Favole
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Info su questo ebook
La morte è uno degli elementi ricorrenti nelle Favole, in associazione al diritto del più forte, senza però trascurare il senso di solidarietà e di pietà verso gli infelici. Forse una delle morali complessive delle Favole è l'accettazione completa della natura umana: ad esempio La Fontaine certamente non vuole dare ragione al lupo nella favola celeberrima, però ammette l'impossibilità di salvare l'agnello. Quando il coraggio è teso contro l'ordine della natura, si risolve in una situazione ridicola e buffa, come il gonfiarsi della rana e la goffaggine degli ipocriti.
Jean de La Fontaine
Jean de La Fontaine, baptized on July 8, 1621 in the Saint-Crépin-hors-les-murs church in Château-Thierry and died on April 13, 1695 in Paris, is a man of letters of the Great Century and one of the main representatives of French classicism. In addition to his Fables and Contes libertines, which established his fame in the 1660s, we owe him various poems, plays and opera librettos which confirm his ambition as a moralist.
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Anteprima del libro
Favole - Jean de La Fontaine
Jean de La Fontaine
Favole
tradotte da Emilio De Marchi
Al delfino di Francia
Canto gli Eroi progenie alma d'Esopo
di cui l'istoria, anco se falsa, in fondo
di verità nasconde alti concetti.
Tutto parla nel mio novo poema,
il can, la volpe e fin parlano i pesci;
ma ciò che l'uno all'altro gli animali
dicon fra lor, di te, lettor, si dice.
O figlio illustre di Gran Re, sul quale
guarda benigno il ciel, guarda la terra,
d'un Re che cento baldanzose teste
abbassando, fra poco i giorni suoi
col nome segnerà delle vittorie,
altri canti con voce epica e grande
degli avi i fasti e le virtù dei prenci;
di piccole vicende il picciol quadro
io per te pingerò dentro i miei versi.
Che se all'impresa fia negato il dono
di piacer al tuo cor, dolce Signore,
almen conforti il povero poeta
quel d'averla tentata umile premio.
LIBRO PRIMO
I - La Cicala e la Formica.
La Cicala che imprudente
tutto estate al sol cantò,
provveduta di niente
nell'inverno si trovò,
senza più un granello e senza
una mosca in la credenza.
Affamata e piagnolosa
va a cercar della Formica
e le chiede qualche cosa,
qualche cosa in cortesia,
per poter fino alla prossima
primavera tirar via:
promettendo per l'agosto,
in coscienza d'animale,
interessi e capitale.
La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
- Che hai tu fatto fino a ieri?
- Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che cantare
tutto il tempo. - Brava ho gusto;
balla adesso, se ti pare.
II - Il Corvo e la Volpe
Sen stava messer Corvo sopra un albero
con un bel pezzo di formaggio in becco,
quando la Volpe tratta al dolce lecco
di quel boccon a dirgli cominciò:
- Salve, messer del Corvo, io non conosco
uccel di voi più vago in tutto il bosco.
Se è ver quel che si dice
che il vostro canto è bel come son belle
queste penne, voi siete una Fenice -.
A questo dir non sta più nella pelle
il Corvo vanitoso:
e volendo alla Volpe dare un saggio
del suo canto famoso,
spalanca il becco e uscir lascia il formaggio.
La Volpe il piglia e dice: - Ecco, mio caro,
chi dell'adulator paga le spese.
Fanne tuo pro' che forse
la mia lezione vale il tuo formaggio -.
Il Corvo sciocco intese
e (un po' tardi) giurò d'esser più saggio.
III - La Rana e il Bove
Grande non più d'un ovo di gallina
vedendo il Bove e bello e grasso e grosso,
una Rana si gonfia a più non posso
per non esser del Bove più piccina.
- Guardami adesso, - esclama in aria tronfia, -
son ben grossa? - Non basta, o vecchia amica -.
E la rana si gonfia e gonfia e gonfia
infin che scoppia come una vescica.
Borghesi, ch'è più il fumo che l'arrosto,
signori ambiziosi e senza testa,
o gente a cui ripugna stare a posto,
quante sono le rane come questa!
IV - I due Muli
Un Mulo che portava sulla schiena
dei sacchi d'or per conto dello Stato,
tutto superbo camminava a lato
d'un altro Mulo carico d'avena.
Agitando la criniera
colla bella sonagliera
del nemico ei fu cagione
che attirasse sull'oro l'attenzione.
Tratta dal buon bottin ecco una banda
piomba sul regio Mulo, e una tempesta
di colpi piove a lui sopra la testa
che invan sospira e ragli al cielo manda.
- Poveretto, - esclama, - a morte
mi conduce l'alta sorte!
Te felice che d'avena,
non di tesor hai carica la schiena!
- Buon amico, è questo il guaio,
degl'impieghi illustri ed alti, -
gli rispose il camerata:
- meglio il mulo d'un mugnaio
che il dover far certi salti -.
V - Il Lupo e il Cane
Un Lupo già ridotto al lumicino
grazie ai cani che stavan sempre all'erta,
andando un dì per una via deserta
incontrava un magnifico mastino,
tanto grasso, tondo e bello,
che pensò di dargli morte
provocandolo in duello.
Ma vedendolo un po' forte,
pensò invece con ragione
di pigliarlo colle buone.
Comincia in prima a rallegrarsi tanto
di vedere il buon pro' che gli fa il pane.
- E chi vi toglie, - rispondeva il Cane, -
di fare, se vi accomoda, altrettanto?
Quella vita che voi fate
dentro ai boschi è vita infame
sempre in guerra e sempre in scrupolo
di dover morir di fame:
vita stracciata e senza conclusione
che non può mai contar sopra il boccone.
Venite dietro a me, mio buon compare,
che imparerete l'arte di star bene.
Vi prometto pochissimo da fare;
star di guardia, guardar chi va, chi viene,
abbaiare ai pitocchi ed alla luna
e sbasoffiare poi certi bocconi
di carne e d'ossa, d'anitre e capponi,
senza contar la broda
in pagamento del menar la coda -.
Udendo questo, della sua fortuna
il Lupo si rallegra fino al pianto.
Ma camminando dell'amico accanto
gli venne visto spelacchiato e frollo
del buon mastino il collo.
- Che roba è questa? - È nulla. - È nulla un corno!
- Suvvia non darti pena,
forse il segno sarà della catena
alla quale mi legano di giorno.
- Ti legano? - esclamò cangiando tono. -
Né correre tu puoi dove ti piace?
- Che importa? - Importa a me, colla tua pace;
fossero d'oro, i piatti tuoi ti dono,
non è una vita, no, che m'innamora -.
E presa la rincorsa, corre ancora.
VI - La Mucca, la Capra e la Pecora in società col Leone
Si narra che una volta stringesser comunella
la Pecora, la Mucca, la Capra lor sorella,
col gran signor del luogo che detto era Leone,
a questa condizione:
che ognun insieme i danni e gli utili mettesse.
Ben stabiliti i patti avvenne che cadesse
un cervo nella fossa un dì della capretta,
che onesta manda a chiedere i suoi compagni in fretta.
Giunto il Leone, esclama: - Faremo quattro parti -.
E subito coll'unghie straccia la bestia in quarti.
La prima se la piglia e ciò per la ragione
ch'egli è Messer Leone.
- Un'altra parte - aggiunge, - ancor spettami in sorte
perché sono il più forte.
La terza me la piglio perché sono il Leone,
e se la quarta qualcuno osasse contrastarmi
lo mangio in un boccone -.
VII - La Bisaccia
Barba Giove disse un giorno:
- Vengan quanti al mondo sono
animali malcontenti
e ciascun di lor mi parli
senza fare complimenti,
ch'io vedrò dal mio gran trono
se si possa contentarli -.
Il babbione per suo conto
si dichiara arcicontento
senza tema di confronto.
Una bestia, figurarsi!
che cammina a quattro mani,
così bella e di talento,
non sarebbe un'ingiustizia
se volesse lamentarsi?
Ma una grande compassione
egli sente in cor per l'orso,
che gli sembra un così stupido
materiale bestïone,
così rozzo e disadatto,
che i pittori si rifiutano
fin di pingerne il ritratto.
L'orso subito protesta
contro questa insinuazione.
Quel che a lui sembra mal fatto,
corto in coda e grosso in testa,
una macchina pesante
senza garbo e proporzione,
è piuttosto l'elefante.
A sua volta anche costui,
ch'è un buonissimo pedante,
dice mal della balena
tutta schiena, tutta schiena.
Ogni mal è del vicino,
e per essere discreti
fa l'istesso panegirico
la formica al moscherino.
Barba Giove soddisfatto
li rimanda in santa pace.
Per venire adesso al fatto
non vi sembra che a un dipresso
anche noi facciam lo stesso?
Linci a scorgere del prossimo
i difetti, siamo poi
talpe cieche sol per noi.
Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell'altra mette i suoi.
VIII - La Rondine e gli Uccellini
Molte cose una Rondine vedute
ne' suoi viaggi avea di là del mare.
Viaggiando c'è sempre da imparare
e tanto ben la nostra rondinella
apprese a strologare il cielo e i venti,
che ai naviganti indizio
era di tempo bello o di procella.
Venne il tempo che getta le sementi
della canape in terra il contadino.
Vedendo questo disse: - State attenti,
uccelli, non mi va questa faccenda;
per voi semina insidie quella mano.
Per me, se c'è pericolo,
saprò bene volarmene lontano.
Da quei solchi vedrete uscir gl'inganni,
trappole e reti e panie ed altri affanni
come dire la morte o la prigione.
Dunque, - aggiunse la Rondine prudente, -
codesti grani subito mangiate -.
Ma gli Uccelli risposero a fischiate.
Essi risero poi della balorda,
che mentre era sì ricca la stagione
e pieno il campo d'ogni altra pastura,
volesse, profetessa di sventura,
costringerli a mangiar roba indigesta
e cruda come questa.
Fossero stati mezzo milione,
non bastavano ancora a ripulire
una provincia di quell'erba dura.
- Uccelli, non mi va questa faccenda, -
la rondinella ritornava a dire, -
mal'erba cresce presto e non vi attenda
di non aver creduto il pentimento.
Quando la neve coprirà la terra,
sarà divertimento
di tanta gente in ozio agli uccellini
il far con lacci e trappole la guerra.
Voi non potete come è dato a noi,
e come fan le gru, fan gli stornelli,
passar del mar, dei monti oltre i confini.
Altro dunque per voi
non rimane che starvene al sicuro
dentro i crepacci d'un cadente muro -.
Seccati di sentirla predicare,
a far rumor cominciano gli Uccelli,
come i Troiani usavano di fare
se la bocca Cassandra appena apria.
Così per questi come accadde a quelli,
quando rimaser presi
pur troppo s'avverò la profezia.
Anche fra noi succede tal e quale,
che non sentiam che il sentimento nostro.
Se non è sopra, non si crede al male.
IX - Il Topo di città e il Topo di campagna
Un Topo campagnol venne invitato
con molta civiltà
a un pranzo di beccacce allo stufato
da un Topo di città.
Seduti su un tappeto di Turchia
coi piatti avanti a sé,
mangiavan quella grassa leccornia
felici come re.
Se il trattamento e il piatto
fu cortese e squisito io non dirò.
Ma solo avvenne un fatto
che sul più bello il pranzo disturbò.
Voglio dir che alla porta
s'intese tutto a un tratto un gran rumor,
l'un scappa che il diavolo lo porta
e scappa l'altro ancor.
Passato quel rumor torna al suo posto
il Topo cittadin,
e vuole che del pranzo ad ogni costo
si vada fino in fin.
- No, basta, - disse il Topo di campagna, -
vieni diman da me.
Non si mangia seduti in pompa magna
ghiottonerie da re,
ma si mangia e nessuno t'avvelena
il pane ed il bicchier.
Senza la pace anche una pancia piena
non gusta il suo piacer -.
X - Il Lupo e l'Agnello
La favola che segue è una lezione
che il forte ha sempre la miglior ragione.
Un dì nell'acqua chiara d'un ruscello
bevea cheto un Agnello,
quand'ecco sbuca un lupo maledetto,
che non mangiava forse da tre dì,
che pien di rabbia grida: - E chi ti ha detto
d'intorbidar la fonte mia così?
Aspetta, temerario! - Maestà, -
a lui risponde il povero innocente, -
s'ella guarda, di subito vedrà
ch'io mi bagno più sotto la sorgente
d'un tratto, e che non posso l'acque chiare
della regal sua fonte intorbidare.
- Io dico che l'intorbidi, - arrabbiato
risponde il Lupo digrignando i denti, -
e già l'anno passato
hai sparlato di me. - Non si può dire,
perché non era nato,
ancora io succhio la mammella, o Sire.
- Ebbene sarà stato un tuo fratello.
- E come, Maestà?
Non ho fratelli, il giuro in verità.
- Queste son ciarle. È sempre uno di voi
che mi fa sfregio, è un pezzo che lo so.
Di voi, dei vostri cani e dei pastori
vendetta piglierò -.
Così dicendo, in mezzo alla foresta
portato il meschinello,
senza processo fecegli la festa.
XI - L'Uomo e la sua immagine
(Al signor Duca de La Rochefoucauld)
Un uomo molto di se stesso amante
e che, senza rivali, d'un bell'uomo
si dava l'aria, in ciò fisso e beato,
se la prendea di rabbia con gli specchi
ch'ei dicea tutti falsi e accusatori.
Per trarlo d'illusion fece la sorte
benevola che, ovunque egli girasse
coll'occhio, non vedesse altro che specchi.
Specchi dentro le case e in le botteghe
de' merciai, specchi in petto ai bellimbusti
e fin sulle cinture delle belle,
ovunque insomma a risanarlo il caso
gli facea balenar davanti questo
tacito consigliere delle belle.
Al mio Narciso allor altro non resta
che andare, per fuggir tanto tormento,
in paesi selvaggi e sconosciuti,
ove di specchi non vi fosse il segno.
Ma specchio ancora, o illusion, discende
ivi un bel fiume, che da pura fonte
sgorga e l'attira di sì strano incanto
ch'ei non può dal cristal torcer lo sguardo.
Della favola è questa la morale,
che non d'un solo io traggo a beneficio,
ma di quanti son folli in questo mondo.
L'anima umana è l'uomo vanitoso
troppo amante di sé: gli specchi sono
gli altrui difetti in cui come in ispeglio
ogni nostro difetto si dipinge.
E il libro delle Massime, o mio Duca,
è quel fiume che l'anima rapisce.
XII - Il Dragone di molte teste e il Dragone di molte code
Narra la storia che fu già in Lamagna
del gran Sultano un certo ambasciatore,
così millantatore
del suo paese, che al cospetto un zero
eran per lui le forze dell'Impero.
- Come? - un Tedesco a lui fece osservare, -
noi contiam dei vassalli in questa terra
così potenti, che potrebbe armare
un esercito ognuno in piè di guerra.
- Questo, - soggiunse il Turco intelligente, -
un certo caso mi richiama in mente
strano, ma ver, ch'è capitato a me.
Mi trovavo per caso in una selva,
quando venne a passar dietro una siepe
un'Idra a cento teste tanto orrenda,
ch'io non vidi giammai la più tremenda.
Ma più del mal fu grande la paura,
ché il grosso corpo della brutta belva
non poteva passar di quella siepe
traverso la fessura.
Stavo pensando a sì strana avventura
quando un altro Dragone
con un sol capo sopra un gran corpaccio,
e non so quante code alla riserva,
dietro alla siepe a un tratto si affacciò.
Prima col capo aprissi una finestra,
per questa il corpo e poi le cento code
dagli arbusti tirò
a poco a poco fuori dall'impaccio.
È questa, io credo, in ultima sentenza
tra il tuo signore e il mio la differenza -.
XIII - I Ladri e l'Asino
Due Ladri avean rubato un Somarello
e a pugni il disputavan fra di loro:
quand'ecco sul più bello
un terzo sopraviene,
che piglia Orecchialunga e se lo tiene.
Dei piccoli paesi ecco la storia,
che sono alla balìa
di questo o quel vicino prepotente.
Mentre il Turco, il Rumeno o il Transilvano
accorrono alle prese,
un altro arriva, per esempio Inglese,
che piglia per sé l'asino
e lascia agli altri un bel niente in mano.
XIV - Simonide salvato dagli Dèi
Malerba ha detto, ed io gli do ragione,
che la lode eccessiva mai non è
per tre classi speciali di persone:
gli dèi, le donne e i re.
La lode il cor solletica alle belle,
che si mostrano grate o tardi o presto,
in quanto ai Numi si racconta questo:
Simonide doveva
un grande elogio scriver d'un atleta
e non sapeva proprio cosa dire:
l'atleta oltre la forza non aveva
gran meriti ed i suoi, gente alla buona,
vivean sì sconosciuti alla carlona,
da fare disperar anche un poeta.
Or che pensa Simonide? - Accozzate
quattro parole intorno all'argomento,
girò la vela al vento,
e sparse d'eloquenza i più bei fiori
su Castore e Polluce, che direi
degli atleti i due santi protettori.
Lodò le imprese, le battaglie e l'arti,
onde brillano i due santi gemelli
con tal copia di storie e fatterelli,
che il loro panegirico
occupò del discorso almen tre quarti.
L'atleta udendo questo,
assai poco contento,
pagò del panegirico una parte
e disse: - Va' da Castore e Polluce
che del talento pagheranno il resto:
ma perché non ti sembri villania,
vieni oggi a desinare a casa mia
che un boccon mangeremo allegramente
in lieta compagnia -.
Non volendo mostrarsi scompiacente,
e per non perder forse anche quel poco,
Simonide accettò.
La brava gente fece onore al cuoco,
si bevve e si mangiò,
lieto ciascun del suo miglior umore.
A un tratto entra correndo un servitore
a dirgli che due giovani
l'aspettano di fuori. Esce Simonide
e restan gli altri a tavola
per non perdere un tempo così bello.
Eran Polluce e Castore in persona,
che dell'elogio in prima il ringraziarono,
poi - Vattene, - gli dissero, -
da questa casa che di fesso suona -.
Ed ecco a un tratto una trave si schianta,
cade il solaio, ed anfore e bicchieri
e piatti rompe e va sopra ai coppieri.
Inutil dir che quella gente ghiotta
uscì pesta e storpiata.
E per far la vendetta più salata,
per conto del poeta,
ebbe l'atleta anche una gamba rotta.
La fama andò a sonar la sua trombetta
per dritto e per traverso,
e a un uomo tanto caro a Quei lassù
si pagaron gli elogi
il doppio che agli altri ed anche più.
Ogni Bertoldo non guardava ai soldi
pur d'avere un elogio da Simonide
in lode degli antichi suoi Bertoldi.
Tornando a bomba, io dico che l'incenso
ai numi e ai pari lor non è mai troppo.
E l'arte fa benissimo, mi pare,
se dal lavor ritrae qualche compenso.
Si stima l'arte che si fa pagare.
Il favor che il potente all'arte dona
a gloria sua ritorna.
Già fu l'Olimpo amico all'Elicona.
XV - La Morte e il Disgraziato
In suo soccorso un Misero la Morte
chiamava notte e dì:
- O cara Morte, o fortunata sorte
morire e i mali terminar così! -.
La Morte viene all'uscio e si presenta
certissima di fargli un gran favor.
Ma l'altro si spaventa
e si mette a gridare: - O Dio, che orror!
O Morte, o brutta, orribile figura,
va' che mi fai morire di paura -.
Mecenate, uom di talento,
si racconta ch'abbia detto:
- Voi ficcatemi in un letto,
pesto, monco, senza fiato
e dai mali assassinato,
pur ch'io viva son contento.
Per qualunque cosa accada,
brutta Morte, cambia strada -.
XVI - La Morte e il Boscaiolo
Sotto un fastel di legna, non men che sotto il peso
degli anni, un Boscaiolo, curvo, accasciato e stanco,
andava trascinando il doloroso fianco
verso la sua capanna.
Ma tanto è il male e il peso che il poverino affanna,
che posto in terra il carico, a dire cominciò:
- Qual dura sorte in questo mondo sconclusionato
il cielo mi serbò!
Sempre col pane in lite e per soprammercato
la moglie, i figli, i debiti, le tasse e l'angherie
che fanno a un pover'uomo la vita irta di spine.
O Morte, a questi mali poni un rimedio e un fine -.
La Morte, che non usa farsi aspettar giammai,
vien subito e - In che cosa, - esclama, - o buon fratello,
posso giovarti? - O grazie, soltanto ti chiamai,
perché mi aiuti a reggere un po' questo fardello -.
È la morte un gran rimedio
a chi è stanco di soffrir.
Sarà ver, ma piace agli uomini
più soffrire che morir.
XVII - L'Uomo stagionato e le due Amanti
Un Uom, già stagionato e brizzolato,
credette giunto il momento propizio
di prender moglie e mettere giudizio.
Erano molte quelle
giovani ancora e belle
che gli facean la corte.
Ma quell'uom ch'era ricco e ancora forte,
prima volea veder, toccar con mano.
In queste cose chi va pian va sano.
Due vedovelle alfin preser possesso
del suo cuore, di cui
l'una forse un po' giovane per lui,
e l'altra più verso l'età canonica,
che si teneva in prezzo ed in figura
correggendo coll'arte la natura.
Le vedove venivano assai spesso
in casa, e or quella, or questa,
per vezzo carezzandogli la testa,
la vecchia gli strappava ogni momento
qualche capello nero,
e l'altra gli strappava quei d'argento,
per fare che il galante
fosse a ciascuna d'esse somigliante.
e strappa e strappa, il nostro innamorato
si avvide, ahi troppo tardi!
di restar fra le due tutto pelato.
- Questo, - egli disse, - è un saggio avvertimento