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Fucile
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E-book130 pagine1 ora

Fucile

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Il racconto sottile e originale di una storia di violenza psicologica in una relazione. Una narrazione a episodi, centrata su oggetti emblematici che riportano a galla ricordi. Una “storia-specchio” che interroga chi legge e non lascia indifferenti.

Un fucile che incombe come una minaccia su una donna e un uomo incapaci di amarsi a lungo termine. Un barattolo di vetro in cui acchiappare qualche girino una domenica di primavera. Un paio di occhiali da sole e una bandana per un travestimento canino. Questi e altri oggetti – una moneta, un berretto, un monopattino, una pala, un guinzaglio... ma anche un filodendro e una trappola per topi – costituiscono la struttura dell’originale romanzo di Odile Cornuz che esplora le dinamiche e i segreti di una famiglia al ritmo dei ricordi, un episodio dopo l’altro.

Con uno stile sobrio, intenso e pungente, Odile Cornuz sonda gli impenetrabili misteri della separazione amorosa, mettendo la materia al servizio della memoria.

LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2024
ISBN9788831285773
Fucile
Autore

Odile Cornuz

Odile Cornuz, poeta e scrittrice svizzera di lingua francese, esplora la scrittura in varie forme – radiofonica, teatrale, narrativa, performativa, analitica – e partecipa a letture interattive (Bal littéraire, Jukebox littéraire).Fino a oggi ha pubblicato “Ma ralentie” (2018), “Pourquoi veux-tu que ça rime?” (2014) e “Biseaux” (2009) per le éditions d’autre part, così come “Terminus et Onze voix de plus” (2013) per L’Âge d’Homme.“Fusil” (Fucile), il suo primo romanzo, è uscito nel 2022 per le éditions d’en bas.

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    Anteprima del libro

    Fucile - Odile Cornuz

    Prologo

    È stato verso la fine della telefonata. Dopo essersi ripresa dallo stupore che l’aveva colta l’attimo in cui aveva sentito la sua voce, aveva raccontato qualche novità, restando in superficie, come si fa con la pasta che si spiana con il matterello. Incollava un po’ sotto la lingua. C’era farina tra le frasi. Non capiva perché, dopo più di vent’anni, avesse deciso di chiamarla.

    – E il fucile?

    – Quale fucile?

    – La carabina che avevo prestato a tuo padre. Quando è morto il cane e lui non voleva prendere un altro animale. La mia vecchia carabina.

    – È stato tanto tempo fa.

    I suoi pensieri accelerarono come capita, ogni tanto, in quelle circostanze, quando spunta fuori un elemento del passato e tutto quanto intorno si cristallizza: qualcosa che, piano piano, era riuscita a scolorire, con quella sua caratteristica capacità di dimenticare, quella memoria selettiva che preserva dall’implodere.

    – Vorrei riprendermela.

    Anche se i pensieri correvano veloci, il corpo non seguiva. La lingua rimaneva ostinatamente piatta e non riusciva a sollevarsi neanche per formare il più piccolo suono. La gola era secca. Le pungevano gli occhi.

    – Ci sei ancora?

    Non poteva rispondere a quella domanda – quel sondare il suo essere al mondo in generale. Se ne stava lì in piedi, all’altro capo del filo, nell’appartamento che aveva sistemato con i mobili radunati nel corso degli anni, recuperati, i quadri acquistati e amati, le piante di cui si prendeva cura ogni giorno, i libri nella libreria. Stava lì nella sua storia, nella sua vita – ma non era in alcun modo più lì per quell’uomo. Con un tasto mise a tacere l’inopportuno. Posò il telefono e premette le due mani sul tavolo che aveva davanti. La sua testa pesava tre volte i suoi anni. La suoneria riecheggiò.

    – È caduta la linea.

    – Non voglio più parlare con te.

    – E il mio fucile?

    – Liquidato insieme alle cose della casa. Quindici anni fa. Non chiamare più.

    Quand’è che finisce? Come si fa a sapere quando finisce? Tutto ciò che è stato lanciato nello spazio e che sembra un legame fra due esseri. Tesse fili. Si aggroviglia. Eccome se si aggroviglia! E bisognerebbe passare la vita a districarli? O perlomeno la parte che viene dopo? Quella che segue il momento in cui i gomitoli se ne stanno lì tutti incasinati? Riprendere il filo, sì. Si sedette. Sarebbe rimasta su quella sedia per un momento. Avrebbe avuto bisogno di tempo per assimilare quello che era successo, che era insieme straordinario, grottesco e inaudito. Lentamente si alzò, spalancò la finestra. L’aria fredda regalò al suo corpo nuovi contorni.

    Indice

    Avevano preso il sentiero che scende. Schiacciavano foglie a ogni passo attraverso il bosco, sentivano la forza regalata dalla natura, rimanevano in silenzio. Il cane ogni tanto tornava scodinzolando, poi ripartiva in quarta per esplorare i dintorni, la lingua penzoloni, il muso verso l’alto. Avevano incontrato poca gente per una domenica di primavera. Si tenevano la mano e la cosa era piuttosto dolce, sentire la mano dell’altro mentre il fresco e il magnetismo tutto intorno continuavano la loro corsa. La bambina e il cane erano allegri. Niente pesava. Avevano promesso di fermarsi a osservare i girini, forse metterne qualcuno in un vasetto, magari addirittura portarli a casa.

    Si erano seduti su un tronco ricoperto di muschio. Lui aveva tirato fuori il suo Opinel e tagliato spesse fette di gruyère che aveva schiacciato fra due pezzi di pane spezzato con le mani. Troppo umido per un fuocherello – e poi la passeggiata non era dedicata al fuoco ma all’acqua e a tutto quello che ci brulica dentro. Da un thermos ammaccato, lei aveva versato del tè nelle tazze di plastica. Il cane continuava la sua corsa concentrica. La bambina si era inginocchiata sul bordo dello stagno e ne intorbidiva la superficie con un rametto di nocciolo.

    – Sto bene con te. È da tanto che non mi sento così bene con qualcuno.

    Masticarono i panini. Lei pensò che di quel pane, di quella fetta di formaggio in particolare, la sua memoria avrebbe conservato un sapore inedito. Si alzò per dare alla bambina il vasetto di marmellata vuoto che serviva da osservatorio. Poi accarezzò meccanicamente la testa della figlia, nello stesso modo in cui avrebbe dato un buffetto a quella del cane. La sua mente era altrove, in boschi più antichi, ad altre latitudini. Considerava la sua vita come un patchwork rattoppato. Si chiedeva cosa ne costituisse il principio, il cuore, lo scheletro. Si interrogava sulla primavera, su quello che ritorna, quello che cresce accanto al marcio.

    – I girini muoiono se li porto a casa?

    – Non lo so, tesoro.

    Avrebbe voluto vedere dei ragni acquatici, per la loro leggerezza, ma c’erano solo melma e girini spaventati.

    – Li catturo solo per vederli meglio e poi li lascio andare.

    – Come vuoi.

    Cos’è che le permetteva di starsene lì, in mezzo al bosco, in piedi ai bordi di quello stagno, accompagnata da quegli esseri quotidiani, nonostante la vertigine, nonostante la tenace malinconia della primavera?

    – Ma tu cosa ne pensi?

    – È uguale, fai come vuoi.

    Tornò a sedersi accanto a lui. Aveva infilato il coltello ripiegato in una delle tante tasche del suo gilet da caccia. Le mani, massicce e bianche, gli penzolavano fra le ginocchia. Aspettò che la bambina fosse assorta nel prelevamento per girarsi verso la donna dallo sguardo vacillante e sussurrarle alla nuca:

    – Vuoi sposarmi?

    – Scusa?

    All’istante, i boschi antichi si condensarono tutti insieme in quel bosco lì, la sua presenza era richiesta in quel momento. Cercò di radunare i pensieri nel luogo in cui si trovava il suo corpo. Lui aggiunse:

    – Non siamo più tele immacolate. Abbiamo già disegnato una parte delle nostre vite. Oggi mi sento bene con te. Vorrei che potesse durare, insieme. Vuoi sposarmi?

    Lei non ci credeva proprio più a quel legame, a quello che ne fanno le persone, alle aspettative che pesano a partire da quel primo passo, alla coppia soprammobile, messa lì a prendere polvere invece di riflettere la luce.

    – Non lo so. È così... inaspettato.

    – Pensa a quello che senti. Come ti senti, qui, adesso?

    – Bene. Amo questo bosco.

    Non riusciva a dire altro. C’era troppo inverno dentro di lei,

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