Spegnersi e non consumarsi: Io e Alberto Bevilacquq
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Pierfranco Bruni “racconta” Alberto Bevilacqua servendosi di tasselli di esperienza letteraria, ma soprattutto di un frequente rapporto con lo scrittore. Un’amicizia antica, ma ciò non toglie nulla ad uno scavo che è letterario certamente, ed è anche estetico – simbolico riferito sia al linguaggio che ai processi metaforici e allegorici presenti nei libri di Bevilacqua.
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Anteprima del libro
Spegnersi e non consumarsi - Pierfranco Bruni
Pierfranco Bruni
Spegnersi per non consumarsi
Io e Alberto Bevilacqua
con un ricordo di
Mauro Mazza
e la collaborazione di
Micol Bruni
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2014
ISBN: 978-88-6822-140-9
Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Alberto Bevilacqua
Un ricordo
di Mauro Mazza
Penso spesso ad Alberto Bevilacqua. Quando passo davanti allo scaffale della mia libreria coi suoi libri allineati. Quando riprendo alcune sue poesie che squarciano e segnano una porzione della mia giornata.
Quando rileggo le sue dediche sempre affettuose, mai banali, talvolta di rimprovero affettuoso
(…Perché non mi vuoi più bene?
). Aveva torto e ragione, Alberto. Gli volevo bene, sicuro. Ma non gli telefonavo mai. Era sempre lui a farlo, il più delle volte per il piacere di parlare e di dirmi: Dai, abbandona quell’ufficio per un po’, andiamo a mangiare un boccone
. È un mio difetto, quello di non telefonare (quasi) mai agli amici. Difetto inguaribile, di cui mi rammarico, ogni volta che è un altro a chiamarmi. Col tempo, anche per trovare un alibi con me stesso, credo di aver diviso gli amici per categoria: i più cari sono proprio quelli che chiamano senza aspettarsi che sia io a farlo, che mi conoscono, mi comprendono meglio e che, insomma, mi vogliono più bene.
Ecco, Alberto era uno di loro. Quando penso a lui provo un duplice rimpianto. Non aver goduto appieno della sua amicizia e non aver indagato a fondo la sua profondità. Quando ci incontravamo il tempo volava via e tante, tantissime questioni – storie, aneddoti, racconti – restavano incompiute, non dette, rimandate alla successiva occasione.
Di sicuro, ero molto onorato di quel nostro rapporto complice, confidenziale. Grande tra i grandi testimoni del nostro tempo. Protagonista tra i protagonisti del secolo ormai alle spalle, lontano e sbiadito.
Bevilacqua ha conosciuto e frequentato Jorge Luis Borges e Eugène Ionesco, Sciascia e Pasolini, Rossellini e Fellini, Orson Welles e Charlie Chaplin. Mi raccontò di quella volta che accompagnò Charlot nella sua Parma e, senza preavviso, andò con lui a visitare sua mamma, anziana e malata, che riconobbe il suo mito del cinema, commossa e felice, soltanto quando Chaplin prese un ombrello e lo fece agitare, come dentro un film, coi suoi passettini a piedi piatti.
Di Bevilacqua erano note la ritrosia e la discrezione, che gli sciocchi potevano scambiare per alterigia. Tutto il contrario. Alberto era generoso come solo un uomo vero sa essere. Ed era curioso come solo un grande giornalista deve essere. La generosità era il tratto distintivo del suo approccio con il prossimo. La curiosità era nel suo occhio sempre attento a scrutare la realtà. Nel bilancio finale ha più dato che ricevuto.
Ha speso tutto se stesso nel narrare le cose della vita. Ne ha ottenuto in cambio riconoscimenti e successi. Ha regalato opere che restano. E chiavi di lettura per (provare a) comprendere un mondo altrimenti privo di senso e di un perché. Ha osato e sperimentato, godendo e soffrendo più di tutti i suoi colleghi del respiro del proprio tempo.
Geniale e artigiano, contemporaneamente. Ha rischiato giudizi e sfidato pregiudizi. In cambio ha avuto il consenso e l’affetto di molti lettori. Ha accumulato invidie, gelosie, cattiverie. I mediocri, si sa, non perdonano chi ha successo. I loro parametri non sanno cogliere la grandezza altrui che moltiplica la propria inadeguatezza.
Alberto ha narrato il reale con romanzi e racconti. È stato sapiente regista, non di film tratti dai suoi libri ma di storie narrate per immagini. Quella del cinema fu un’altra scelta coraggiosa. Si mise dietro la macchina da presa e in sala montaggio perché convinto che lo spirito del tempo potesse soffiare e posarsi sulle cose, e nei cuori, soltanto sfruttando le straordinarie potenzialità del cinema, oltre che della letteratura. Era il suo modo di vivere appieno il proprio tempo. E di incarnare una cultura in sintonia con la contemporaneità.
Fu anche giornalista di vaglia, puntuale e pungente firma di interventi polemici mai banali. Osservatore romano
e parmigiano: attento alle cose in fermento nella Capitale, ma sempre fedele alle radici della sua terra amatissima.
Si metteva alla macchina da scrivere di mattina. Olivetti, non pc. Il ticchettio sui tasti gli dava il ritmo del periodare. Proprio come il suo amico Indro Montanelli. Al più grande dei giornalisti italiani lo legava anche quel ricorrente male oscuro chiamato depressione: un problema mai risolto del tutto, ma mai in grado di limitarne l’impellente voglia di scrivere e di osservare.
Anzi. Alberto lavorava ancora di più quando la voglia di vivere faceva difetto. Il foglio bianco da riempire a spazio uno
era per lui una terapia e una prova di vitalità. Era il lampo dell’illuminazione che si trasformava in versi spesso scritti di getto, fulminanti e scolpiti. Era la faticosa applicazione del metodo scelto invece per stendere racconti e romanzi, dispiegando figure e intrecciando storie complesse e magnetiche. "Quando sono soddisfatto e contento – mi confidò in un giorno di sole – non scrivo mica, non faccio niente.