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Vicende di un imbianchino devoto
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E-book188 pagine2 ore

Vicende di un imbianchino devoto

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Info su questo ebook

Raccontata da un narratore esterno, la storia di Simon Esperalago, per tutti Espè, è l’emblema della voglia di riscatto sociale. Figlio di un pescatore, Giacinto, e di Duna,  donna dal carattere duro e intransigente, il ragazzo studia il necessario e poi inizia a lavorare per mare con il padre. Ma è bravo con i pennelli, dipinge le conchiglie, e inizia così a lavorare con Manuel, l’imbianchino del paese che lo porta in giro per tutta la costa catalana. Esperalago, lontano dall’odore di pesce, in un certo modo si rigenera. Dopo tanti anni di lavoro, di esperienze e incontri in giro per la Spagna e per l’Africa, prima con Manuel poi da solo, Espè tornerà nella sua Ametilla. Ora Espè ha una sua posizione e sicurezza economica e chissà che anche Consuelo, così umiliata in passato, non voglia perdonarlo!
Una storia semplice ma disincantata, pervasa di sano ottimismo.

Stefano Pardini è nato a Pisa nel 1972. Vive e lavora in Emilia Romagna con la sua famiglia. Si occupa di progettazione di attrezzature e macchinari ed è interessato al cinema, allo sport e al teatro. Coltiva con entusiasmo alcuni vizi (tutti legali), e ama molto scherzare, anche se si dichiara fondamentalmente una persona seria.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679023
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    Vicende di un imbianchino devoto - Stefano Pardini

    Copertina-LQ.jpg

    Stefano Pardini

    Vicende di un imbianchino devoto

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7274-1

    I edizione gennaio 2023

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    In copertina: Maternità su conchiglia. Autrice: Narcisa Pachera

    Vicende di un imbianchino devoto

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Introduzione

    Nessuna forma espressiva come il romanzo conferma che sì, la letteratura parla del mondo e lo fa nominandolo in profondità per tutti. Ogni romanzo non è mai una macchina autoreferenziale, ingolfata nella sua sontuosa menzogna narrativa. Al contrario, tra i generi letterari che hanno attraversato la storia, il romanzo è la perfetta Araba Fenice che rinasce ad ogni generazione, disinnescando ogni periodica crisi o morte dell’arte. Laddove altri generi si esauriscono e diventano gusci vuoti, il romanzo prospera, da più di quattro secoli, nelle sue infinite reincarnazioni, tante quante sono i romanzieri di talento. Questa sbrigliata vitalità senza regole affonda le sue radici nell’assenza di un dna antico che lavora a cristallizzare e codificare delle norme, e che, di conseguenza, fa del romanzo un mezzo senza carta di identità fissa, un contenitore duttilissimo e onnivoro che trova il suo punto di forza nelle leggi artistiche che ogni romanziere fonda e fissa con piglio prassistico, attraverso la stesura della sua opera. In questo senso, le Vicende di un imbianchino devoto di Stefano Pardini partecipa di questa lunga tradizione di libertà, dove lo spaccato di vita che si intende raccontare diventa subito visione e stile unificati. Il romanzo di formazione del giovane Esperalargo, perno dell’architettura complessiva del libro, proviene dalla migliore tradizione di una collaudata utensileria romanzesca: in esso trapela il vertiginoso spazio d’avventura del cosmo picaresco, e, insieme, il racconto delle tappe di crescita e di educazione sentimentale del personaggio, che fanno del protagonista un novello Don Chisciotte trasportato per le vie della Spagna dalla progressiva conquista del suo talento artistico incline alla seduzione della pittura. L’autore fa muovere il suo giovane personaggio in una geografia lussureggiante, dove ogni luogo segna una conquista sul versante della vita e della rivelazione di un talento latente, a partire dall’amata e rimpianta Ametilla e dal binomio antico maestro/allievo, incarnato dalla coppia Manuel/Esperalargo, ossia due generazioni che si danno la mano e che, nello snodarsi dell’intreccio champagnino, diventerà la sinergia triangolare Esteban/Esperalargo/Consuelo. Ciò che Pardini racconta, con la grazia e la leggerezza di un cronista di eroi e di saghe familiari, è la nascita di una vocazione artistica in seno al mondo operaio, in un passaggio simbolico dall’imbiancatura alla pittura vissuto in uno scorcio d’epoca di metà Ottocento, attraverso una geografia molteplice di luoghi e di commissioni, attorno ai quali formicolano una miriade di personaggi tratteggiati con abile, quasi corsiva e spadaccina verve ritrattistica, come le iconiche figure del signor Rubio, del mercante Raoul, di Farida. Il temperamento prismatico di Esperalargo innesca d’acchito un patto empatico con il lettore, fin quasi all’identificazione con il personaggio, garanzia della sua tenuta sulla pagina. Attraverso l’iter rocambolesco di Espè, frescante alla ricerca della sua definitiva vocazione, affiorano ekphraseis di opere d’arte figurative (affreschi, commissioni, prove pittoriche, dettagli iconici, squarci paesistici, ritratti) che Pardini, costruendo l’immaginario visivo del suo personaggio, allestisce con callida e seduttiva capacità di suscitare nel lettore il piacere del visivo, indugiando nella descrizione di linee e colori. È questo il filo rosso più robusto del romanzo, la bussola che dà senso al muoversi del personaggio nel suo lembo screziato di città e di fauna umana. Non meno cruciale è il motivo della creazione della conchiglia che conferisce al disegno dell’opera un’uniforme struttura circolare e genera, sottopelle al testo, un palpito fiabesco. Una verità su tutte ci insegna Vicende di un imbianchino devoto: che i sentimenti - il grande telaio di amore, odio, amicizia, gelosia, tristezza, malinconia - sono sempre complessi e, talvolta, insondabili. Che l’animo umano può essere incoerente, contraddittorio, mobile, evolversi in un modo o in un altro. Che il talento nasce spesso dal basso, laddove la luce dell’intelligenza artistica sembra non trovare asilo o radice. E tutto questo, da lettori, dovrebbe renderci in qualche modo più comprensivi nei confronti degli altri, avere una visione più ampia e sfaccettata dei rapporti umani. La lezione della poetica di Pardini è di renderci più comprensivi anche nei confronti di noi stessi se non rispondiamo agli stereotipi che la società impone. La vicenda di Esperalargo, questo seducente picaro-pittore in costante evoluzione, ci insegna che l’educazione sentimentale ha bisogno sempre di qualche romanzo.

    Davide Pugnana

    ******

    Mi chiamo Herberto Lazaro Velasco, di professione medico, originario di Alcañiz.

    Non mi faccio un vanto di essere medico, ma la gente mi ha sempre identificato col mestiere che faccio, dunque lo preciso sempre; se non altro perché ho la certezza assoluta di avere degli omonimi.

    E pensare che, quando ero giovane, non avevo in programma di fare della medicina una professione; in realtà non avevo progetti, all’infuori che divertirmi. Ma questo direi che non è condannabile, quando si è giovani. In casa mia, in compenso, c’era chi faceva dei programmi su di me; ero destinato a condurre l’azienda di famiglia. In parole povere: occuparmi di agricoltura durante il giorno e di contabilità quando gli altri andavano a letto; come quel povero diavolo di mio padre, e prima di lui mio nonno, e più indietro ancora, chissà per quante generazioni, nel perpetuarsi di queste condanne terrene che ricadono di padre in figlio, e che qualche idiota chiama tradizioni di famiglia.

    Non faceva al caso mio, questo era chiaro. Ho avuto la forza di spezzare la catena, però; questa forza ce l’ho avuta. Tuttavia la mia ribellione giovanile si è risolta nel rifiutare la vita che qualcuno aveva deciso per me, ma soltanto per impiccarmi poi con una corda che ho intrecciato da solo, visto che ho trascorso un’intera esistenza svolgendo la professione di medico senza trovarvi un genuino interesse.

    A mio parziale discarico posso dire questo: se ho commesso dei peccati davanti a Dio, senz’altro non ho commesso quello di lasciar morire i semi del talento che ognuno riceve in dote.

    Io, di talenti, ritengo di non averne mai posseduti, molto semplicemente.

    Ho forse avuto più abilità nell’occuparmi della vita degli altri piuttosto che della mia, e con un simile intendimento fare il medico sembrerebbe una scelta molto pertinente... Ma volevo precisare una cosa diversa, senza essere frainteso: occuparmi degli altri per me significa curiosare nelle loro vite. Diciamo che se sono stato un attore svogliato posso dire di essere stato, per lo meno, uno spettatore attento.

    Alla mia età è normale tornare col ricordo alle persone e alle vicende di cui si conserva la memoria; in realtà, questa tendenza a raccogliere i ricordi delle persone ce l’ho sempre avuta, anche da giovane. La gente si lascia avvicinare da me quando è in animo di raccontare la propria storia. Credo che con un medico, come accade con un sacerdote oppure con un avvocato, la gente abbia meno timore di mettersi a nudo. Fa parte del ruolo, credo. Comunque: se trovo interessante la storia e ricevo il permesso di farlo, la scrivo. Sennò la tengo per me.

    Ho appena mentito: se è bella da raccontare la racconto in ogni caso; questo istinto supera le mie riserve. Non sono -come si usa dire- una tomba. Mai stato affidabile per custodire segreti e confidenze quindi, salvo espresso divieto e dichiarata minaccia, scrivo. Al massimo camuffo un po’ i nomi: alla mia età non voglio problemi seri, né con gli uomini, né con la legge. Diciamo che il segreto professionale lo custodisco col massimo scrupolo nella veste di medico, ma una volta indossato il cappello del cronista mi faccio beffe della discrezione.

    Qui ad Ametilla si sta bene. Il mare è una benedizione, l’aria è dolce anche in inverno. Se non era per la mia adorata e compianta Odette non ci sarei mai venuto.

    Invece lei volle conoscere il santuario della scogliera. Mi pregò a lungo di comprare una casa qui. Poi, non contenta, pretese di passarci tutto l’inverno, perché trovava giovamento per i suoi dolori alle ossa.

    E io che facevo? Sono rimasto incastrato a lavorare, gratis, per questo benefattore del posto; un eccentrico, che non manca di tartassare tutti i dottori che passano da queste parti. Ma devo dire che non sono mai stato felice come adesso, sopratutto ora che sono rimasto solo.

    Per questo ho aperto un giornale locale. Una cosa piccola, una pubblicazione mensile. Quattrocento copie di tiratura, pochi fogli. Faccio tutto io, con un cieco del paese che mi aiuta come riesce e un ragazzino che fa le consegne, il figlio più giovane del benefattore.

    Paga lui, il Signor Vidal: io ci metto il mio tempo e raccolgo le storie e le testimonianze, i racconti. Ne ho imparate molte di cose su questo paese, sulla gente.

    E adesso racconto la storia di questo signore, che sia di monito a chi non crede nella possibilità di nascere anatra e morire cigno.

    Questa storia ebbe inizio proprio ad Ametilla. Immaginate questo paesino sulla costa fra Valencia e Tarragona, dotato di un porticciolo fortificato ed una antica torre saracena.

    Ormai nessuno combatte più da tempo ad Ametilla, né per mare, né per terra. L’unica flotta presente è quella dei pescatori. Alcuni, più intraprendenti degli altri, organizzano da qualche anno, nei periodi di magra, lunghe gite in barca fino alle foci dell’Ebro, su a nord, per condurre a pesca lungo la costa oppure a caccia nel delta del fiume alcuni facoltosi turisti inglesi, francesi, tedeschi e persino dei ricchi madrileni in cerca di avventura.

    La famiglia Martìn, storica sfornatrice di pazzi, propone addirittura la tratta fino a Maiorca con la propria barca a vela, in alternativa ai più comodi servizi di traghetto da Valencia. Incredibilmente qualche svitato, cinque o sei volte l’anno, si presenta pieno di ardore romantico e spirito marinaro e paga per farsi scorrazzare sullo scomodo natante fino alle isole e ritorno. Anche mio cognato l’ha fatto. Io ho detto di no: sono un animale terrestre, convintamente terrestre.

    Torniamo al protagonista della vicenda: una specie di sperimentatore del Rinascimento italiano nato nel tempo sbagliato e nel posto più improbabile, e forse per questo ancora più singolare.

    Oggi che gli artisti si fanno un vanto di sbrigare delle chiazze di colore nel giro di mezz’ora, per congelare -a detta loro- una impressione di luce particolare o una tonalità del cielo, c’è ancora qualcuno che si ostina nei dettagli e nella verosimiglianza, come un pittore fiammingo di trecento anni fa. E lo fa con l’entusiasmo della scoperta, come un bambino, anche se tutto è già stato scoperto da tempo, in questo senso.

    Questo uomo appartiene per attitudine e mentalità al passato, anche se è vivo e vegeto e ci litigo spesso.

    Prima di proseguire col racconto ci tengo a dichiarare nei miei intenti che cercherò di marcare il confine che separa la narrazione dei testimoni diretti da quelle situazioni che si reggono su pochi particolari recuperati dal passato.

    Da parte mia ho sempre avuto scarsa attitudine nel raccontare storie di pura invenzione; mi riesce più facile riportare

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