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Tutto in un'unica estate
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E-book175 pagine2 ore

Tutto in un'unica estate

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Info su questo ebook

Leda, ventiquattro anni, un lavoro da traduttrice, una laurea specialistica imminente e il matrimonio della sorellastra cui è legatissima all’orizzonte, è a pezzi dopo che Tullio ha deciso di lasciarla. Per lei è l’ennesimo abbandono di una lunga serie, iniziata quando aveva pochi mesi. A scuotere la giovane dalla disperazione giunge una strana cartolina inviata dal padre, del quale non ha notizie da anni, che le indica soltanto un indirizzo di Braies e l’invito a recarvisi. Nell’arco dell’estate, trascorsa così in Val Pusteria, una curiosa catena di eventi tragi-comici porterà Leda a capire di essere molto meno sola di quanto pensasse e a dare una svolta alla propria vita, tra colpi di scena, riflessioni e paesaggi da sogno.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2018
ISBN9788827858691
Tutto in un'unica estate

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    Anteprima del libro

    Tutto in un'unica estate - Linda Spandri

    Indice

    CAPITOLO 1 – CEMENTO ARMATO

    CAPITOLO 2 – STRANO IL MIO DESTINO

    CAPITOLO 3 – LA DIFFERENZA TRA ME E TE

    CAPITOLO 4 – LE PAROLE

    CAPITOLO 5 – CERCHI NELL’ACQUA

    CAPITOLO 6 – E DA QUI

    CAPITOLO 7 – LA NOTTE

    CAPITOLO 8 – CHE FANTASTICA STORIA, LA VITA!

    CAPITOLO 9 – TI LASCIO UNA PAROLA: GOODBYE

    CAPITOLO 10 – FOTO DI GRUPPO

    LINDA SPANDRI

    Tutto in un’unica estate

    Youcanprint Self-Publishing

    Al 37 di Braies di Dentro c’è realmente una piccola e graziosa pensione con le persiane verdi, che da qualche anno è divenuta il mio punto d’appoggio per le mie escursioni estive in Val Pusteria. Proprio dall’incontro tra questi luoghi frutto della creatività del Grande Artista ed i personaggi nati dalla penna della sottoscritta prende vita questa storia. Ritengo doveroso precisare che la pensione Traum corrisponde alla pensione Bergheim solo per le coordinate geografiche. La famiglia Ricciotti e i fatti che la riguardano sono, invece, partoriti dalla fantasia: ogni riferimento a situazioni reali è puramente casuale, fatta eccezione per la bellezza e il fascino dei luoghi.

    Dedicato a Maria e Renate

    per l’accoglienza meravigliosa al 37 di Braies di Dentro.

    Grazie di cuore per il prezioso aiuto

    a Marco Gennuso e Alessia Redaelli per l’editing

    e ad Alessia Butti per la grafica e la copertina

    CAPITOLO 1 – CEMENTO ARMATO

    - Credimi, è meglio così - le disse Tullio, senza guardarla in viso.

    Leda cercò di estraniarsi e di concentrarsi su quell'immagine che tante volte aveva osservato. Focalizzò, anche senza vederla realmente, l'isola dal cuore nero, circondato da quella terra di un caldo marrone in cui si perdevano esili cespugli, frammenti di un verde cangiante. Tutto intorno, quel fiume dal fondo candido, lattiginoso, solitamente tanto tranquillo, ma che a volte esondava per un nonnulla. Cercò di non sbattere le palpebre, mentre la visione si offuscava, ma dovette cedere. Ed eccolo il fiume, invadere l'isola, velare l'iride di quel colore così poco univoco e la pupilla perfetta, per poi riversarsi fuori dall'alveo della rima palpebrale in rigagnoli silenziosi e rotolanti, due lacrime che scivolavano veloci sugli zigomi, le guance, il mento, per infine staccarsi da lì e cadere in gocce lente ed ordinate sull'omero sporgente, come dal soffitto buio di una grotta.

    Pensò a quante volte aveva osservato i propri occhi nello specchio, per capire il meccanismo del pianto, evocando quanto di più triste le venisse in mente (quasi sempre lo stesso fatto), sperando di apprendere così come si può evitare di piangere in pubblico e salvare in questo modo l'orgoglio. Quella era l'ennesima riprova che non aveva imparato.

    Tullio cercò di nascondere il proprio imbarazzo di fronte allo sguardo colmo di rimprovero che gli indirizzò il barista e non trovò modo migliore che fissare intensamente la tazzina del caffè, ormai vuota.

    - Leda, so che ora ti sembra un’enormità, ma se ho preso questa decisione è perché ti rispetto, come ho sempre fatto.

    La giovane donna parve accorgersi, per la prima volta in quel momento, di quanto fosse squallido quel piccolo bar di frazione, con i vetri sporchi, il proprietario dall’aspetto viscido, stempiato ma con la coda di cavallo brizzolata ed unticcia e dalla dentatura piuttosto malconcia, le liste che riportavano molti più cibi e bevande di quanti effettivamente ce ne fossero disponibili, tre gatti che camminavano sul bancone ed il quarto beatamente seduto sull’affettatrice. Non capiva cosa avesse fatto scattare nel ragazzo, con cui era fidanzata da quasi quattro anni, una simile decisione. Più pensava alla spiegazione e più le pareva farraginosa.

    - Lo so, a cosa stai pensando. Stai pensando che sono come tutti gli altri e che anche io ti sto abbandonando. Ma io non me ne vado: io vorrei che restassimo buoni amici.

    Quella fu l’ultima cosa che Leda volle sentire. Si asciugò le guance con un gesto brusco, strinse per un istante le palpebre cercando di non far scendere altre lacrime, poi si alzò, tirando su col naso, e disse soltanto, in tono sarcastico:

    - Voglio andare a casa. Da amico, portami a casa.

    Pagarono ed uscirono. Durante i quaranta chilometri che li separavano da casa di Leda, Tullio chiacchierò, scherzò, tentando di fare il brillante. Lei a malapena rispose con qualche monosillabo. Aveva lo stomaco stretto in una morsa per tutta quella finzione. Ma quali buoni amici! Lei non avrebbe mai voluto vederlo in quella veste e lui, ne era quasi certa, le aveva detto così solo per consolarla un po’. Considerò un sollievo arrivare a destinazione. Afferrò la borsa e scese dall’auto, richiudendo la portiera, mentre salutava con un laconico ed incolore ciao.

    - A presto, allora… Ci vediamo. Ti chiamo.

    - Certo. Ciao, Tullio.

    Si avvicinò alla porta di casa, senza voltarsi, sperando che lui scendesse dall’auto, la rincorresse, le dicesse che non era vero, che ci aveva ripensato. Non accadde nulla di tutto ciò: il ragazzo ripartì e si allontanò. Proprio lui, che era riuscito ad infrangere la corazza di cemento armato che lei si era costruita attorno al cuore, abbandono dopo abbandono, ora gliene rendeva le macerie, con tanto di interessi. La giovane armeggiò con le chiavi nella serratura con le mani che le tremavano. Entrò in casa e si richiuse la porta alle spalle. Nella solitudine esplose in singhiozzi, amari e disperati.

    *****

    - Leda? Leda, ci sei? Sono rientrata.

    Non ricevendo risposte comprensibili, ma solo un gemito lamentoso che proveniva dalla camera da letto, Ivana si affrettò.

    - Leda, sei qui? Ma… che è successo?

    Era a letto, con il volto a macchie rosse e gli occhi gonfi di pianto; sul comodino c’erano quattro o cinque fazzoletti fradici. Era da cinque anni che Ivana non vedeva quella sorella, che considerava anche migliore amica, in un simile stato e ciò la preoccupò.

    - Tullio… mi ha… lasciata…

    - Cosa stai dicendo? Ma così, di punto in bianco?!

    - Sì… dice… che mi rispetta e che… per questo… è meglio così… perché… adesso… lui ha bi-… bisogno di stare… da solo…

    - Mi dispiace, Leda. Mi dispiace tanto – le disse, sedendosi sul bordo del letto, mentre le accarezzava la schiena. – E non ti ha detto nient’altro?

    - No. Sì. Dice che… possiamo… restare amici.

    Ivana la costrinse a tirarsi a sedere e la abbracciò. Poco alla volta, i singhiozzi si calmarono.

    - Vedrai che in un modo o nell’altro andrà tutto bene.

    - No, non ci credo più.

    - Leda, questo non c’entra nulla col passato.

    - La verità è che gli uomini importanti della mia vita mi hanno abbandonata, tutti, uno dopo l’altro. E tra meno di due mesi mi abbandonerai anche tu – ribatté, discostandosi.

    - Ehi, io non ti abbandono! – protestò l’altra. - Certo, non vivrò più qui, ma mi sposo, non significa che smetteremo di essere sorelle. E oltretutto, io non sono un uomo! – ironizzò poi, mimando con le mani un seno prosperoso che non aveva mai avuto, riuscendo a strapparle un mezzo sorriso.

    Non cenarono, quella sera: Leda perché era troppo sottosopra per averne voglia, Ivana per solidarietà. Erano diventate sorelle diciotto anni prima, quando ne avevano rispettivamente sei e cinque e la mamma dell’una aveva sposato il papà dell’altra. Molti aspetti le accumunavano, tra cui la passione per il canto, nonostante le loro voci ed i loro generi preferiti fossero molto diversi: eterea e lieve era l’espressione vocale di Lena, corposa e rock quella di Ivana. Poiché i genitori erano stonati, da ragazzine si erano inventate un fantomatico nonno comune che sapeva cantare qualunque cosa; l’avevano chiamato nonno Francesco, come Guccini, che piaceva tanto ad entrambe. La confidenza tra loro era accresciuta giorno dopo giorno, al punto che dei problemi dell’una si faceva carico anche l’altra, da sempre. Insieme avevano riso, scherzato, gioito, combattuto battaglie, sofferto, vegliato dal tramonto all’alba cercando soluzioni che non si trovavano. Accadde anche quella notte. Ivana si addormentò molto tardi e più volte, nel dormiveglia, sentì la sorella soffiarsi rumorosamente il naso e capì che era sveglia e piangeva ancora. Tra loro non c’erano mai stati segreti; eppure, quella sera Ivana le aveva taciuto una novità, pur sapendo che avrebbe potuto essere importante. Si era sentita un po’ in colpa, per quel silenzio, ma si era giustificata pensando che la sorella era già sufficientemente sconvolta dagli eventi di quella giornata. Non si spara sulla Croce Rossa. Avrebbe sollevato la questione al momento opportuno.

    *****

    Appena sveglia, Leda accese il cellulare, vide che erano quasi le dieci di quel sabato mattina ed attese qualche istante. Il telefono, però, rimase muto; lei, invece, rimase male. Aveva mandato un messaggio la sera prima a Tullio, sebbene Ivana glielo avesse sconsigliato, approfittando del momento in cui la sorella era andata in bagno e non poteva vederla. Gli aveva scritto che, anche se lui aveva preso la propria decisione, lei gli voleva ancora bene e sperava che il proposito di restare amici fosse reale. Non era esattamente la verità, ma le sembrava che questo atteggiamento le avrebbe consentito di continuare a frequentarlo e, magari, di risistemare le carte in tavola. La totale assenza di risposta le causò una nuova crisi di pianto.

    Si vestì, si alzò per andare in bagno e sentì delle voci provenire dal salotto. Oltre a quella di Ivana, ne udì una maschile, che non ebbe difficoltà a riconoscere. Quando Leda si era trasferita lì con la madre a casa del padre di Ivana, l’unica famiglia oltre alla loro ad abitare nella piccola palazzina di sei appartamenti era composta da una coppia di cingalesi con un figlio di sette anni, Deshan. Erano persone timide ma simpatiche e tra le due famiglie si era ben presto instaurato un buon legame. I bambini avevano spesso giocato insieme ed avevano frequentato le stesse scuole dell’obbligo. Ora Deshan aveva venticinque anni, un diploma dell’istituto alberghiero, un lavoro in una mensa aziendale dove poteva sfruttare poco il proprio talento per la cucina, una voce limpida e mani agili nel correre sulla chitarra. Ivana gli aveva chiesto di cantare e suonare al proprio matrimonio e lui aveva accettato con entusiasmo.

    - Buongiorno - salutò Lena, a metà tra il bofonchiare ed il sospirare, facendo la propria comparsa in salotto, dopo essere passata in cucina a recuperare uno yogurt nel frigorifero.

    - Ben svegliata – la salutò la sorella, con una leggera pacca sulla spalla destra.

    - Ciao Leda – fece eco il giovane cingalese, stringendole la mano. – Sono venuto per accordarmi per i canti del matrimonio. Non ti chiedo come stai, perché mi sentirei un cretino: Ivana mi ha raccontato un po’.

    - Non ti nascondo che te ne sono grata – gli rispose lei, tirando un’occhiata alla sorella che lui non riuscì ad interpretare.

    - Non ho fatto niente, ok? – si dichiarò innocente l’altra, che fin dalle scuole medie aveva sempre avuto l’abitudine di darsi da fare per trovare un fidanzato alla sorella. – Ah, Deshan ha portato le polpette.

    - Direi che questa è la prima buona notizia delle ultime ventiquattro ore! – esclamò Leda, che apprezzava molto i piatti cucinati dal vicino, e quello in particolare.

    - Beh, era da un po’ che non ve le facevo.

    - Sì. L’ultima volta c’era a cena anche…

    Al ricordo di quella serata, in cui Tullio era seduto al suo fianco e scherzava con i commensali, non poté fare a meno di ricominciare a piangere. Con il naso affondato in un fazzoletto, non si accorse di una curiosa conversazione bisbigliata tra gli altri due:

    - Ma gliel’hai detto? – sussurrò lui, accennando con una mano ad una cartolina che faceva bella mostra di sé nel portacarte sul tavolo.

    - E come facevo? Sono tornata a casa dall’ufficio e l’ho trovata così… cosa avrei dovuto fare, secondo te? Darle anche un calcio nel sedere e una mazzata in fronte?

    - Sai quanto tempo può impiegare tua sorella a rimettersi in piedi?

    - Lo so, lo so, ma non posso farci niente… solo aspettare.

    - E se poi fosse troppo tardi?

    - E se la prendesse male?

    - Pazienza! Starà male una volta sola!

    - Non ci riesco, Deshan! Fallo tu!

    Lui fece un chiarissimo gesto di diniego, scuotendo entrambe le mani con gli indici alzati. Stavolta non sfuggì a Leda, che si alzò dal divano si trascinò verso la porta:

    - Scusate, io immagino che abbiate da discutere tra voi. Tolgo il disturbo e vi lascio lavorare.

    - Leda, no… in realtà io sono venuto qui perché… insomma, è successa una cosa.

    La giovane si bloccò e d’improvviso si chiese perché il vicino sembrasse così imbarazzato e la sorella avesse gli occhi chiusi e si fosse battuta il palmo della mano sulla fronte.

    - Il fatto è che forse dovrebbe dirtelo Ivana, ma… non ce la fa e quindi… tocca a me. La questione è un tantino seria. Intendo, niente di grave, però non è

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