Polittico del cinghiale mistico-libro 1 feticcio 2020
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Anteprima del libro
Polittico del cinghiale mistico-libro 1 feticcio 2020 - Scano Augusto
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Ottocento
1 Gli umani vogliono credere ad assurdità quali l’astrologia, il destino, l’omeopatia e dio¹. Non prestano invece fede alle verità come i fantasmi, le streghe, i vampiri ed i mostri. Quanto sto per dirti è accaduto davvero. Arrivato fin qui non saprei a chi altri confidarlo. Mi auguro di non guastare la tua felicità. Attento alla felicità, te l’ho già detto, la felicità è peggiore dell’eroina. Potresti non riuscire più a farne a meno. E se costretto a smetterla, dovresti attraversare sterminato dolore e deserti di umiliazione. Comunque: alcuni di questi fatti li avrai pur sentiti raccontare, ma non come realmente hanno avuto svolgimento. Hai sempre voluto conoscere il mio passato. Ebbene, eccolo.
2 Io, al pari di gente meno significativa ma più famosa, posso dire di essere stato generato e di non essere stato creato, posso giurare di essere della stessa sostanza di mio padre. Mio padre è stato Godwin. William Godwin non era il santo filosofo del pensiero che viene oggi celebrato. Era un virtuoso, per molti versi sì, lo era. Però possedeva un vizio. Un unico vizio. Ne basta uno per devastarti l’esistenza. Era un giocatore. Perdeva molto, come quasi tutti i giocatori. E per pagare i suoi debiti, per risarcire i suoi strozzini, ha compiuto nefandezze imperdonabili.
3 Sua moglie Mary morì dopo aver messo al mondo una bambina. Mio padre² diede alla mia sorellastra lo stesso nome dell’amata perduta. L’aveva perduta, sì, eccome. Però non si rassegnò al lutto. E non provò a superarlo. Prese gli occhi della moglie e li conservò in un’ampolla di soluzione. Ci galleggiavano dentro, come pesci irresoluti. Riuscì a conservare la parte destra dell’encefalo e quel poco che era rimasto della parte sinistra. Il ghiaccio in cui aveva posto l’intero cervello per pochi minuti prima del travaso in un altro contenitore di soluzione, non era infatti servito a tenere lontani i ratti che avevano banchettato. Ma a lui questa aberrazione non bastava ancora. Proprio perché era un giocatore disgraziato, non si accontentò di non saper accettare la perdita. Non volle smettere di giocare a quel gioco. Ci riprovò. Decise di riportare in vita il suo amore morto.
4 Willy (così erano soliti appellarlo i suoi amici ed io farò finta di essere uno di loro) aveva iniziato a frequentare un tale conosciuto in una bisca di lusso, nei sotterranei di Baker Street. Quel tipo parlava un francese dal forte accento tedesco. Diceva di chiamarsi Franz Anton Moreau. Era un chirurgo, appassionato di elettricità e di pittura. Aveva viaggiato molto, qualcuno mormorava, anche su navi negriere. Aveva vissuto alle Antille, qualcun altro rincarava la dose di sospetto, imparando e praticando la magia nera. Non poche malelingue insinuavano persino che fosse un ebreo. Non sai quanto antisemitismo fosse ancora diffuso in Europa in quell’inizio del XIX secolo. L’antisemitismo è un virus dormiente nel sangue del cristianesimo. Basta uno stronzo qualsiasi e l’ignoranza di molti vili per risvegliarlo. Come fanno sempre, quasi alla metà del Novecento, rimasero solo i tedeschi a crederci davvero. Perennemente in ritardo sulla storia, sempre per ultimi e sempre ossessivi, patologici, sciagurati in pregiudizi ormai superati da tutti gli altri. I tedeschi³, capaci di insistere, nonostante Napoleone, con la boutade di un sacro romano impero, addirittura fino alla fine della prima guerra mondiale… Ma ti stavo dicendo del dottor Moreau. Qualcuno più perfido tra quei maldicenti, oltre a sostenere che il cognome dell’uomo fosse in realtà Stein, aggiungeva anche che il medico fosse stato espulso dalla comunità ebraica del suo paese. La cherem sembrava averlo colpito, come era successo a Spinoza, quasi due secoli prima.
5 Il dottor Moreau dava prova, per pochi intimi facoltosi, di cadaveri che riconsegnava ad una vita momentanea a mezzo di scosse elettriche. Non solo i cadaveri per brevi eppure, ti garantisco, lunghissimi secondi si muovevano, ben al di là dei sussulti causati alle rane, ma, seppure raramente, parlavano. Poche parole. Molto sconnesse. Sgrammaticate, con una sintassi approssimativa ed un periodare sciatto e ricco soltanto di luoghi comuni, intrisi di bigottismo. Tu che sei un figlio del XXI secolo, almeno del loro modo di discorrere, non ti saresti stupito.
6 Per pagare le prestazioni del dottor Moreau mio padre si indebitò ancora più profondamente. Il tragitto notturno del carro dello scienziato dalle camere mortuarie degli ospedali dei sobborghi fino al laboratorio allestito nelle cantine della libreria di mio padre, durò per quasi una settimana. In quei sette giorni, con la complicità strapagata dei becchini, prelevarono una dozzina di cadaveri di donne dagli obitori. Dall’assemblaggio di quelle carcasse Moreau cucì un corpo e riuscì ad accendere in questo una vita, seppure provvisoria. Ma quale non lo è? La derelitta doveva essere ricaricata d’elettricità almeno una volta ogni trentasei ore. Altrimenti si sarebbe spenta. Ed i suoi tessuti avrebbero ripreso a marcire. Unica alternativa che le avrebbe concesso una maggiore autonomia sarebbe stata la pila elettrica, ma mancavano ancora quasi due anni a che Volta la inventasse. E sarebbe stato comunque un bell’ingombro da portare sulle spalle o inserito quale ospite osceno in uno degli orifizi disponibili. Per il resto la donna sembrava essere allegra. Era viva, in qualche modo. Mio padre la adorava. Con dell’acqua benedetta, rubata nella vicina cattedrale di san Paolo, la battezzò, la nomò Wolly. Della sua moglie defunta quella creatura aveva solamente gli occhi, l’emisfero destro del cervello e l’esigua poltiglia restante del sinistro. Era nata già adulta. E però ragionava come una bambina e, talvolta, come una vecchia, appena un po’ rimbambita. Era di una bellezza sontuosa. Ma le suture con cui era stata rappezzata rimanevano di empia evidenza, specie sul viso e sul collo esilarati dalle scollature degli abiti della defunta signora Godwin che Willy le faceva indossare⁴. Era prigioniera delle grotte sotto gli appartamenti di mio padre. Non emergeva mai da quelle profondità. Willy non voleva correre il rischio che qualcuno potesse vederla. Le portava lui stesso qualunque cosa le occorresse, soprattutto cibo e libri. No, non era come capita oggi alla maggiore parte dei tuoi contemporanei, innamorata dell’idea di libro e non preoccupata del suo contenuto. Non era infatuata superficialmente di un posa stereotipata, banalissima che ciarla e smozzica, con fare inconsapevolmente blasfemo e senza connessione, frammenti di una poesia e di un’arte che non disturbi troppo il pensare rachitico ed i sospiri pieni di paura per la vita. Feticisti non come un sincero selvaggio. Feticisti come uno stupido moderno superstizioso. Meglio allora amare un piede. Wolly aveva piedi magnifici, perfetti.
No. Lei nei libri cercava qualcosa. Non le interessava lo scrigno. La concupiva il tesoro. Non si distraeva, non si dilettava. Lei lavorava mettendo insieme i pezzi di quel sapere sparso, disseminato qua e là senza apparente logica, proprio al medesimo modo in cui pezzi diversi di persone dissimili e defunte avevano composto il suo corpo e le avevano donato una così strana vita.
7 Forse perché costruita con materia morta, Wolly non aveva necessità di dormire. Restava per ore, durante il sonno degli altri, laggiù a riflettere e a studiare e a praticare le arrampicate pericolose del pensiero, in attesa che il mondo si risvegliasse. Di mangiare, invece, non era mai sazia. Era tormentata da un appetito famelico. Ma non ingrassava. Del resto le sue funzioni di malattia, di invecchiamento e di usura in genere erano come congelate. Mio padre portava giù cassette intere di carne che lei preferiva cruda. Era altrettanto vorace di sesso ed estenuava il povero Willy. Questo faticava, spesso senza riuscire, nel darle la soddisfazione pretesa. Da uno di quegli schizzi fui concepito io.
8 La notte di Capodanno del 1802, la mia sorellastra Mary, portata per mano da Willy, scese le scale e venne ad augurare a me e a mia madre un felice anno nuovo. Era una bimba dolcissima⁵. Ne ricordo la generosità nel farmi dono dei suoi giocattoli più belli. Aveva una malinconia sublime nello sguardo. L’opacità struggente che è stata propria all’universo nelle prime centinaia di migliaia d’anni. Il velo di un senso di colpa, più o meno conscio. Partorendola sua madre era morta. E lei questo, sebbene pargoletta, lo aveva però già capito. Mio padre dopo poco si addormentò accanto alla minuscola stufa che tentava di riscaldare il gelo del sotterraneo. La grotta che io e Wolly chiamavamo casa. Presto cedetti e il sonno prese anche me. Perché se ereditai dalla mia genitrice una straordinaria longevità, per la quale sono imbalsamato in questa perenne adolescenza, immune ai malanni comuni e alle ferite più gravi, e in grazia di cui ho finora evitato di avvicinarmi alla morte, cionondimeno ho sempre abbisognato di un paio d’ore al giorno di riposo. Un biascicare liquido s’insinuò nel mio sogno dove ero il capitano di un brigantino nel mezzo di una tempesta e la mia cabina era sconquassata dal vento e frustata dalle onde… il potere della letteratura, le letture cui ero obbligato da quella vita catacombale… simile all’acqua quando trasparente s’insinua tra le assi di una parete prima di sfondarla. Era il rugumare delle mascelle. Mi ridestai. Vidi mia madre, Vidi Wolly. Vidi quel mostro che stava mangiando la piccola Mary. Mi sorrise, dolce, materna, come al suo solito. La carne ed il sangue della mia sorellastra morta le traboccavano in mezzo ai denti. Forse tra quelle zanne c’era anche il diavolo, forse persino il romanticismo, ma io non vidi né l’uno né l’altro. La morte quella sì, la vidi. Wolly era serena come lo è un leone o qualsiasi altra fiera che si nutra senza alcuna intenzione di malvagità, né insensato rimorso. Fu uno dei rari e preziosi momenti in cui l’esistenza, sempre tanto avara di significato, ci dona, per una distrazione da ubriaco, l’abbaglio di una consapevolezza. Così fu infatti che io compresi la differenza tra un dantista ed un dentista⁶. Di fatto salvai un unico dentino sanguinolento e da latte della miserrima Mary. Lo riposi nel sacchetto di pelle, confezionato con gli scarti di quella dei cadaveri usati per fabbricare mia madre e donatomi da mio padre perché fosse il mio amuleto; il medesimo che portai a lungo, con un budello ritorto a far da collana, appeso al collo. Quivi, scroto atto a sostenere i testicoli della mia spiritualità, avevo già