Il ciuco di Melesecche
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Renato Fucini (1843 – 1921), poeta e scrittore italiano, trascorse gli anni della fanciullezza a Campiglia Marittima, in Maremma. Cominciò a frequentare uno storico locale, il Caffè dei Risorti, dove, prendendo spunto da vari episodi tragicomici narrati da alcuni frequentatori, iniziò a comporre sonetti. A un periodo subito successivo sono legate le novelle della raccolta "Le veglie di Neri", "All'aria aperta" e "Nella campagna toscana". I motivi prediletti sono quelli della vita agreste nelle zone che Fucini conosceva meglio: la Maremma e i borghi dell'Appennino pistoiese.
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Anteprima del libro
Il ciuco di Melesecche - Renato Fucini
morti!
La Regina di cuori
La Regina di cuori,
un bel giorno d'estate,
rinunziando, pel caldo, ad andar fuori,
restò in casa a impastar delle schiacciate.
Ma quel birbante del Fante di cuori,
senza curarsi punto dei calori,
senza pensare che s'era d'estate,
rubò quelle schiacciate.
Il Re di cuori fe' chiamare il Fante,
e lo trattò di ladro e di birbante;
e dalla rabbia, persa la ragione,
gli fracassò lo scettro sul groppone.
Il Fante, benché fossimo d'estate,
riportò, mogio mogio, le schiacciate;
e promise nel nome di Gesú
che non n'avrebbe mai rubate piú.
I due amici e l'orso
Due amici andavano insieme a diporto per una selva. Uno era buono e modesto; l'altro cattivo e vantatore sfacciato della propria generosità e del proprio coraggio.
— Mi vedrai al cimento, — diceva egli al compagno, sgranando due occhi da basilisco e facendo il mulinello con un gran bastone bernoccoluto, — mi vedrai al cimento, se avremo la fortuna che ci capiti il pericolo di qualche disgrazia.
E la fortuna del pericolo d'una disgrazia non si fece aspettare.
Videro, a un tratto, sbucare da una caverna un orso che pareva, Gesú ci liberi tutti, una montagna di pelo, di zampe, d'unghioni lunghi come coltelli da cucina e di zanne bianche come una tastiera di pianoforte. Mamma mia! E il male non era che essi avessero veduto l'orso, il peggio era che l'orso aveva visto loro e che veniva avanti a bocca spalancata, col proposito non dubbio di fare una scorpacciata di ragazzi crudi.
Il vantatore sfacciato che, fra le altre cose, si chiamava di nome Napoleone, fu lesto a rampicare in cima a un grosso albero. Cecco (quello buono e modesto si chiamava a questa maniera), Cecco, che non fu in tempo a mettersi in salvo, vistosi perso e ricordandosi che gli orsi non mangiano mai carne di cadaveri, si buttò in terra disteso, fingendosi morto. L'orso gli fu subito addosso e cominciò a scuoterlo con le zampe e a fiutarlo, ora nella bocca, ora nelle gote, ora negli orecchi. Ingannato dalla finzione di Cecco, che rimase immobile rattenendo il fiato, l'orso, dondolandosi scontento, se ne andò dopo poco per i fatti suoi. Passato il pericolo, l'amico che era sull'albero scese giú e domandò al compagno se l'orso, quando gli accostava il muso all'orecchio, gli avesse detto qualche cosa.
― Sí, — rispose Cecco, guardando uno sdrucio che Napoleone s'era fatto nei calzoni rampicando sull'albero, — mi ha detto che d'ora in poi io mi guardi bene dall'accompagnarmi con amici arditi e generosi come te.
La canzone da un soldino
«Canta, bambino, su, canta bambino;
poi ti darò un soldino...
Poi ti darò, se la canzone è bella,
un bel grappolo d'uva moscatella».
Erano ventiquattro ed eran merli;
ed il cuoco del Re, da cuoco esperto,
appena nelle man potette averli,
per cavarsi piú presto dall'impiccio,
senza ammazzarli,
senza pelarli,
senza sbuzzarli,
li cosse in un pasticcio.
Fin qui tutto va in regola; ma quando
il pasticcio fu aperto,
volaron via, cantando.
Non pare a voi, come pare anche a me,
degna pietanza questa per un Re?
Dopo pranzo quel Re ch'era un po' avaro,
si mise a riscontrare il suo denaro.
In quel tempo la sua sposa fedele
se n'andò giú nel proprio salottino
a mangiare un crostino
spalmato, a quanto dicesi, di miele.
La serva andò sul