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Tra bisturi e farfalle: La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi
Tra bisturi e farfalle: La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi
Tra bisturi e farfalle: La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi
E-book447 pagine7 ore

Tra bisturi e farfalle: La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi

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Un nonno non è di per sé un mito. Ma un nonno che conobbe ministri e imperatori, che attraversò l’Atlantico a vela ed esercitò l’emergenza della sua professione in una città assediata fra le Ande, può divenirlo facilmente.

Al tempo della Guerra del Guano (1879-1884), Vincenzo Ragazzi — medico ed esploratore — circumnavigò l’America Latina su una pirocorvetta della Regia Marina, per poi dirigere l’osservatorio della Società Geografica Italiana nel cuore dell’Etiopia. I suoi reperti da quei luoghi arricchirono le collezioni dei musei di Storia Naturale di Napoli, Genova e Modena, la sua città.

L’esistenza di un uomo così particolare è narrata come un romanzo da Lucio Margherita, suo nipote. Naturalista anche lui, più di una volta — settant’anni dopo il nonno — ha visitato gli stessi paesi e percorso gli stessi sentieri, con strumenti e obiettivi diversi.

L’Africa visitata da mio nonno era più simile a quella circumnavigata da Vasco da Gama quattrocento anni prima dei suoi viaggi che a quella che vidi io pochi decenni dopo di lui. Perché, a differenza che nella fiaba della Bella Addormentata, il risveglio del continente dal sonno impostogli non avvenne con un bacio d’amore, ma con un elettroshock di cui porta tuttora le piaghe.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2017
ISBN9788827537855
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    Tra bisturi e farfalle - Lucio Margherita

    Tra bisturi e farfalle

    La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi

    Lucio Margherita

    Tra bisturi e farfalle. La scienza al tempo di Vincenzo Ragazzi

    © 2017 Lucio Margherita. Tutti i diritti riservati


    Il testo di questo libro elettronico non può essere riprodotto, adattato, trasferito, distribuito, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo, né in tutto né in parte, senza l’esplicito consenso dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo costituisce una violazione, e sarà sanzionata secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.


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    Pubblicazione realizzata a cura di:

    Marina Acampora, Oriana Corsi, Valentina Marinacci.


    SATT – Scrittura a Tutto Tondo

    www.scritturaatuttotondo.it

    info@scritturaatuttotondo.it

    A Luigi, Elena, Mario, Ave

    e a tutti noi

    Il compito della scrittura è di riportare tutto al presente.

    Indice

    Una doverosa premessa

    Gli inizi

    Gli anni di studio

    Medico, naturalista e marinaio

    Il primo grande viaggio

    In cui si parla d’Africa

    La testa di ponte

    Attraverso l’Etiopia

    Let-Marefià

    Il rilievo del vulcano Dofane

    La spedizione punitiva

    Il colloquio con Crispi

    Il re imperatore

    Venezia, Torino e il ritorno a Massaua

    Quel che successe poi

    Cecè e Nina

    Gli ultimi anni

    «Cenni medico-zoologici su di un viaggio all’America del Sud» del Dott. Vincenzo Ragazzi

    1. Da Napoli a Montevideo

    2. Rio della Plata e Rio Paranà

    3. Lo Stretto di Magellano ed i Canali della Patagonia

    4. Il Chili ed il Perù

    L’autore del libro

    Bibliografia

    Note

    Una doverosa premessa

    Come narrare la vita di qualcuno che di sé non lasciò che la più esile traccia? Di una persona che per tutta la sua esistenza nascose sentimenti ed emozioni dietro a un’ermetica imperturbabilità? Cosa dire dell’uomo scienziato che non tramandò altri scritti se non cataloghi di bestie sconosciute, aride lettere a eminenti professori, e minuziose descrizioni d’insetti noti soltanto ai suoi pari? Come raccontare un uomo di cui si disse, fin sulla bara il giorno del funerale, che fu schivo, riservato, taciturno e, nei giorni migliori, di poche parole? Come scrivere un libro su un nonno che non conobbi e i cui pochi aneddoti tramandati dalle figlie si riducono a delle frasi e a delle esclamazioni imbalsamate nel lessico familiare? A parte la relazione di un suo viaggio giovanile, e un paio di note pubblicate sui bollettini della Società Geografica Italiana, non ho di lui una sola lettera ai genitori o ai fratelli, o di costoro a lui. Non una nota a sua moglie, un appunto ai figli, la brutta copia di un tema, una poesia d’adolescente o un quaderno di scuola. Tutto il bagaglio di futilità, di abitudini o d’idiosincrasie che costituiscono l’ossatura di un qualunque personaggio, e che traspare dalle espressioni che chiunque usa nell’intimità di un suo scritto, nel suo caso non c’è. Dire di lui significa quindi imbastire i frammenti e ricucire i brandelli di un insieme slegato cui manca l’afflato del soggetto in questione. Ogni manifestazione d’affetto, ogni preoccupazione o segno di un qualunque affanno atto a mostrarci il suo animo è assente dal quadro.


    Com’è possibile che sia così? E che così fosse in un’epoca in cui la corrispondenza era l’unica maniera di comunicare a distanza? In cui i romanzi epistolari erano di moda; in cui non solo le signorine ma, da Stendhal a Kafka, tutti tenevano un diario? Certo le case si vendono, i cassetti si svuotano e i bauli pieni di carte fanno la fine di tutti i ricettacoli di scartafacci che piombano sui figli un brutto giorno e che finiscono alla discarica. Se il passato remoto non facesse spazio al presente, quello prossimo non potrebbe mai prenderne il posto. È giusto quindi che i ricordi si estinguano. Purché restino i miti. Quelli immutabili certo, ma anche quelli più intimi, a scala ridotta, che ognuno ha il diritto di crearsi dal proprio passato per ancorarvi la sua identità. Su questi si può intessere liberamente, pur di non alterarne il senso e il messaggio che la comunità che li condivide ha inteso loro attribuire.


    Un nonno non è di per sé un mito. Ma un nonno che conobbe ministri e imperatori, che attraversò l’Atlantico a vela e che esercitò l’emergenza della sua professione in una città assediata fra le Ande, può divenirlo facilmente. Specie poi se narrò le sue prodezze a mezze frasi, ed ebbe come uniche uditrici due figlie che pendevano dalle sue labbra, come Desdemona da quelle di Otello al racconto delle sue avventure. Da questo punto di vista non ho avuto quindi granché da fare nel mio lavoro, se non perpetuare il ricordo di quelle avventure con un libro che avrebbe potuto essere il loro, ma che né l’una né l’altra pensarono mai a redigere per noi. È quell’immagine che, costruitasi a poco a poco nella loro mente, giunse poi fino a me con la parola, e ho voluto fissare in uno scritto che lo ricordi ai suoi pronipoti.

    Quanto al resto, e cioè all’epoca e alla situazione in cui visse Vincenzo Ragazzi, agli spazi e agli avvenimenti che attraversò, e alle guerre che gli si scatenarono intorno, non mancano certo libri, riviste e giornali con ampie referenze e contraddizioni di ogni parte. Nel corso dei più di settant’anni dell’esistenza di mio nonno, infatti, avvenne di tutto: si unì l’Italia con Garibaldi, si combatté in Africa con Crispi e, fra Cavour e Mussolini, si scollò e rincollò la nazione in quasi tanti modi quanti vi furono governi. Quella storia la studiammo a scuola e, più o meno, la conoscono tutti. Né mancano informazioni su di un piano più personale: dove andò mai a cacciarsi nonno Vincenzo con i suoi viaggi? Quando e perché? Chi ve lo mandò a far che cosa? Quali furono i suoi risultati, i suoi successi e i suoi smacchi? La letteratura scientifica pubblicò tutte le sue analisi e le sue misure, le sue descrizioni delle zone visitate e le sue conclusioni. Oggi tutto ciò è accessibile in rete; basta prendersi la briga di cercare. Ci sono poi i musei cui mandò i suoi reperti: centinaia di campioni di rocce, di animali e di piante da lui trovate, descritte, catalogate e tuttora esposte al pubblico nelle vetrine o conservate per gli studiosi sugli scaffali.

    Per dar colore poi al grigiore di questa sterminata lista di esseri e di dati, c’è il lavoro di altri. Mio nonno non fu né il primo né il solo viaggiatore in Africa Orientale, né l’unico medico militare a operare in condizioni precarie sui campi di battaglia. Basta scavare un po’ in biblioteca per trovare i resoconti di tanti che, più prodighi d’informazioni di lui, vissero le stesse avventure ma descrissero i metodi, gli strumenti, e le condizioni che in tempi e luoghi analoghi se non identici, dovettero essere le sue. Uomini che lui stesso conobbe, con cui condivise il quotidiano e che, come Traversi che gli succedette alla direzione della stazione medico-geografica di Let-Marefià, o come Santafiora che lo accompagnò nella crociera oceanografica del Cariddi, raccontarono in un libro quel che avvenne, quel che vi si fece e quel che vi fece lui.


    Ma, come se ciò non bastasse, e come ogni autore ha diritto di fare, a tale messe di testimonianze provenienti dalle fonti più disparate, ho aggiunto del mio. Non medico, ma naturalista a mio modo, più di una volta mi sono trovato a esercitare il mio mestiere negli stessi luoghi dove nonno Vincenzo era stato tanti anni prima. Lo Stretto di Magellano, le Ande o le isole deserte del Mar Rosso non cambiano se non di poco col passare dei secoli. E io vi ho provato le stesse emozioni che dovettero essere le sue alla vista di quei paesaggi. Se gliele ho quindi attribuite con fiducia, è perché sono convinto dell’immutabilità di quei posti; e perché ho la certezza che lo stimolo e il turbamento che ancor’oggi provo alla vista di uno spettacolo naturale più grande di me mi viene da lui, attraverso gli occhi azzurri di mia madre perennemente spalancati sulla scoperta, sul nuovo e sull’inconsueto.

    Se quindi nello scrivere queste pagine intessi fregi al ver, posso affermare di averne avuto il diritto, che la prevaricazione non fu fortuita; anzi, che fu voluta e giustificata. O almeno fino a un certo punto. Ogni autore scopre se stesso vestendo il protagonista di una sua storia della propria esperienza e facendogli vivere un avvenimento che l’ha colpito o una sua qualunque fantasticheria. Tutto è permesso all’artista. Ma non al nipote, cui non è dato di costruirsi il nonno che vuole, né al biografo che, per definizione, racconta i fatti attraverso l’uomo e non l’uomo attraverso i fatti come fa la storia, vera o romanzata che sia.


    Ognuno ha diritto al riserbo sulla sua vita; specie poi se, di proposito, l’ha resa impossibile da ritracciare. Ma ciò riguarda gli avvenimenti, non le sensazioni e le emozioni di un uomo di cui porto i geni e con cui ho il diritto di immedesimarmi. Anche se indirettamente, non ascoltai forse anch’io i suoi racconti? Non fantasticai sui suoi viaggi? Non m’inventai sull’atlante di scuola i suoi percorsi nella foresta? Che impatto ebbe il ribollire del suo crogiuolo sulle mie scelte di ragazzo che poi divennero la mia vita da adulto? Lo stesso che d’ora innanzi avranno le mie esperienze su di lui; quelle di un vecchio nipote che, giunto all’età degli ultimi anni del suo personaggio, colmò a suo modo i vuoti che il nonno non volle riempire.

    Gli inizi

    Vincenzo Ragazzi nacque a Modena tanti anni fa. Esattamente quando non so, e non l’ho potuto accertare. Alcuni documenti indicano il 1854, altri il 1855 e altri ancora il 1856. Tale imprecisione non è inusuale. Una volta si veniva al mondo l’anno della visita del duca o in quello della piena del fiume. Ogni data faceva riferimento ad avvenimenti e, trascritta e ricopiata poi mille volte senza l’ombra di una verifica, diventava col tempo tanto poco attendibile quanto ogni altra. Per essere precisi c’era l’arciprete con i suoi libroni. Ma chiunque abbia bazzicato un minimo con le vecchie carte sa che neanche quelli erano una soluzione. Le cifre scritte con penna e calamaio erano infide. Il nove di uno scrivano poteva essere il cinque di un altro, e un sette, cui mancava la sbarretta, somigliava come una goccia d’acqua a un uno leggermente inclinato. Né infidi erano solo i numeri degli scrivani.

    In un cassetto in casa di mia zia Elena, insieme ad altre note su personaggi di cui parleremo più tardi, ho trovato la fotografia della pietra tombale di mia bisnonna Tirelli, la madre di nonno Vincenzo. Vi è inciso che anche lei nacque a Modena, nel 1838. Altre fonti menzionano invece il 1837 e altre ancora il 1839. A chi credere dunque? Se è vero quel che è bulinato sulla stele, e se nonno Vincenzo, che era il suo secondogenito, nacque effettivamente nel 1854, vorrebbe dire che, a 16 anni, Elena Tirelli aveva già messo al mondo due dei suoi undici figli. Una condizione rara, ma non eccezionale per quei tempi. Nell’Ottocento le ragazze in famiglia erano un ingombro e le si metteva fuori casa con il primo venuto. Che, nel caso di mia bisnonna, spero proprio fosse il bisnonno. Perché, qualunque ipotesi sulla data di nascita della sposa formulata sulla base di quelle dei suoi due primi figli, porrebbe un pretendente che avesse preceduto il legittimo padre dei due rampolli al limite della pedofilia. Per gli anni di nascita quindi restiamo prudenti e, vada una volta per tutte il 1838 per la madre e il 1856 per il figlio.


    Se le cose sono così vaghe è perché ancora alla metà del secolo prima di quello scorso, l’anagrafe o non esisteva o aveva poca importanza. L’identità di un individuo, anche quella ufficiale che veniva poi trascritta sui passaporti, era definita dal luogo di nascita, dove costui era conosciuto da tutti, e dalla paternità che nessuno metteva in dubbio a meno di uno scandalo su cui si sogghignava per anni nelle osterie. Per determinare poi l’età di una persona contavano la statura, la corporatura, il grado di istruzione e la classe di leva; dati del resto, a parte quelli somatici, non meno approssimativi di tutti gli altri. Perché a scuola si andava se in paese ce n’era una e, quanto alla leva, a quell’epoca non si partiva militare con in tasca una cartolina ricevuta per posta, ma con i soldati alle calcagna che, senza far domande, accalappiavano i ragazzotti meno veloci degli altri che se ne scappavano per i campi.


    Il giorno della nascita di Vincenzo invece è sicuro. Perché, anche in una casa cristiana poco più che all’acqua di rose come quella di mia madre, il santo sì che era importante. E, volenti o nolenti, si nasceva sotto la sua protezione. Mio nonno nacque dunque un 3 febbraio, il giorno di San Biagio, con il sole nella costellazione dell’Acquario. Un segno che gli si addisse perfettamente, che mi lasciò in eredità come Ascendente, e a cui, senza saperlo o, sapendolo, senza dargli importanza, aderimmo ambedue nelle scelte della nostra vita.

    Vincenzo nacque in una famiglia perbene, agiata, ma non aristocratica. I Ragazzi, malgrado gli sforzi araldici di uno dei miei zii per provare il contrario, di sangue blu non ne avevano una goccia. Quel cognome a Modena lo portano in molti e, del resto, al ritmo di undici figli su quattordici gravidanze imposto alla moglie dal bisnonno Luigi, se non fossero stati già numerosi, lo sarebbero presto diventati.

    Ciò detto, e malgrado le sue origini borghesi, Luigi Ragazzi fece un ottimo matrimonio. I Tirelli erano nobili e abbienti, due qualità che, nell’Estense ducato di Modena, Reggio e Guastalla, che a quell’epoca si estendeva peraltro fino alla Garfagnana, non mancarono certo di aiutarlo nella sua prospera carriera di galantuomo. Molti elementi mi permettono di pensarlo. I Ragazzi avevano casa in città e casa in villa; andavano in giro in carrozza, di nolo certo, ma pur sempre in carrozza; e tutti i maschi che sopravvissero all’infanzia ricevettero una solida educazione universitaria. Il che, in un’epoca in cui questa non era né gratuita né obbligatoria, non era certo da tutti.


    Vincenzo fu il secondo di otto fratelli e cinque sorelle. Il maggiore si chiamava Nicolò e, dopo mio nonno, al ritmo di una nascita ogni due anni, vennero Lodovico, Enrico, Giuseppe, Teresa, Maria, Giovan Battista, Carlo, Margherita, Bianca, Luisa e Guido. Una casa affollata quindi, probabilmente con stanze, stanzette e saloni, e un numero adeguato di servitori come nei film. Avevano terre nel circondario di Camposanto, una zona ridente del modenese malgrado il lugubre nome del suo borgo e, secondo una ricerca fatta da uno dei miei innumerevoli prozii, ne erano originari, vi coltivavano la vigna e producevano vino. Una delle tante storie che si raccontano in casa vuole che i giovani maschi che giungevano in ritardo per l’ora di cena fossero perentoriamente banditi dal desco e spediti in penitenza a mangiare al ristorante. Non so quanto la misura fosse efficace per stimolare la puntualità dei suoi figlioli, ma ne deduco che in casa di bisnonno Luigi i soldi per tali severi provvedimenti non dovevano mancare.

    Per quel che riguarda i servitori poi, nelle Confessioni di un Italiano, Nievo, il cui libro fu pubblicato quando mio nonno aveva appena undici anni, racconta che Carlino e Pisana, lui misero e cieco e lei all’elemosina per le strade di Londra, a casa avevano la cameriera. Questo non vuol dire che gli accattoni in Inghilterra se la passassero bene, Nievo non poteva saperlo giacché non leggeva Dickens e a Londra non aveva mai messo piede. Possiamo dedurne però che, se un possidente come lui non riusciva a concepire una casa senza domestici, per povera che fosse, era perché nel suo mondo le cameriere le avevano tutti.


    Ma le terre al sole, i servitori e i ristoranti non implicano che la dimora in cui visse i suoi primi anni mio nonno fosse la casa paterna e che questa fosse rallegrata a ogni istante dalle grida e dai giochi di bambini di tutte le età. Anzi, proprio per quelle agiatezze di cui sopra, propendo per il contrario. Una volta i neonati di una famiglia con mezzi adeguati restavano al seno della madre non più di qualche giorno. Appena possibile andavano a balia, e chi si è visto si è visto. In tal modo, tutta una famiglia parallela si creava in campagna per loro. Questa era costituita da una parentela mercenaria quanto premurosa, da un gran numero di fratelli e sorelle di latte cui si aggiungevano i cugini dei casali vicini, e da infinite capre, polli e conigli con cui ruzzavano in cortile e da cui imparavano le vie della vita. I sentimenti reciproci fra tutti costoro erano certo intensi e formativi ma, come per Mowgly e per i suoi fratellini lupacchiotti, tali affetti erano inesorabilmente destinati a essere poi rimossi per far posto a nuove relazioni al momento in cui il frugoletto, divenuto bambino, era richiamato al palazzo per assumervi l’identità della sua condizione.

    Questi strappi nel loro mondo affettivo ebbero certamente conseguenze pesanti sulla personalità di generazioni di bambini esposti sistematicamente a tale violenza. Su mio nonno di sicuro, vedi il suo carattere chiuso, il suo mutismo ostinato o il suo ostinato distacco dai familiari. Ma anche su quella degli uomini illustri che fecero e condussero l’Italia nei suoi giovani anni. Tutti loro, in un modo o nell’altro, subirono quel sopruso nella loro infanzia. Gli effetti di tale pratica pesarono indubbiamente sulle loro decisioni e quindi, a più largo raggio, sul nostro destino. Un aspetto questo inesplorato dell’analisi storica, e certamente a ragione; ma che annalisti e psichiatri farebbero bene ad accordarsi a non ignorare.

    Ma non essendo io né l’uno né l’altro, espressa questa ipotesi azzardata sulla storiografia universale, preferisco tornarmene umilmente a mio nonno e alla sua più piccola storia.


    Che Vincenzo e i suoi fratelli abbiano passato a balia i primi due o tre anni della loro esistenza è praticamente sicuro. L’uso era generalizzato e lo subivano tutti quelli i cui genitori potevano permetterselo. Se ciò avveniva era perché, ancora nella prima metà dell’Ottocento, non tutte le nascite erano seguite da un’infanzia, e non tutte le infanzie da un’adolescenza. La mia bisnonna, fortunatamente per lei, iniziò le sue gravidanze dopo il 1847, l’anno in cui gli ostetrici cominciarono a lavarsi le mani prima di entrare in sala parto. Con quel semplice gesto le fatalità per febbri puerperali passarono dal 20 al 5% nel giro di pochi mesi. Ma per quelle malattie che chiamiamo ancora infantili, e che al tempo delle nascite dei fratelli Ragazzi falciavano il 30 se non il 40% dei bambini, i neonati dovettero attendere qualche anno di più perché cambiassero gli usi e perché la scienza ne scoprisse i vaccini. A quell’epoca i bambini nascevano in casa e le epidemie si trasmettevano attraverso i panni di tutto un quartiere, lavati indistintamente al lavatoio dalle lavandaie; dilagavano attraverso l’acqua che le cuoche di un appartamento condividevano con quella di un altro; e si spandevano poi attraverso gli impianti igienici che, almeno per quanto riguardava i domestici di un intero palazzo, erano pochi, lerci e in comune.

    In campagna l’aria e l’acqua erano più sane che nei grossi agglomerati urbani dove il contagio era inevitabile. Le pesti, quelle che raccontano Boccaccio o Manzoni, quando s’inchiodavano le porte della città per impedire agli abitanti di uscirne e diffondere il morbo per il contado, erano finite. Ma c’era la varicella, c’erano il morbillo e la tosse convulsiva, e c’era il vaiolo contro cui si vaccinava da qualche tempo, ma non certo tutti, e non certo i neonati. In conclusione, se non altro per la dispersione della popolazione su un più vasto territorio di quello disponibile per gli inurbati, la sopravvivenza di un poppante in campagna era, se non garantita, almeno statisticamente più probabile che in città.

    A causa delle loro morti precoci, i bambini divenivano membri a parte intera delle famiglie solo dopo che la loro sopravvivenza fosse stata più o meno assicurata dall’aver raggiunto i due o tre anni d’età. Prima di tal evento era inutile investire il proprio affetto su di loro e i padri, spesso, ne ignoravano finanche il nome. Ma un evento come la nascita o la morte di un fratello non è banale, anche se vissuta da lontano, per lettera e a distanza di mesi. Le madri se non altro ne erano straziate, e l’atmosfera in casa doveva essere pesante, almeno fino alla gravidanza successiva.

    Dei miei effimeri prozii, Lodovico e Carlo morirono che avevano meno di un anno, Enrico ne aveva tre e Margherita due. Se contiamo la gemella di Bianca nata morta e rimasta quindi senza nome, i decessi prima dei cinque anni fra i fratelli del nonno furono del 38%. Parliamo di una famiglia abbiente, ben nutrita, probabilmente lavata e strigliata meglio di tante altre e, ciononostante, siamo nella parte più alta e più drammatica della curva statistica pubblicata dovunque.


    Se ho creduto necessario presentare questo quadro è perché Vincenzo visse tutti quei drammi. Aveva due anni alla morte del primo fratellino e diciotto a quella dell’ultima sorellina. Tali avvenimenti non lo lasciarono certo indifferente. Se quindi la sua infanzia si svolse così come l’ho supposta, ed è probabile che così fosse, dovette costruirsi una corazza ben coriacea per proteggersi dall’incalzare di tali frequenti tragedie che lo raggiunsero a balia, in collegio e fino all’Università.

    Vincenzo Ragazzi visse quindi i suoi primi anni con dei fratelli di latte, e da loro imparò un dialetto più stretto di quello che parlavano i suoi genitori. Un dialetto di giochi, di liti, di favole e di affetti che bisognò dimenticare per l’impeccabile italiano che apprese poi a scuola. Ma, nel frattempo, tutto un mondo fantastico gli si era fabbricato in capo, fatto di orchi e di fatine, impregnato di buon senso e di timori, di certezze e di credenze ben lungi dagli intenti moralistici e letterari che perseguivano i fratelli Grimm, Andersen o Mme de Ségur. A differenza dei loro racconti, stilati in un linguaggio tornito per la stampa, le fiabe che ascoltava Vincenzo dalla balia erano un canovaccio proteiforme che cambiava e si arricchiva ogni giorno secondo il sonno e gli umori. Un filo conduttore che, attraverso infinite voci e varianti, legava tutti i casolari di quel borgo con la stessa cultura e con le stesse paure. A differenza dei racconti, con fini didascalici malcelati, le fiabe non hanno altro scopo che addormentare un bambino, i valori di cui sono intrise non ne sono che un sottinteso implicito e scontato. "Sette paia di scarpe ho consumato, di tutto ferro per te ritrovare raccontava la nonna di Carducci, ma tu dormi al mio grido disperato, e il gallo canta e non ti vuoi svegliare". Le favole che impregnarono l’infanzia di quella generazione accompagnarono mio nonno fino alla tomba, anche se poi non fu da tutti il saperle o il volerle tramandare.

    Il peso della componente fantastica nella formazione di mio nonno è importante per capire le sue scelte successive; perché Modena, chiusa nel suo entroterra padano, non era certo la città più adatta a suscitare vocazioni da marinaio. Gli spazi, le aperture, il gran bisogno di libertà, d’indipendenza, e anche di solitudine che caratterizzarono la sua vita, Vincenzo dovette intuirli e contemplarli altrove: in luoghi che intorno a lui non c’erano e che, quindi, dovette intravedere con la fantasia.


    Né con il soggiorno in campagna finirono per lui lo strapazzo psicologico e le angosce inerenti alle separazioni. Conclusa l’infanzia, tagliati i ponti con un intero sistema di affetti e di valori, dopo una breve permanenza in famiglia fra le gonne della mamma, si profilarono al suo orizzonte il convitto e il collegio almeno fino ai sedici o ai diciassette anni, età in cui i migliori studenti delle migliori famiglie entravano all’Università.

    Pensando a quei suoi anni, e all’orso affettuoso che diventò più tardi a causa loro, mi torna in mente il percorso del giovane Montaigne. Certo, tre secoli separano il filosofo da mio nonno ma, mutatis mutandis, le loro prime peripezie dovettero avere molto in comune. Montaigne andò a balia per due anni, restò a casa con un precettore fino a sei e poi via in collegio fino a sedici anni quando entrò all’Università. Conclusione? Nelle tremila pagine dei suoi saggi in cui rivela la sua vita, i suoi pensieri, i suoi svaghi, le sue letture, il fondo del suo animo (e la superficie del suo corpo), non una parola è fatta di sua madre, non una delle sue sorelle, di sua moglie o dei suoi figli. Strano, vero? I leader e i pensatori di una volta si costruivano a questo prezzo. E anche alcuni medici naturalisti. Al lume di un tale percorso affettivo destrutturante, la maniera di essere enigmatica di nonno Vincenzo mi appare oggi, se non proprio giustificata, almeno comprensibile.


    Vincenzo andò a scuola come tutti i ragazzetti del suo ceto e della sua età, e questa fu certamente confessionale perché né il Ducato, né più tardi il giovane Regno d’Italia, avevano ancora inventato la scuola pubblica di Stato. Ciò comunque influenzò poco le sue idee. Modena è rossa oggi e non era certo papalina ai suoi giorni. Gli Estensi si erano battuti per sei secoli contro i vescovi per preservare la loro indipendenza, e certi sentimenti si assorbono con l’aria che si respira. I bigotti sono tuttora rari in casa Ragazzi, o almeno tra quelli che conosco io. Qualche giorno prima di morire in una clinica di Messina, mia madre ricevette la visita di un giovane sacerdote che avrebbe voluto, se non proprio impartirle gli ultimi riti, almeno ascoltarla in confessione. Le chiese se voleva parlare un po’ con lui; e lei gli rispose con un sorriso: «Se le fa piacere…». La cosa lo colpì tanto che, sulla bara di mamma, ce la raccontò in omelia.

    Sul suo letto di morte mio nonno non fu da meno. Si guardò bene dal discutere con un sacerdote. Conversò invece in ispagnolo con Linneo, un signore importante nato in Isvezia centocinquant’anni prima di lui, che aveva una gran fretta di incontrare e a cui, nel suo ultimo delirio, aveva cose più importanti da dire che al Padreterno. Ma anche l’irreligiosità ha i suoi limiti, e li mostra con le più patenti incoerenze. Mamma, che come abbiamo visto era poco acqua benedetta anche lei, raccontava che suo padre non mancava mai di chiederle, passando la sera davanti alla porta della sua stanza, se aveva detto le sue orazioni. Nel dubbio è comprensibile che Vincenzo consigliasse la via meno rischiosa alle persone cui voleva più bene. E Pascal insegna che il dubbio è la miglior scelta in tali situazioni.


    È probabile dunque che dalle elementari fino al liceo Vincenzo frequentasse il Collegio San Carlo che esisteva a Modena sin dal Settecento, che era tenuto dai gesuiti e che era la migliore, se non l’unica, scuola per la gente per bene in città. Il San Carlo ha oggi un ottimo sito Internet, e un gruppo di allievi ha pubblicato in rete una serie d’informazioni pertinenti al periodo che ci interessa. C’è un estratto del regolamento interno con le specificazioni per la divisa, gli orari, la condotta e il comportamento da tenere. Vi sono indicate le passeggiate in città degli allievi, il menù settimanale, e persino i nomi delle fattorie da cui provenivano i cibi per il refettorio. Sono indicate le libere uscite e la lunga lista delle punizioni da infliggere ai convittori. Nessuna di queste è corporale, tranne gli schiaffi, banali tanto da non essere neppure menzionati. Ma questi erano moneta corrente quando dai gesuiti ci andavo io, figuriamoci quel che dovevano essere cento anni prima. Di romanzi o di film che trattano di quell’epoca, e in cui si scoprono lunghe teorie di scolari tutti rapati a zero, tutti vestiti uguali, che traversano la città due per due, se ne trovano a iosa.

    Turbolenti l’uno più dell’altro, si scambiano occhiate complici e, profittando della momentanea disattenzione dei prefetti, gli immancabili cazzotti. Per non parlare delle zuffe nei dormitori o durante la ricreazione; noi che andammo a scuola dai preti negli anni Cinquanta tutto ciò lo abbiamo visto e vissuto.

    Ma scoprire che uno di quei birichini era il proprio padre o il proprio nonno è un’altra cosa. Come il rendersi conto che, quando l’uno o l’altro fece questo o quello, era tanto più giovane di noi. Le generazioni che ci precedono hanno un posto preciso nella gerarchia dei Lari, e nella sequenza degli avvenimenti familiari che è affidata loro dal tempo. Spostarli dal tabernacolo in cui li ha collocati la loro assenza per figurarceli in una vita contemporanea e paragonabile alla nostra è un’esperienza destabilizzante, ma anche pregna di tenerezza e di profonde emozioni. Mio nonno si comportava dunque come quello scavezzacollo del mio nipotino! E io? Che ci faccio lì in mezzo, serio e compunto come un caporale sull’attenti? Eppure il filo che li lega l’uno all’altro passa proprio attraverso di me. Strano, vero? Dà da riflettere sull’alternanza, o la continuità, dei caratteri col susseguirsi delle generazioni.


    Anche se non allo stesso modo, al San Carlo mio nonno studiò più o meno quello che studiammo nelle nostre scuole noi che ne uscimmo prima delle grandi riforme post-sessantottine. Papà raccontava che, in una specie di doposcuola cavaiola che frequentava lui, gli scolari prima di uscire di classe alla fine della giornata, dovevano recitare a memoria una lunga filastrocca impasticciata in cui c’era di tutto. Dalle tabelline alle oche del Campidoglio, dalle grandi capitali europee ai principi del Galateo. È facile sorridere di tali metodi oggi. Fatto sta che da quelle scuole uscì gente di prim’ordine che conosceva il latino, il greco, le scienze fisiche e naturali, la religione, la storia, la geografia e le belle arti meglio di noi. E uno di questi fu certamente Vincenzo Ragazzi. Oltre che sui classici e sulla filosofia, i gesuiti mettevano l’accento sulle lingue straniere, cosa che ho riscontrato con sorpresa fra le letture del nonno. Il francese, certo, ma anche l’inglese e il tedesco, che Vincenzo leggeva probabilmente senza parlarli, e lo spagnolo che però imparò più tardi durante la sua permanenza in America Latina.

    Fu quindi al liceo, dopo il preambolo sperimentale impostogli dalla sua infanzia a balia in campagna, che Vincenzo entrò in contatto per la prima volta con la zoologia e la botanica e, forse, con la mineralogia. Certo tali scienze, insegnate in Capitolo, non erano quelle che impariamo noi oggi, e non solo per ragioni teologiche o confessionali. Wegener nacque mentre mio nonno era a scuola e la sua Deriva dei Continenti era ancora di là da venire. I piselli di Mendel non fiorirono che all’inizio del Novecento, trent’anni dopo la morte del padre della genetica. Le osservazioni di Darwin sulla fauna delle Galàpagos, all’epoca di cui parliamo, non avevano ancora convinto nessuno. Anche se il terreno cominciava ormai a bruciare loro sotto i piedi, sulle Scienze Naturali regnavano ancora Linneo e Couvier, due giganti certo, ma le cui ipotesi cominciavano ad essere stantie e la cui prosa non era certo tale da infiammare la curiosità e le ambizioni di un adolescente.


    La mia ipotesi è quindi che, fortuna volle, a scuola mio nonno incontrasse un insegnante che leggeva dei libri che non avrebbe dovuto neppure guardare, e che costui, mosso dall’intelligenza e dal desiderio di apprendere del suo discepolo, lo chiamasse in disparte e gli aprisse gli occhi sulle verità che ottusamente gli nascondevano l’Indice e il Padre Rettore. Vincenzo lo ascoltò sbalordito e, giorno dopo giorno, lo seguì in un mondo i cui segreti lo avrebbero poi affascinato per tutta la vita.

    Che cosa sarebbe ognuno di noi senza quei maestri goffi e mal pagati che il destino pose almeno una volta sulla nostra strada? Bassi o spilungoni, grassi o magri come chiodi, s’inceppavano sui loro intercalari infervorandosi nel discorso al punto da apparire ridicoli nelle spiegazioni. Noi sorridevamo compiacenti, ma li ascoltavamo inchiodati al banco dal loro entusiasmo. Il loro discorso ci affascinava e ci allargava il cervello con panorami che non avremmo mai immaginato. Quella che capitò a me si chiamava Bianca Staro. Era bassa, tracagnotta, e aveva i capelli biondi spartiti da una scriminatura nera come il carbone che si allargava di giorno in giorno fino a quello in cui il suo stipendio le permetteva di tornare dal parrucchiere. Una data che noi presentivamo ridacchiando, e scommettendo sulla larghezza della banda oscura. Quel giorno lei arrivava sorridente, felice della tintura, e le sue lezioni erano una cannonata. Fu lei a insegnarmi ad amare Dante; e, dei miei tanti professori, è l’unica di cui sento ancora la voce.


    «La terra avrebbe solo seimila anni? Com’è possibile, Vincenzo?» gli chiedeva il maestro. «Sì, seimila anni! E tu vuoi fare le montagne in seimila anni? Se fosse vero, le Alpi sarebbero state delle colline quando due millenni fa ci passò Annibale con gli elefanti».

    A questo Vincenzo non aveva proprio pensato. Poi continuava: «Dio ha creato il mondo e il tempo come e quando ha voluto Lui. Separò luce e tenebre il primo giorno, ma il sole lo fece il quarto. Come fai a sapere quanto durarono i primi tre giorni se il sole non c’era ancora?».

    Che fosse possibile credere in Dio e infischiarsene del Papa i modenesi lo avevano capito sin dai tempi dei Guelfi e Ghibellini e delle loro lotte per il Ducato. Ma che un prete si esprimesse così sfacciatamente contro i dettami del Vicario di Cristo non la saltavano i cavalli. Mio nonno dovette ascoltare quei discorsi con i suoi grandi occhi spalancati domandandosi se credere a quei preti che durante gli Esercizi Spirituali gli affollavano il capo di inconfutabili dogmi; o a questo precettore che, vestito come i primi e con la stessa chierica dietro la zucca, gli insegnava invece a dubitare di tutto e a cercarsi da solo le sue risposte e le sue soluzioni.

    Da lui imparò che le pietre hanno una storia che si legge spaccandole col martello lungo le linee di sfaldatura; che gli animali e le piante hanno dei nomi in latino, e che la differenza fra il corpo di un ragno e quello di una mosca è più grande di quella fra il suo e quello di una balena. Scoprì un numero infinito d’insetti, non solo quelli che si trovano in casa o in giardino, ma tutti quelli che si annidano nei boschi, che bisogna scovare la notte nei pantani col lumicino, o estrarre dai loro buchi sotto la corteccia degli alberi imputriditi. Apprese a osservarli, a disegnarli, e a distinguerne le caratteristiche significative. Alcuni avevano due ali, altri quattro. Quelle di alcuni erano tozze, spesse, nascoste sotto una corazza; quelle di altri erano grandi, fragili e iridate. Ma non tutti volavano in un gioco di grazia e di colori. Molti, inchiodati al suolo, si trascinavano nel fango sulle loro orribili zampette trasportando carichi infinitamente più pesanti di loro. Anche fra i mammiferi ce n’erano con le ali; anche fra i pesci. E fra gli uccelli ce n’erano di così goffi che non riuscivano a staccarsi dal suolo. «Il volo è una funzione, non una caratteristica anatomica» insegnava il maestro. Che strano! Che strano che fosse così.

    Da sempre i religiosi contribuirono alla scienza. Ruggero Bacone fu un monaco, Copernico un canonico, Mendel un sacerdote, Avogadro un teologo e così tanti altri naturalisti prima e dopo di loro. Questo perché, per lungo tempo, costoro furono i soli a saper leggere e scrivere, e perché l’osservazione della natura coincideva con quella del Creato, il che naturalmente non dispiaceva alla Chiesa. Sempre che ciò non portasse a conclusioni da evitare. Infatti, quanto all’interpretazione dei testi, la Santa Sede restava inflessibile. L’evoluzione, la stratigrafia e la genetica videro il giorno in quegli anni, ma rimasero tutte lettera morta per la chiesa, e i loro propugnatori dei ciarlatani. La Bibbia era la sola fonte di conoscenza. Era la parola di Dio, e Dio ne sapeva più di tutti i dottoroni.


    Così, e contro le nuove dottrine, si formò una corrente di teologi che, attenendosi ai Sacri Scritti, rifiutava di sentir ragione. John Lightfoot, un vescovo inglese del Seicento, sommando le età dei patriarchi, calcolò, Dio solo sa come,

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