalla camera e si diresse verso il piccolo studio in fondo al corridoio, si soffermò un secondo a guardare il telefono fisso messo a prendere polvere sopra una mensola: stava pensando di darsi malato, che, in fin dei conti non era proprio una bugia.

    Con uno sforzo enorme prese la borsa ai piedi dello scrittoio e scese al piano di sotto.

    Come previsto non c'era caffè ad attenderlo, ma d'altronde, non avrebbe avuto il tempo di berlo. Forse lei lo aveva capito e non glielo aveva preparato proprio per quel motivo.

    Un'altra bugia che amava raccontarsi.

    Inspirò profondamente, aprì la porta di ingresso e uscì espirando.

    La giornata lavorativa che lo aspettava sarebbe stata perfettamente in linea con il suo malumore: la prima ora si era reso disponibile per una supplenza, alla seconda ora c'erano i colloqui con i genitori dei suoi studenti e, spulciando i nomi di chi aveva preso appuntamento, sapeva di aver bisogno di tutta la pazienza possibile, cosa non facile da trovare nello stato d'animo in cui si trovava. La terza ora era un'ora buca: forse avrebbe sforato con i colloqui, forse l'avrebbe passata in sala professori ad organizzare il lavoro dei prossimi mesi e lì sarebbe stato continuamente interrotto dai colleghi che non avevano niente da fare.

    Nei giorni normali non gli sarebbe dispiaciuto, ma quello non era un giorno normale.

    Le ultime tre ore le avrebbe passate in due classi diverse: nella prima per due ore e nella seconda avrebbe passato l'ultima.

    Per la prima aveva in programma una bella esercitazione sul racconto fantasy e già pregustava il momento della correzione dei temi: era una classe pazzesca, i ragazzini erano svegli e pieni di vita. Vivaci al punto giusto, interessati e pronti ad intervenire in modo intelligente. Le ore in quella classe passavano velocemente e riusciva a fare il suo amato lavoro nel migliore dei modi.

    La seconda, invece, era una sfida quotidiana, ragazzi con un'intelligenza sopra la media, ma quasi incontrollabili. Avevano da ridire su tutto: contestare era il loro passatempo preferito, difficilmente sembravano interessati alle attività che lui proponeva.

    Doveva assolutamente trovare un modo per conquistarli e poi, ne era certo, le ore di lezione con loro sarebbero state meravigliose.

    Lui era nuovo in quella scuola e l'anno precedente, quella classe, per quanto riguardava le sue materie, era stata lasciata allo sbando, con una professoressa sempre assente, di quelle prossime alla pensione che lavorano solo per lo stipendio facendo grossi danni.

    Per loro non aveva ancora programmato niente, avevano lezione di geografia e questa era l'unica cosa di cui era sicuro. Forse avrebbe chiesto ai ragazzi di raccontare qualche viaggio fatto, qualche aneddoto, qualsiasi esperienza avessero voluto condividere.

    Nel pomeriggio erano previsti i consigli di classe: lui era coordinatore e sarebbe toccato a lui fare da portavoce con i rappresentanti dei genitori.

    Visto come si sentiva avrebbe preferito di gran lunga starsene in disparte a redigere il verbale, cosa che nessuno voleva mai fare.

    Quegli incontri, dal suo punto di vista e per la sua esperienza decennale, erano strumenti burocratici che non portavano a nulla: quasi nessuno dei professori, stanchi dalla giornata lavorativa, aveva voglia di trovare soluzioni ai problemi che evidenziavano, i rappresentanti dei genitori, dal canto loro, si limitavano ad ascoltare passivamente per la maggior parte del tempo e alle poche domande che ponevano venivano date risposte talmente vaghe e brevi da limitare qualsiasi dibattito.

    In ogni scuola dove lui aveva insegnato, aveva cercato di cambiare quel modo

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