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Parole di pietra: Nel deserto delle passioni
Parole di pietra: Nel deserto delle passioni
Parole di pietra: Nel deserto delle passioni
E-book504 pagine8 ore

Parole di pietra: Nel deserto delle passioni

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Info su questo ebook

'Parole di pietra' è il primo degli otto volumi già scritti e pronti per la stampa. Un polpettone, come nell'800 se ne scrivevano a puntate ad uso dei giornali, con amori strazianti, passioni, vita, morte. Ma in queste pagine si mescola al sogno, alla conoscenza e alla interpretazione del sé. Un tuffo nella propria interiorità inserita nel gioco della storia degli ultimi 300 anni. "Solo per coloro che non temono di guardare in faccia la vita, di vedere gli angoli scuri che si celano dietro le belle facciate ridipinte e conoscere le infamie, le bassezze e le meschinità quotidiane compiute per apparire ciò che non siamo... impegno del tutto inutile ciascuno di noi sa benissimo chi è e cosa fa." Tutto vero? Tutto inventato? Nessuno può dirlo e, comunque, la sostanza non cambia!
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2021
ISBN9791220337557
Parole di pietra: Nel deserto delle passioni

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    Anteprima del libro

    Parole di pietra - Franco Piri Focardi

    stesso

    Vestibolo

    La serata era tiepida, avevo una caterva di panni da stirare, e con la flemma dei giorni fertili mi son messa al lavoro: piega spruzza stira. In mezzo ai libri dall’altra parte della tavola sotto un mucchio di capelli biondi mossi dalla sua mano, Clizia è lì che studia. Lei è il mio splendore, un’emozione continua. Bella, brava, generosa. Chiudo gli occhi aspiro il vapore che sale dal ferro e volo, un tuffo in mezzo al cielo lungo il sentiero delle stelle! Oh sì, quando sono ispirata vedo le parole e sento il loro peso.

    Ogni volta che poso lo sguardo su Clizia rimango rapita, non riesco ancora a separarla dai tonfi notturni, dal suo agitarsi nella pancia, dalle mie ansie, dai miei sogni: l'ho vista abbandonare le buffe movenze di bambina, assumere l’aspetto di una donna, in un’alternanza continua fra queste e quelle. A volte, come adesso, mi sento libera di sognare il suo futuro, la vedo tagliare l'aria col suo passo preciso e deciso; vivere la vita col cuore aperto e sincero, affrontare e spostare gli ostacoli con le sue mani: sorrido: m'immagino sentinella serena camminare al suo fianco.

    Ma se Clizia, in quei rari momenti di mia rapita contemplazione, alza i suoi occhi per guardarmi, i miei pensieri si fermano, s'intorbidano ed io m’incupisco sprofondando nella palude del non detto, soffocata dalla colpa. Devo reagire immediatamente, trovare un appiglio a cui aggrapparmi per risalire la china, per non precipitare in quell’abisso di depressione silenziosa che mi costringe ai salti mortali per non far trapelare la mia intima desolazione, ad inventarmi sorrisi, domande spiazzanti, impegni improbabili, battute ridicole, bugie assurde. Qualsiasi cosa, fosse pure uno svenimento, un malore, pur di non farmi guardare dentro!

    In quei momenti, lo so, perdo il controllo delle mie emozioni, divento trasparente e nella trasparenza è possibile leggere anche quello che non voglio; quello che deve rimanere assolutamente segreto; quello che nella mia anima impastata morde con denti aguzzi. La sola idea che Clizia possa intuire qualcosa mi fa tremare, preferirei scomparire dalla faccia della terra...

    Eccole! Arrivano! Premono per entrare, non posso farci niente. Le immagini prepotenti mi catturano... stanno lì da sempre, appostate, hanno armi micidiali precise al centesimo di millimetro, cecchini computerizzati in attesa del momento giusto... un mirino laser e, pum! mi colpiscono e cado. Ma non cado subito di stonfo, no!... è una caduta continua, una caduta illimitata, frazionata in una serie di fotogrammi irregolari, sequenze prive di un tempo prefissato. Poi, zac! un fermo immagine blocca una scena vissuta. Attratta dal ricordo rivivo ogni singola emozione in modo così intenso da perdere il contatto con la realtà: se qualcuno mi incontrasse ora mi crederebbe pazza: forse lo sono.

    I luoghi si animano ed io mi muovo al loro interno. Le persone mi sembrano lì, vive, in relazione con me ed io ci parlo. È incredibile ma io cammino dentro me stessa nel paesaggio che si apre dentro di me, un pozzo che si spalanca al suo interno. Un pozzo senza fondo, a tratti oscuro e tenebroso, a tratti luminoso di una luce abbagliante. Quel pozzo sono io! È la mia vita sommata a quella di chi mi ha preceduta... tutte insieme formano vorticando gli anelli del pozzo che cresce a dismisura... non è più un buco all'interno di... adesso è il... sia il fuori che il dentro! È tutto! È pelle, mondo, viscere, cosmo, ossa. È le passioni, gli errori, le meschinità, i dolori, le gioie. Ed ogni singolo elemento frulla e scende e nella discesa si affolla: è una girandola di situazioni: un folle viaggio nel passato.

    Posso fermarmi in uno qualsiasi degli anelli, volgere lo sguardo, ed incontrare... la mia mamma in ogni età, giacché i suoi racconti sono la mia carne e danno un senso al mio esistere. La vedo correre con le braccia aperte verso di me... giovane e libera dondolarsi sul ramo di un albero... vecchia e piegata sulla porta di casa che attende il mio rientro... il babbo confuso nelle nebbie padane. Un fantasma della memoria; un punto nero nel cosmo della mia mente dove rischio di essere risucchiata e perdermi; dove preferisco non avventurarmi, come la mamma mi ha sempre ripetuto... un divieto che mi lascia un senso di vuoto perché è una parte di me, di quella che sono, una parte ch'è in me che non devo penetrare, e quella parte è pietra nel mio cuore, ghiaccio nelle viscere, nebbia nel cervello.

    Vivo monca, forse zoppico e non me ne accorgo, o vedo il mondo con un occhio solo. Troppo spesso le cose che faccio non mi soddisfano, nella migliore delle ipotesi sono inutili, nella peggiore, lo sento, trascinano dietro foschi presagi. A volte immagino di esser dannata. Fin da piccola se divenivo nera d'umore, e mi chiudevo in un mutismo arricciato, tutti si preoccupavano, mi coccolavano, mi perdonavano, ed ho imparato bene la lezione tanto da crogiolarmi in quel potere che ancora possiedo sulle persone ma pure su me stessa. Un potere che mi lascia intontita e distante, sovrana di un mondo senza orizzonti, grigio e immobile. È stato anche la valvola di sfogo dei miei sbagli, il sibilo acuto che mi avvisava mentre, testarda, prendevo decisioni assurde, cariche d'errore fin dall'inizio, e che dopo tanti anni continuano a perseguitarmi.

    Non ho il tempo... sì ma è solo una scusa! Intanto scendo! Scendo nell'abisso ch'è la stessa storia dell'uomo, la parte comune trascesa oltre il singolo... corro superando ogni curva, ogni nodo, è come un flusso in un cordone ombelicale che va e proviene da un solo vasto ed unico sentire... e più scendo più il cerchio si allarga... la nonna Angiola, il nonno Leonero, la rossa zia Emma o il compianto zio Primo. Blanche, oh Blanche. La povera zia Luiselle, Adelaide, Vittoria, Raffaello e mille e mille altri che continuano ad andare e venire.

    In un paesaggio indistinto popolato di bocche odo le loro voci, mi stanno chiamando: Loriana, vieni da me! Si raccomandano: Non correre, tienimi per mano, è pericoloso. Mi cercano: Loriana, dove ti sei nascosta? Com'è bella la mamma, seduta al mio fianco, mentre mi tiene la testa appoggiata al suo seno e racconta...

    Povera mamma quanta pena, quanta fatica. Fin da piccolina, su nei monti, nelle due stanze condivise con i suoi genitori, la sorella, il fratellino ed i pochi animali: le galline, un mulo, una capretta, il maiale. Tanto lavoro per il fieno, le castagne, la legna; per seguire i fratelli, aiutare la mamma nelle faccende di casa... ma lei rammentava con gioia quegli anni faticosi colmi di scoperte: la luce del sole che a spruzzi scende tra le foglie e muove le ombre sul terreno; i sorrisi dei giorni liberi nei boschi; la dolce fermezza della nonna Angiola; la sua improvvisa esuberanza; la semplicità dell'amore; la praticità nel risolvere i problemi; la forza per superare le difficoltà. La mamma raccontava come una favola bella gli anni della sua infanzia in quel mondo fatto di bisogni semplici, dove la bontà e la cattiveria si riconoscono subito, dove non è possibile nascondersi dietro le parole perché i beni sono pochi, e sono lì a portata di mano, un ladro deve solo avvicinarsi e rubarli, ma può fare anche del male, molto male, ferire e persino uccidere! Lui è il cattivo. Il buono invece è colui che con un gesto, un dono, un aiuto, dà l'amore e la fiducia necessari per vivere con pochi mezzi nei luoghi isolati e sperduti fra i monti.

    Leonero

    Il nonno Leonero, un uomo fiero e rude con una pelle spessa e scura, era nato in una povera famiglia di braccianti, come ce n’erano tante nella piana emiliano-romagnola, settimo di sette figli con un numero imprecisato di aborti e morti premature. Leonero arrivò oltre il limite calcolato da sua mamma in base alle esperienze di nonne, bisnonne, zie, parenti, e conoscenti varie.

    Armando disse Rosina in un sol fiato, ce n’è un altro. Ma come, avevi calcolato che… Eh, si vede che mi son sbagliata sospirò beatamente. E allora, mia cara e dolce Rosina, che sia il benvenuto e l’abbracciò con tutta la tenerezza che gli era possibile.

    Armando, figlio di Ulderigo lo scarriolante, era un tipo allegro che amava la moglie e godeva della sua grande famiglia dove il bene, l'affetto, l'allegria, non mancavano mai e la povertà era solo materiale.

    Tutti in paese conoscevano le vicissitudini di Ulderigo: un uomo, più che povero, disperato! Dopo la morte della moglie al terzo parto, non potendo lavorare e badare ai bambini nello stesso tempo aveva dovuto rivolgersi alla suocera, la quale, per quell'aiuto, aveva posto delle condizioni durissime! La superba arpia inacidita dai sogni di gloria infranti... 'per colpa tua!', gli aveva detto e ripetuto fino alla noia; per cui pretendeva da lui: lavoro, lavoro, lavoro, e silenzio; soprattutto: obbedir tacendo!

    Armando ricordava bene quella nonna cattiva che li costringeva a pregare inginocchiati in un angolo davanti al crocifisso, a chiedere perdono per essere nati da un simile padre mentre lei urlava e l'offendeva in tutti i modi! Da mane a sera i suoi lamenti riempivano la casa... 'ohi, ohi, la mia Diadora, povera me, un assassino doveva incontrare... è tutta colpa tua se è morta, disgraziato!! l'avevi presa per una scrofa, eh! sempre gravida, sempre gravida, povera scema anche lei... perdono?! mai, mai, tu sei indegno del perdono, sei solo un delinquente, un buono a nulla... ahimè misera, a chi ho dato un fior fiore di signorina! tenuta in palmo di mano, adorata da un signore, ma di quelli veri, che ogni Domenica va a Messa, ed è pure ricco, io l'avevo educata nel più bel collegio di suore... oh no, la colpa è mia, io ho messo nelle mani di un rozzo zotico che va poco in chiesa e a malapena porta il cibo per i figli, il mio tesoro più prezioso!... ohi, ohi... noi che avevamo la terra ed un priore in famiglia... e mai mai mio padre ci ha fatto patire la fame'.

    La vecchia e ambiziosa megera aveva sempre sognato un salto sociale, e per questo aveva riposto tutte le speranze in quella 'stupida' che 'per amore' aveva buttato il loro futuro, non la perdonava e gridava e picchiava i bambini per cose da nulla, li puniva con penitenze degne di un convento di clausura! Pretendeva più soldi, chiedeva soddisfazione per la perdita: prima con il pianto e poi con l'invettiva. Doveva compensare il degrado: l'infima condizione in cui l'aveva trascinata, quindi almeno aiutarla a rivestirsi... 'in un modo adeguato alla mia classe'. Spediva quell'uomo già fiaccato dal lavoro verso altre pesanti occupazioni che lei gli procurava in cambio di... 'non si preoccupi per il frutteto' diceva al sarto che gli stava cucendo una palandrana nuova 'stasera appena Ulderigo è in casa lo mando a potare le piante, subito subito, non lo lascio neppure entrare'; e quello, già conoscendo l'economicità e la precisione dei servigi di Ulderigo, rilanciava... 'vede' e tirava giù dallo scaffale delle scatoline di cartone colorato e gliele apriva sotto il naso 'questi bottoni dorati mi sono arrivati ieri, e guardi come risaltano sul tessuto morbido e fino'; la vecchia si ubriacava, per quei ninnoli le uscivan fuori gli occhi dalle orbite... 'mah...', 'non si preoccupi ho il muretto di confine tutto da sistemare', 'ah, beh se lei è d'accordo...', 'allora metto questi' e glieli faceva luccicare cogliendo un raggio di sole; lei... 'sì, sì', 'oh ma non voglio approfittare, il lavoro è pesante e quindi' trasse dall'altra scatolina un nastrino di seta gialla 'potrei rifinire così il suo cappotto e saremmo pari'; la vecchia, per quel nastrino di seta, avrebbe imposto ad Ulderigo pure di lavorare di notte! E così con l'oste per il bicchierino di anice, così col ciabattino per lo scarpino col tacco, col farmacista per la crema idratante... Ulderigo il più delle volte crollava nel giaciglio senza nemmeno aver la forza di mangiare.

    Però Armando conservava, nel luogo più segreto del suo cuore, un lampo di luce visto attraverso uno squarcio aperto nelle pesanti rughe calate dalla fatica sul viso di suo padre. Un giorno, vedendolo seduto all'ombra di un gelso, gli era corso incontro sgambettando felice e lui aveva accolto il suo slancio sollevandolo in alto con le sue forti mani e con una piroetta in aria, dopo un volteggio senza respiro, se l'era posato sui ginocchi... 'un atterraggio più morbido che sul piumaggio di un pulcino'; ancora lo ricordava così... da quella posizione privilegiata aveva guardato nei suoi occhi, dentro la pupilla nera e viva, e gli aveva chiesto... 'ma la mamma com'era?'; nel tempo che rispose... 'bella come il sole', vide la luce nel nero della notte, c'era riflesso il sorriso di un angelo che illuminava la sua pupilla di un chiarore stellare.

    Armando, da quel momento, fu certo che pure dentro di lui, in qualche angolo, doveva risplendere un sorriso così e desiderava allevare la sua famiglia al sole di quel ricordo, avrebbe fatto di tutto per dare ai figli il pane e le rose.

    Il lavoro non gli pesava e raramente sentiva la fatica, nei pochi momenti liberi prendeva la famiglia, due tre in braccio, il resto al seguito e li portava in piazza ad ascoltare la banda, alla fiera per conoscere altra gente, ascoltare il cantastorie, vedere gli spettacoli, gli animali strani e durante il ritorno parlava con loro, rispondeva alle loro domande. Raccontava la storia che lui conosceva bene, quella dei soprusi, dei privilegi, delle ingiustizie, vissuta ogni giorno e commentata coi compagni di lavoro. Rosina ascoltava e sorrideva beata della facilità di linguaggio del suo Armando. Ma su tutto c'era una cosa, il sesso non doveva mancare mai: era tutto fuoco! voleva sempre la sua Rosina e, passati gli anni giovanili, continuava a cercarla come la prima notte, lei godeva del suo desiderio illimitato, gli dava la certezza di essere il centro della sua vita.

    A volte quando un temporale improvviso impediva il lavoro, Armando correva via tutto eccitato attraverso gli scrosci di pioggia e, appena in vista della casa, gridava con un tono inequivocabile: Rosinaaa. A quel richiamo lei interrompeva tutte le faccende, si accomodava i capelli, si umettava le sopracciglia, le labbra, si stendeva il vestito e guardava con occhi amorevoli i figli che ormai avvezzi a quel rituale si alzavano ed uscivano a giocare sotto il loggiato... mezz’ora... un’ora... poi Armando si affacciava e tutto giulivo gridava: Forza giovani, tutti a tavola, si mangia! Non che ci fosse chissà che cosa per cena o per pranzo ma l’ilarità di Armando ed il bel sorriso di Rosina facevano sì che la semplice zuppa di cavolo con le patate diventasse un piatto prelibato.

    Leonero fu concepito durante uno di quei temporali d’agosto e Rosina aveva compiuto cinquant’anni! Ogni volta che Armando si inginocchiava davanti alla sua Rosina per sollevarle la sottana, carezzarle il pancione e baciare con un trasporto di mugolii quel ben di dio che gli stava intorno, diceva: Senti… senti... Che cosa? chiedeva Rosina che ci cascava sempre. Mi ha detto, ‘o babbo, chiamami Benvenuta un t’aspettavo’. Ma smettila… ed io che ancora ti ascolto… lo sai, non mi piace nemmen per scherzo! E allora… replicava felice di poterla baciare di nuovo per levarle dal viso l'ombra indispettita, dimmelo tu che nome gli vuoi dare? Eeeh... ancora non lo so era la sua risposta mentre raggiante dondolava dolcemente il suo pancione.

    Il venti di aprile del milleottocentocinquantadue, Rosina, nei campi con le figlie a raccogliere le erbe, si addirizzò la schiena e disse: Ragazze, ci siamo. La presero in tre e di corsa la portarono in casa distesa sul letto. Quando giunse la levatrice il bambino era già bell'e nato, gli tagliò il cordone, lo lavò e glielo mise sul petto.

    Allora? disse Armando arrivato di corsa proprio in quel momento.

    È un maschietto! Vieni qui, Leonero ti aspetta disse trionfante passandogli il bambino.

    Bello! Sì sì, un bel nome, brava: Leonero il giovane guerriero forte e fiero, mi piace!

    Leonero strillava. Rosina non aveva il latte ma crebbe ugualmente sano e forte con quello della Bolda, la fedele capra, che seguiva la famiglia in ogni spostamento, due tre passi dietro il carretto.

    Gennaio 1869 l'Assalto

    Leonero era solo un giovanotto quando si ritrovò coinvolto nella rivolta contro la tassa sul macinato. Da una settimana erano scoppiate sommosse popolari in ogni paese della piana. La protesta cresceva con il passare dei giorni, ed i gruppi di rivoltosi iniziarono ad organizzarsi.

    La nuova tassa era vista dai contadini come un vero e proprio atto di prepotenza del governo che, come sempre, per ripianare i debiti, non trovava di meglio che avventarsi sulle classi più deboli, le più semplici ed indifese! andando a tassare la base della loro alimentazione: la farina di grano, di castagne, di mais. Il pagamento della gabella fu causa di disperazione per le tante famiglie che vivevano solo del poco prodotto nel loro campo. Una tassa ingiusta che trasformava i mugnai in gabellieri facendoli diventare il bersaglio della protesta. Nel contempo lasciava che i ricchi, ancora una volta, si approfittassero della situazione di disperazione per comprare a basso prezzo i terreni che i contadini non potevano più tenere. Una malattia, un incidente, la siccità, erano sufficienti a metterli nelle mani degli usurai e in breve a fargli perdere la casa, la terra ed ogni altro avere. Lungo le strade si vedevano passare carretti carichi del poco rimasto: un letto, un involto di materassi, qualche pentola e dei sacchi di cenci: davanti un uomo a tirare per le stanghe e dietro a spingere seguivano una donna, qualche vecchia e tre o quattro bambini, alla ricerca di un nuovo posto disperato.

    Leonero non era un violento, anzi possedeva l'indole giuliva di suo padre e la semplicità di sua madre, dal loro esempio e dalle loro parole aveva imparato il senso dell'onestà e della libertà di pensiero. Per questo il suo animo, posto di fronte all'ingiustizia, si ribellava ferocemente, ribolliva di disgusto. Così si mise in prima fila nelle lotte scoppiate nel suo paese. In piazza incitava la folla... 'è ora di dire basta ai soprusi, all’ingiustizia! dobbiamo stare uniti e rifiutare questa tassa, facciamo sentire ai governanti la nostra forza, riprendiamoci quello che le nostre braccia hanno prodotto, cosa credono... siamo fatti di carne come loro, e dobbiamo mangiare per vivere! perché non tassano i latifondi?... le ville?... invece no! le farine, il macinato, per colpire sempre e solo i più deboli che credono incapaci di ribellarsi!'.

    Leonero parlava con tutti cercando di incanalare la loro rabbia verso un obbiettivo comune. Correva molti rischi giacché le spie si annidavano ovunque, ed i più facinorosi venivano schedati dai carabinieri ed alla prima occasione rinchiusi nelle prigioni. Durante l'assalto ad un grande mulino per restituire il macinato alla gente, fu visto minacciare con un falcetto un carabiniere intervenuto in difesa del mugnaio; Leonero avrebbe certamente usato quella lama affilata che stringeva con rabbia nella sua mano se il milite di fronte a lui avesse puntato il fucile con il dito sul grilletto, com'era già successo! Non accadde, ma di lì ad accusarlo di aver ferito un altro carabiniere in un paese vicino, fu un attimo. Le voci, nella piana, correvano di bocca in bocca più veloci del vento trovando terreno fertile in mezzo alle genti immiserite e bisognose di riscatto. E chi aveva mostrato la faccia senza aver paura diveniva, per il popolo in subbuglio, un piccolo eroe. Un capo. Leonero possedeva quelle caratteristiche senza esserne cosciente.

    Passando di cascina in cascina raggiunse il paese e si unì alla banda di Pianoro; le voci che lo avevano preceduto prepararono gli insorti ad una accoglienza festante. Leonero, lì per lì, non capì ma fu chiaro che aspettavano da lui un cenno per andare avanti, rinfocolare la protesta, infiammare gli animi e procedere all’assalto. Vedendosi trascinato dalla folla a ricoprire quel ruolo, parlò con i due che sembravano i più coscienti sul da farsi. Conoscevano alla perfezione il mulino, le strade, e tutte le possibili vie di fuga attraverso i campi, il torrente, i canali. Riunirono un discreto numero di contadini, braccianti e pigionali, tutti armati di zappe, forconi e falcioni; avevano facce tirate, mostravano al cielo le loro armi, urlavano per incitarsi, grida d'odio verso il governo, i mugnai, la milizia, la chiesa, i nobili; non risparmiavano nessuno: tanto qualche colpa l’avevano di sicuro.

    Arrivati davanti al mulino si schierarono al fianco di Leonero e di Bartolomeo, un garibaldino che nel 1849 aveva partecipato alla difesa di Porta San Pancrazio a Roma contro l’esercito francese, lui sapeva come affrontare certe situazioni e come dare un minimo di struttura all'insieme caotico dei rivoltosi. Giunti nel piazzale antistante il mulino chiamarono fuori a gran voce il mugnaio, l'uomo già bianco di farina era imbiancato pure dalla paura (quell'accozzaglia di vocianti scalmanati coi falcioni affilati fra le mani avrebbe terrorizzato chiunque non avvezzo alle battaglie!) non fece resistenza.

    Spalancate le porte e organizzato un corridoio, si dette il via alla ridistribuzione del macinato: tutti dovevano beneficiarne secondo le esigenze proprie o della famiglia. Leonero fu molto scrupoloso e severo affinché la distribuzione si svolgesse senza soprusi: si segnavano i nomi con una lettera dell'alfabeto ed un numero progressivo e si consegnava il sacco di farina: così aveva spiegato Bartolomeo per tenere un minimo di registro e nel contempo evitare un possibile riconoscimento dei beneficiari della farina da parte della legge.

    L’arrivo tempestivo della milizia (qualche spia maledetta, si vociferò col veleno alla bocca, è andata ad avvisare i carabinieri!) sorprese il gruppo dei rivoltosi ma non li colse impreparati. L'ufficiale a cavallo dispose i soldati in formazione coi fucili spianati, e con la sciabola sguainata si spinse verso il centro del piazzale ed impose l’alt immediato come se fosse in un campo di battaglia di fronte ad un esercito nemico. Fra i contadini ci fu chi, spaventato dai fucilieri, se la dette a gambe, mentre altri, giovani e sovraeccitati dal pericolo, scagliarono delle pietre contro i soldati. Nella confusione che seguì, all'urlo di dolore di un soldato colpito alla tempia da una pietra, la milizia aprì il fuoco. Un altro gridò, una voce soffocata si levò sopra quel caos: Muoio!! Assassini!... vi porterò con me nella tomba!! Bartolomeo, udita l'invettiva, urlò: All’attacco… Il tafferuglio fu totale, colpi di fucile, assalti col falcione, con la baionetta, e poi giù coi forconi, coi bastoni. Era un corpo a corpo, e l'ufficiale si lanciò sul suo cavallo menando colpi con la sciabola nel mezzo della baruffa, convinto di dover cacciare un esercito invasore. Poi, improvviso, calò un silenzio, una pausa nel caos, come se i due fronti avessero esaurito la carica e cercassero di capire dove si trovassero e soprattutto se fossero ancora vivi ed interi. Alcuni soldati giacevano a terra feriti, gli altri stavano arroccati intorno al cavallo dell'ufficiale. I contadini colsero quella pausa e si affrettarono a trascinare via i corpi dei loro caduti, fra questi c’era Leonero con una ferita all’addome che colava sangue.

    Bartolomeo sovrastava, correndo da un uomo all'altro; dirigeva la ritirata richiamando gli uomini, rimasti sbandati, dall'intervento armato, dagli spari, dalle grida, dal veleno della violenza... quando vide trascinare il giovane sporco di sangue si avvicinò e gli chiese: Come stai? Io bene, non è niente, perdo solo un po' di sangue. Ma gli altri, come stanno? Beh, per ora sembra dodici, sedici feriti, di cui due gravi, ma sono già tutti nascosti. Leonero non udì l'intera risposta, aveva perso i sensi. A Bartolomeo bastò un'occhiata per rendersi conto della gravità della ferita, cercò l’aiuto di due braccianti per trasportarlo da un medico di sua conoscenza che abitava poco distante. Il medico, che aveva tentato di opporsi a quel coinvolgimento, operò in fretta e con una tale paura che gli tremavano le mani, ma riuscì lo stesso a togliere la pallottola. Tamponò la ferita alla meglio, in modo che lo portassero via dalla sua casa il più presto possibile, sapeva che i carabinieri potevano arrivare da un momento all’altro e non chiese nulla, né chi fosse né la causa del ferimento.

    I due braccianti, nonostante il pericolo di essere presi ed arrestati, si resero disponibili; guidati da Bartolomeo camminarono veloci e in silenzio nell'aria gelida lungo il letto del torrente, portando Leonero su una specie di barella improvvisata, poi, tagliando per i campi, salirono in montagna.

    Dopo alcune ore, percorrendo sentieri sconosciuti agli improvvisati portantini, giunsero alla meta nella più completa oscurità. Assicuratosi di non essere seguito, Bartolomeo fece entrare il gruppetto da un cancellino laterale nel giardino che circondava una villa. S'intuiva, nella fioca luce di una torcia, la massiccia costruzione di pietra a più piani con, sul fronte, un’ampia scalinata e al pianoterra un grande arco.

    Era villa La Costa, qui abitava Raffaello, un farmacista amico del garibaldino, col quale aveva condiviso numerose battaglie e tuttora condivideva gli ideali e le speranze di libertà e di rinnovamento. Bartolomeo salì rapidamente la rampa di scale e bussò con tre colpi veloci e tre lenti. A quel segnale, Raffaello si affacciò e vedendo l'amico uscì sul pianerottolo. Bartolomeo?! Perché sei qui? Che è successo? Ho un ferito, e oltre a curarlo dovrai anche nasconderlo. Raffaello, finì d'infilarsi un mantello pesante, scese e si mise alla testa del gruppetto; illuminando il corridoio con una torcia li condusse ad una breve scala che scendeva nelle cantine. Per il momento sistematelo lì disse indicando un lungo tavolo basso, e copritelo con due coperte, sono dentro l'armadio. Il farmacista accese il candelabro a tre bracci e scoprì la ferita. Storse la bocca, e disse: Devo ripulirla, c’è rischio che si infetti. Bartolomeo lo guardò con serietà. Lo affido alle tue cure, è un bravo giovane ed ha dimostrato grande coraggio. Mi ricorda la nostra giovinezza! E tu? chiese il farmacista appuntando gli occhi sull’amico, non rimani? Non ora, prima devo riaccompagnare i braccianti, loro non sanno neppure dove siamo. Per sicurezza cambio percorso, anche se più lungo girerò dietro la collina. A Pianoro abbiamo aperto il mulino per dare la farina al popolo, è arrivata la milizia ed è scoppiato il pandemonio. Ci sono stati feriti su entrambi i fronti e pare che un soldato sia rimasto ucciso. Di sicuro avranno presidiato il paese e ci stanno seguendo, ma io non voglio che qualcuno sospetti di te! proseguì spiegando all'amico tutto il suo piano, giunto in pianura, creerò un diversivo per evitare i blocchi della milizia, c'è un vecchio capanno abbandonato, gli darò fuoco, così potremo rientrare in paese senza destare sospetti. Mi raccomando disse il farmacista stringendogli la mano e tirandolo a sé per un abbraccio, non correre rischi inutili.

    Raffaello era un signore raffinato e colto, possedeva le qualità e le risorse per diventare un vero Signore di campagna, ma era un idealista, uno studioso, un ricercatore che, pure in presenza di un interlocutore, era capace di scomparire assorbito dalle riflessioni sulle sue ricerche; un soggetto, per la maggior parte della gente dei dintorni, affabile ma introverso, insomma un tipo strano e incomprensibile, trattato con rispetto perché figlio di Palimede, il medico del paese, l'uomo 'tutto di un pezzo', che aveva impiantato la prima farmacia nella zona.

    Fin da giovane Raffaello aveva mostrato la sua intelligenza ed il suo anticonformismo; studente a Pavia, si era recato a Milano, a seguito dei moti del '48, in compagnia di un amico, entrambi erano attratti dal fuoco rivoluzionario. Una volta in città, era entrato in contatto con un gruppo di scrittori, poeti, intellettuali; in principio aveva partecipato alle loro turbolente riunioni solo come uditore ma in seguito, leggendo e ragionando, poté confrontarsi con quegli uomini, pronti alla battaglia, esponendo le sue conclusioni. Infiammato dalle idee illuministe e dalle rivalutate idee rivoluzionarie francesi, si era creato una personale visione del mondo e dei suoi problemi: credeva nell’uomo e nel progresso scientifico, sentiva che le due cose dovevano svilupparsi insieme: l’uomo avrebbe conquistato la libertà attraverso la scienza e la scienza avrebbe liberato l’uomo dalla fatica bruta e dalle malattie, però era anche cosciente che per raggiungere quegli obbiettivi fosse necessario dare un'istruzione al popolo analfabeta.

    La rapida successione degli eventi lo costrinse a prendere una posizione; la situazione era in grande fermento, gli amici mazziniani lo reclamavano e pur non condividendo fino in fondo la loro fede, si diede alla causa dell’Unità d'Italia, lottando in prima persona, e fornendo mezzi e supporti logistici ai patrioti. Intorno a lui si formò un gruppo di giovani pronti a combattere al fianco di Garibaldi.

    Raggiunto l'obbiettivo dell'Unità d'Italia e declinate le offerte di far parte del... o di... tornò a villa La Costa felice di poter iniziare la ricerca nel suo nuovo laboratorio. Riprese a frequentare la nobiltà locale e i ricchi possidenti, pur mantenendo rapporti d’amicizia con persone che stavano ai limiti della legalità come Bartolomeo, mettendo a rischio la sua persona e la sua attività. Al rientro in villa cominciò a sostituire il vecchio padre nella conduzione della farmacia: nei primi tempi solo al mattino. Partiva di buon’ora col calesse, scendeva nel vicino paese dove si trovava la farmacia, apriva, e riceveva i clienti fino all’ora di pranzo. Nel pomeriggio rimaneva a casa a lavorare nel suo laboratorio.

    La contessa Anastasia, sua moglie, discendente di un'antica e nobile famiglia ferrarese, aveva trascorso un'incredibile gioventù. Era stata una ragazza brillante con un'ottima predisposizione allo studio e si era potuta permettere il massimo che fosse consentito ad una donna della sua epoca. La passione per la musica, coltivata fin da bambina, e per il pianoforte in particolare, l’aveva portata a viaggiare nelle capitali e nelle grandi città dell’Europa imperiale, dove aveva dato concerti memorabili e conosciuto i più grandi compositori dell'epoca. Nei momenti di pausa, di ritorno nel palazzo di famiglia, coltivava le rose creando nuove varietà. Con l’aiuto di un giardiniere, aveva trasformato il grande giardino, eredità dei nonni, in uno spazio unico e spettacolare, ambito ed ammirato. Terza di quattro figli, due maschi e due femmine, eludeva gli inevitabili conflitti scomparendo! Una tecnica semplice ma efficace. Appena si accorgeva che stava per sorgere un diverbio, dove avrebbe dovuto fare la sua parte, si alzava, salutava educatamente tutti e spariva inghiottita da una delle sue passioni. Aveva vissuto così fino al matrimonio.

    Per sua scelta (Raffaello non aveva sollevato alcuna obiezione) interruppe la carriera concertistica, mentre mantenne la passione per le rose e per le piante sempreverdi prendendosi cura del giardino della villa.

    Aveva accettato di buon grado di sposare Raffaello che per cultura le teneva testa e per nobiltà d’animo non le era da meno. Un uomo apprezzato anche dalla sua famiglia per la serietà e l’ottima posizione tenuta in società, e poi... era venuto il momento! Quasi che il suo organismo l'avesse obbligata a compiere quel passo, e cioè chiudere con la vita errabonda, seppure entusiasmante, zeppa di riconoscimenti per la sua bravura, per i traguardi raggiunti nella carriera, ma pure traboccante di passioni sfrenate, di uomini adoranti, di notti insonni, di amoreggiamenti, seduzioni e follie; era l'ora di cessare lo spreco di energie: adesso doveva fermarsi e costruire il nido per dare continuità alla sua stirpe, come le era stato insegnato, e lui era l'uomo adatto.

    Raffaello, strappato alle sue ricerche, aveva accettato di conoscere Anastasia. Pure lui sentiva, o gliel'avevano fatta sentire, l'esigenza di una famiglia e di un erede.

    Fosse il giorno fausto, o la donna giusta, il fatto è che s'invaghì di lei al primo incontro. Vissero per un po' frequentando la società. Ma dopo i primi entusiasmi nell’accompagnare la moglie alle feste e nei salotti, si stufò. Divenne insofferente a quegli incontri mondani colmi di chiacchiere inutili che mortificavano il suo raziocinio e contrastavano con le sue logiche riflessioni, per cui ritornò felice nel chiuso dei suoi studi farmaceutici. Quand'era possibile trascorreva intere giornate, e pure nottate, nel laboratorio, distillando e provando sulle cavie i preparati da lui elaborati. Tutto il resto scorreva in un secondo piano.

    Era in pace con la sua anima, aveva fatto il suo dovere, l'aveva messa incinta e, con una tensione tutta particolare, degna dello studioso qual era, l'aveva messa sotto osservazione e seguita durante i nove mesi della gravidanza fino al momento del parto, appuntando, con schizzi e misure, su un apposito quaderno 'Il diario di bordo della procreazione', ogni cambiamento di peso e di forma... certo avrebbe voluto diventare così piccolo per poter entrare all'interno e vedere la mutazione di quel feto che cresceva! Nella notte del parto, rimase sveglio a fianco della levatrice, segnando il tempo di intervallo fra le contrazioni e misurando le dilatazioni. Gioì del mirabolante risultato ottenuto.

    Amava Anastasia, ma in un modo tutto suo: la vedeva, sovente la guardava, a volte la desiderava, ma poi la mente riprendeva il suo galoppo nella scienza, correva via... c'era da considerare il risultato dell'esperimento in corso, certamente da provare una variante da poco immaginata guardando la pelle del pollo arrosto, da rileggere l'interessante articolo del Bollettino sulle muffe... ed Anastasia, già lontana per conto suo, rimaneva sì, bella e luminosa, ma appesa, come un magnifico quadro, alla parete. Invece per la figlia, nata da una felice e stupenda giornata d’amore nel periodo più alto della loro intesa, aveva una sorta di venerazione, ed ogni volta che la guardava, gli luccicavano gli occhi, quasi fosse stato il più brillante risultato di tutti i suoi esperimenti! E gli tornavano in mente, con piacere, gli spasimi, le carezze, i baci, le contrazioni, le spinte, i fluidi come singoli elementi da combinare in uno speciale laboratorio amoroso.

    A vederli insieme, Anastasia e Raffaello sembravano fatti l’una per l’altro. Alti, il fisico asciutto, distinti, raffinati, colti, avrebbero potuto diventare un modello per molte coppie del loro ambiente. Ma dopo la nascita di Vittoria l’intesa svanì: nessuno dei due sembrò avere più alcun interesse per l’accoppiamento o per il rituale connesso di baci, abbracci, carezze, e… ognuno si chiuse sempre più nel proprio mondo di interessi scientifici, letterari, botanici, ed alla sera nelle rispettive camere, in una assoluta e poco usuale 'pace dei sensi'. Si ritrovavano soltanto per seguire la figlia; per lei superavano la loro ritrosia, e potevano anche tenersi per mano, quando, nelle gite domenicali, la portavano al parco... certo un gesto famigliare, ma solo se indossavano i guanti! Tutto il resto del loro rapporto era verbale con punte di accensione che difficilmente salivano oltre il limite di una civile educazione. Ma cara, sai bene che sei in errore. No mio caro, ti stai sbagliando e posso dartene prova. Se la metti su questo tono... io taccio! E la questione finiva lì.

    All’esterno, ad uno sguardo superficiale, pareva tutto normale, una bella coppia a passeggio con la figlia, unico neo un po' troppo formale. Ma a ben guardare, Raffaello con i baffetti curatissimi, il cilindro, i guanti, l'abito scuro dal taglio perfetto, i movimenti meccanici e la testa lasciata nel laboratorio pareva non esserci anche fisicamente, come se l'abito vuoto camminasse da solo! Anastasia, invece, aveva progressivamente ridotto la scollatura dei vestiti, che, generosa all’inizio, mostrando le chiare rotondità del seno, era ormai arrivata a coprire tutta la gola fin sotto il mento, diventando, se si può dire... 'uno scollarino', nascosto dalle frange delle trine, che le impediva addirittura di deglutire in modo naturale; era impossibile che potesse superare quel livello, a meno di immaginare il suo collo privo dell’ossatura interna e quindi plasmabile fino a farlo diventare filiforme; di converso, essendoci una colonna vertebrale, la sua postura si era fatta rigida e altera, un po’ come il suo animo: un ghiacciolo marmorizzato pronto a ricevere una bella epigrafe: Qui giace colei che sospirando traguardi ancor più fini, soffocò! Solo Vittoria dentro il vestitino vaporoso, con i suoi saltelli, gli occhi curiosi, il cinguettio infantile, rendeva le due statue meno spettrali.

    Anastasia leggeva leggeva e leggeva. La sua biblioteca era triplicata in pochi anni. Tutti i romanzi, appena pubblicati, erano suoi. Si era abbonata a vari editori che le mandavano le novità fresche di stampa. Ad ogni arrivo del corriere si lasciava assalire dalla febbre della lettura e, inghiottita dalla trama del romanzo di turno, spariva. Di nuovo attuava la sua tecnica preferita per non rimanere invischiata nei problemi che avrebbero richiesto il suo intervento per essere risolti. Adesso compiva quella sua sparizione non fisicamente ma involandosi con la mente; si donava all’autore, se questo lo meritava! ed il suo corpo attraversava le stanze, il corridoio, le scale, in silenzio: rimaneva sospesa ai riccioli di una bella frase, all'immagine poetica sorprendente, alle descrizioni minuziose degli ambienti, al dialogo fluido, al personaggio ben delineato, alla sorpresa di un finale inatteso, e camminava in punta di piedi. Era persino possibile scontrarsi con lei, tanto in quei momenti il suo passo era felpato e la sua mente rapita.

    D’altronde Raffaello non era da meno, teneva sempre i guanti, di filo d'estate, di pelle d'inverno, di caucciù in laboratorio; in ogni occasione, diciamo mondana, vestiva sempre di scuro indossando l'impeccabile abito di lana, mentre in farmacia e in laboratorio il camice bianco lungo. E, come lei leggeva, lui studiava. Aveva ripreso a pieno ritmo i suoi esperimenti. Si tuffava come un matto sui bollettini che gli arrivavano da Parigi, si sfiniva la vista scrutando con il microscopio, per intere nottate, i suoi vetrini preparati, e con la passione di un giocatore d'azzardo si dedicava alla coltivazione e alla moltiplicazione delle muffe.

    Anastasia curava il suo aspetto ma senza conceder spazio alle mode del momento, si sentiva una donna autorevole e volava alto ben oltre gli effimeri sogni borghesi; teneva la massa dei capelli neri avvolti in una elegante crocchia sulla nuca, incipriava appena la pelle chiara del viso, massaggiava con cura le mani: continuava la ginnastica della pianista come un’abitudine irrinunciabile, muovendo polsi, dita, spalle, mantenendo la perfetta agilità delle articolazioni; di tutti i gioielli posseduti indossava solo un paio di antichi orecchini d’argento con un rubino ed una bellissima perla a goccia (patrimonio della famiglia da generazioni) dai quali non si separava mai e che amava definire, con una punta di civetteria, ‘le gocce di luce che oscillano intorno al mio viso come due lune intorno alla terra’. All’epoca poteva avere trentacinque anni come cinquanta, il suo viso ingessato privo di espressione, il corpo sottile, la carnagione liscia, i capelli neri... non si capiva.

    Dopo il parto, spossata dall'impegno, che aveva voluto assumere, di seguire personalmente la crescita della bambina, aveva abbandonato la musica, ed in seguito il giardinaggio, ma adesso che Vittoria era cresciuta e non cercava più le sue attenzioni, quella rinuncia le pesava. La lettura difficilmente riempiva le sue giornate, anzi, talvolta le pagine che aveva segnato interessanti, rileggendole, le trovava insignificanti se non stupide e vuote. E come reazione il suo corpo, compresso dalle rigide regole inculcate durante l'infanzia, reclamava libertà, spazio, interesse, respiro: pretendeva di diventare il protagonista: la chiamava al pianoforte perché si lasciasse andare al suono, la voleva seduta per scatenare l'energia accumulata martellando con le dita sui tasti per un giorno intero; la chiamava in giardino con l'abito leggero, il cappello di paglia, le forbici in mano a potare ad intrecciare rami e rametti, e sudare fino a desiderare di immergersi in un bagno ristoratore! Ma il suo animo agognava altre libertà impossibili o quantomeno ardue da mettere in atto! Sognava ad occhi aperti di essere altrove, raggiungere la Cina ed il Katai come Marco Polo, traversare l'India dei principi in groppa ad un elefante, scoprire i templi proibiti e percorrere con le dita eccitate le sculture del kamasutra, visitare il Giappone e imparare l'arte delle geishe, vivere avventure pericolose a New York facendo la prostituta in un locale malfamato, trattare argomenti illeciti e diventare una concubina, intrattenere rapporti erotici con più uomini... avventure come tante ne aveva lette nei romanzi, come tante ne aveva sfiorate nella sua giovinezza e che adesso ripercorreva nella sua mente e concludeva da sola nel suo letto; lo desiderava per provare se stessa e scoprire l'origine della sua agitazione.

    Ma dopo quella crisi d'identità, ricomposta l'inquietudine all'interno di parametri accettabili, esplose la sua ansia materna, le prese il ghiribizzo di controllare con un'ostinazione maniacale il fisico in trasformazione di Vittoria e, per essere preparata, si procurò una gran quantità di manuali ad uso dei medici, tutti sull'argomento pubertà, sviluppo dell'adolescente, fisiologia e diagnostica delle malattie femminili...; li aveva letteralmente divorati, adesso conosceva tutti i rischi connessi con lo sviluppo: ritardi, complicanze, anomalie, nuove teorie. La sua mente associava, con precisione, il colore delle urine, la densità di certe secrezioni, l'apparente aumento di una ghiandola a quella specifica patologia.

    Vittoria cresceva. Il suo bel visino infantile dai tratti leggeri e sottili adesso contrastava col fisico: era comparso un bel seno, le braccia, le gambe e le cosce si erano fatte piene, robuste, quasi muscolose, una leggerissima peluria copriva il pube rigonfio e, come d’un tratto, si era allungata. Nello stesso tempo aveva cominciato a mangiare ad ogni ora del giorno senza alcun ritegno: i dolci ed i primi di Matilde, i gustosi salumi di Cirillo, gli sciroppi e le marmellate di Primetta... le piaceva tutto! Ma proprio tutto e lo divorava con gusto, se non fosse stato per il grasso che a vista d'occhio le si depositava in ogni dove, sarebbe stato un piacere guardarla mangiare. Anastasia, angosciata da tutta quella pinguedine che aveva invaso la sua bambina, la pesava, poi la misurava: altezza, spalle, petto, fianchi, cosce... e appuntava le cifre su un foglio, con quei numeri aveva disegnato su un taccuino una sorta di grafico. Sembrava matta, si atteggiava a 'luminare' come ne aveva conosciuti nella sua vita, camminava dritta con le braccia conserte, di tanto in tanto, sollevando il braccio destro, si toccava il naso, e rimuginava. Entrava all'improvviso nella camera di Vittoria col metro in mano, la faceva alzare se era a letto, la faceva spogliare se era al tavolo, e lì... 'adesso girati! stai ferma! guarda che pancia, hai l'ombelico che schizza fuori! devi metterti a dieta,

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