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Il Brutto Anatroccolo
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E-book219 pagine3 ore

Il Brutto Anatroccolo

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Info su questo ebook

“Infanzia, adolescenza e giovinezza di un boomer” avrebbe potuto essere il titolo di questo libro.
Ma perché i nati tra gli anni ’50 e gli anni ’60 si sono meritati questa etichetta un po’ canzonatoria?
Erano davvero così grigi e seriosi i giovani di allora?
Leggendo questo divertente racconto si scopre proprio il contrario. Non solo: scorrendo le sue pagine si scoperchia un mondo luminoso ma complesso, dove il piacere più autentico dell’amicizia tra ragazzi non è scevro di una punta di melanconia, nel quale i dolori più profondi e le delusioni che si sperimentano nei nostri anni più verdi non vengono sottaciuti, ma raccontati con levità e ironia, e le ferite non vengono nascoste dal tenore leggero della narrazione, ma trattate con il rispetto che meritano: insomma qualcosa di più di un Giornalino di Gian Burrasca del secolo successivo. Il tutto raccontato in una Trieste a sua volta dell’età di mezzo: nella quale gli echi della fine della guerra non si sono ancora spenti, già lontana dai fasti mitteleuropei ma non ancora pronta all’ingresso nel mondo nuovo.
Un libro che dovrebbe essere letto da quei genitori esasperati e preoccupati per il futuro dei propri figli. L’esperienza dell’autore, infatti, insegna che, talvolta, i brutti anatroccoli si trasformano in cigni.

Nato nel 1961 a Forlì, dopo una vita inizialmente burrascosa e una difficile carriera scolastica, nel 1986 inizia a lavorare presso una Agenzia di assicurazioni che gli servirà da trampolino per una brillante carriera lavorativa. Dopo aver fatto l’esame a Roma per Agente, a cavallo tra il 1988 ed il 1989, apre “Fidea”, una Società di consulenza Assicurativa. Alcuni mesi dopo viene chiamato dalla Lloyd Adriatico che, nonostante la giovane età, gli affida un’Agenzia Generale a Trieste. Dopo essere stato fidanzato per quasi dieci anni con Elena, si sposa ed avrà, nel 1992 Emanuele e nel 1997 Nicolò. In pochi anni apre insieme all’Agenzia anche una Società immobiliare e una Società di consulenza finanziaria ed assicurativa. Nel 2009 diventa segretario Nazionale del Gruppo Agenti L.A..
Nel frattempo, venduta la Società immobiliare e chiusa quella di Consulenza, apre una nuova Società di intermediazione assicurativa che gli dà modo di conoscere il mondo del brokeraggio. Finalmente pronto, nel 2016 diventa plurimandatario. Appassionato di sport in generale, ama la geopolitica ed è attirato dal mondo dell’associativismo. Per tale motivo dopo esser stato Segretario di diverse Associazioni, attualmente è Segretario dell’Associazione commercianti di san Giacomo oltre che a far parte del Consiglio della Confcommercio di Trieste.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830672376
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    Il Brutto Anatroccolo - Salvatore Grisafi

    Copertina-LQ.jpg

    Salvatore Grisafi

    Il Brutto Anatroccolo

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6399-2

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il Brutto Anatroccolo

    a mia madre, l’unica a credere in me in gioventù;

    ad Elena mia compagna di vita;

    ad Emanuele e Nicolò, il mio futuro

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREFAZIONE

    Quella che vado a narrare in questo diario dei ricordi è la storia della mia vita o, più precisamente, di una parte di essa: i primi 20 anni.

    Il racconto inizia con quelli che io credo siano i primi ricordi d’adolescente e finisce nel periodo in cui ho conosciuto Elena che, non solo sarebbe diventata moglie e madre dei miei figli, ma la donna che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

    Anche se quanto riportato è assolutamente veritiero e quindi anche se nulla di quello che scrivo è frutto della fantasia, alcuni fatti narrati nel libro potrebbero risultare ai più esagerati, o quantomeno improbabili.

    Ciò è dovuto al fatto che nello scrivere mi sono sforzato di ricordare le vicende e a descriverle, non con gli occhi di quello che sono oggi e cioè un adulto, ma con quelli di allora, con lo sguardo di un bambino.

    A quanti di voi è successo di rivedere dopo tanto tempo luoghi od oggetti osservati la prima volta da fanciullo e quanti di voi ne sono rimasti profondamente delusi in quanto nel ricordo tali luoghi o tali oggetti avevano assunto forme e bellezza completamente diverse? Probabilmente spesso.

    A chi si apprestasse a leggere questo racconto, vorrei avvisarlo del fatto che non sta iniziando un best seller e nemmeno un romanzo destinato a vincere il premio Strega. Io non sono uno scrittore e non ho nemmeno l’ambizione di diventarlo.

    In realtà, arrivato alle soglie dei sessant’anni e resomi conto di non aver mai fatto nulla di così speciale da poter essere ricordato nei secoli a venire, ho sentito forte la necessità di lasciare almeno una testimonianza ai miei figli e ai figli dei miei figli, se mai ce ne saranno, di quello che è stato il mio tempo.

    Quando ho chiesto ai parenti più prossimi chi fosse mio nonno Salvatore e quale fosse il suo vissuto, ho scoperto con dolore che nessuno ne sapeva granché. Infatti, con la scomparsa di mio padre, probabilmente l’unico che avrebbe potuto ricordare e riportare qualche aneddoto, è come se il nonno fosse finito nell’oblio dei morti per sempre.

    Allargando lo scenario degli eventuali lettori di questo libro, mi rendo conto inoltre che è importante lasciare delle testimonianze di come si viveva ai miei tempi.

    Le nuove generazioni abituate a ricevere immediate risposte ai loro quesiti con un semplice tocco di smart phone, devono sapere che non è sempre stato così: noi si saliva sugli alberi, noi si giocava agli indiani e cowboy, noi si tirava con le fionde.

    Ecco perché voglio riportare, attraverso il racconto delle mie esperienze, quelli che furono gli anni della mia età giovanile, i decenni che vanno dagli inizi del 1960 a quelli del 1980.

    Questi furono anni di grandi cambiamenti, nel bene e nel male.

    Nel bene, è indubbio che quello da me vissuto fu un periodo di grandi conquiste, soprattutto sociali. Fu un periodo nel quale si acquisirono diritti che oggi vengono considerati ovvi ma che, per essere conquistati, necessitarono di grandi battaglie, come quella per il diritto al divorzio o per l’aborto.

    Ma furono anche anni nei quali l’uomo fece molti danni.

    Finita la Seconda guerra mondiale, dopo un lungo periodo di privazioni, la popolazione occidentale si ubriacò di quella libertà della quale non aveva potuto godere fino ad allora.

    Ignaro delle conseguenze del suo agire l’uomo cominciò a vivere quella libertà senza prestare alcun rispetto nei confronti della natura, come se la terra fosse una fonte inesauribile da cui attingere a piene mani.

    In nome del vile denaro persone dotate di poca onestà ebbero modo di delinquere facendo i loro sporchi interessi a discapito di tutti; fiorirono così l’edilizia abusiva, le contraffazioni alimentari, e le discariche abusive. Ma anche il cittadino comune, non prestando particolare attenzione ai danni che provocava, si sentì in diritto di inquinare senza rendersi conto che la terra non è un territorio infinito.

    Fu così che migliaia di specie animali si estinsero, mentre l’aria ed il mare raggiunsero velocemente livelli di degrado incredibili.

    In pieno boom socioeconomico sembrò tutto lecito.

    Ma quella dell’inquinamento non è l’unica problematica che la mia generazione lascia in eredità alle nuove.

    Queste dovranno fare i conti anche con la sovrappopolazione.

    Quando sono nato, nel 1961, il mondo contava circa 3 miliardi di persone; oggi la popolazione mondiale ha quasi raggiunto gli 8 miliardi e nel 2050 si prevede che questa raggiungerà i 10 miliardi. È evidente che la terra comincia a starci stretta e che di conseguenza le libertà di cui godevamo noi ragazzini, oggi, non sono più concesse né concedibili.

    Oltre all’inquinamento e al repentino aumento degli abitanti, le nuove generazioni avranno un altro problema da risolvere.

    Grazie ad internet, ai cellulari e al repentino sviluppo della tecnologia, infatti, le diverse popolazioni stanno entrando sempre più facilmente in contatto tra loro. Se da un certo punto di vista questa è una bella notizia, in realtà ciò comporta gravi conseguenze.

    Poiché a seconda delle zone del pianeta la situazione economica e sociale cambia, e di molto, attualmente grandi masse di povera gente, attratte dalle notizie ricevute via internet, si spostano nella speranza di migliorare il proprio stile di vita. Popolazioni dagli usi, costumi e religioni diverse entrano così in stretto contatto, creando non pochi problemi di ordine civile e sociale.

    Concludendo, per evitare sprechi ed inquinamento, per far fronte al problema della sovrappopolazione e per poter far convivere popolazioni provenienti dai più remoti angoli del mondo, diventerà sempre più indispensabile, per le nuove generazioni, regolamentare in modo capillare ogni comportamento umano, sia esso fisico che di pensiero, limitando, e di molto, quella libertà di cui ha potuto godere a piene mani chi è vissuto ai miei tempi.

    Come spesso avviene, forse proprio per come è fatta la natura umana, quando abbiamo un qualcosa in abbondanza, non sappiamo gestirla, abusandone e costringendo così le nuove generazioni a farne a meno.

    Mi sento in parte responsabile di ciò e me ne dolgo.

    CAPITOLO 1

    PRIMA DELLA BATTAGLIA

    Avevo tutto il necessario.

    L’elmetto tedesco dei fanti della Seconda guerra mondiale, ridipinto e con l’aquila stilizzata a lato; il giaccone verde militare, la mia inseparabile fionda, il manganello, la cassetta di legno con dentro le castagne raccolte sotto le chiome dei due enormi ippocastani, nel giardino dei miei genitori, in Via Hermada.

    Tutto era pronto per la grande battaglia.

    Come prima di ogni combattimento noi italiani ci ritrovavamo a casa o sarebbe più corretto dire in giardino, di Edoardo. Questo era un ragazzino simpatico anche se leggermente viziato che non solo aveva il pregio di avere un fratello maggiore molto abile a costruire delle meravigliose fionde utilizzando i rami degli alberi e degli elastici in caucciù ma, cosa più importante, aveva inventato – così almeno credevamo noi – una nuova e micidiale arma.

    Si trattava di una piccola fionda in fil di ferro molto grosso, con l’elastico rigorosamente in caucciù a sezione quadrata che serviva a sparare chiodini ad U.

    Era un’arma fantastica, dalla breve gittata, ma che avrebbe fatto la differenza nei confronti dei nostri avversari sloveni.

    C’eravamo quasi tutti.

    La genialità di Edoardo non si fermò all’invenzione sopra descritta ma riuscì a esprimersi appieno con la creazione del manganello. Questo, altro non era che un tubolare di bicicletta, a quei tempi il nostro unico mezzo di trasporto, tagliato a metà e riempito di castagne di ippocastano. Farcito il tubolare, questo infine veniva richiuso alle due estremità con delle cordicelle.

    Lo tenevamo legato alla cintola e le rare volte che lo utilizzammo ci dette la conferma che facesse male, molto male.

    Arrivò Diego Fonda.

    Diego, mio compagno di classe alle elementari ed alle medie inferiori, aveva le lentiggini, i capelli bizzarri alla Pappagone ed il sorriso eternamente stampato sul viso.

    Era il nostro magazziniere.

    Aveva una passione sopra le altre: amava individuare l’entrata dei numerosi bunker tedeschi di cui il Carso triestino era disseminato, normalmente nascosti sotto cumuli di terra e vegetazione, per poi ispezionarli e scoprirne i loro contenuti. Nella zona dove vivevamo noi ad Opicina, in quegli anni (primi anni ’70), grazie al fatto che nessuna autorità si era presa la briga di censirli e catalogarli, era ancora possibile trovare al loro interno molti residuati bellici ed infatti lui ci trovò elmetti, caricatori, bossoli, maschere antigas con tanto di borsetta, bombe a mano e, ma fu un eccezionale ritrovamento, quello di una mitragliatrice tedesca MG 34 calibro 7,92 mm con tanto di treppiedi e caricatore.

    Tutti noi ragazzini italiani avevamo in testa un elmetto tedesco della Seconda guerra mondiale trovato da lui.

    Divertente fu quella volta che, scoperta l’entrata di un bunker, vi entrammo muniti di una semplice e poco luminosa torcia a batterie. Insufficiente a farci vedere dove mettevamo i piedi, Diego esprimendosi in triestino, disse: Muli mi go cago

    Poiché di triestino all’epoca io non conoscevo una sola parola, non capii il vero significato della frase che era ragazzi io ho paura, quindi gli risposi ingenuamente: Sapete che anche a me scappa la pipì?

    Nel bunker risuonò una fragorosa risata.

    I nazisti erano i nostri idoli.

    Nelle nostre camere da letto, nelle scarne librerie dove gran spazio era occupato dai fumetti, tutti noi avevamo immancabilmente la serie completa dei libri scritti da Sven Hassel; uno scrittore danese autore di romanzi ispirati alle battaglie della Seconda guerra mondiale che lui voleva far credere autobiografici ma che probabilmente sono solo un sapiente mix di esperienze vissute e fantasia. Mi sembra difficile credere infatti che un semplice militare, quale lui dice di essere stato, possa aver fatto la campagna di Russia, combattuto con Rommel, partecipato alle battaglie sia in Italia che in Grecia.

    Questo scrittore ci attirava in quanto raccontava la guerra dal punto di vista di un semplice carrista, accompagnato dal suo indissolubile gruppo di commilitoni. La sua visione dal basso e non dall’alto, con il racconto di tutte le brutture e del grande dolore che ogni guerra genera negli uomini, ci faceva partecipare attivamente, con la mente, a tutte le sue avventure tanto da riuscire a farci sentire i suoi personaggi come nostri fidati compagni d’armi. Abituati come eravamo a studiare la storia con un certo distacco, con lui si riusciva a vivere la guerra per quello che realmente è: spietata, cruenta, violenta ma allo stesso tempo esaltante e adrenalinica.

    Quando affermo che i nazisti erano i nostri idoli bisogna tenere in dovuta considerazione che a quei tempi noi eravamo ragazzini di undici, dodici anni e che non sapevano nulla delle ideologie naziste e poco o nulla della guerra da poco conclusa.

    Noi, in realtà, idolatravamo solo il militare tedesco il quale, ai nostri occhi, era invincibile. Con un notevole sforzo di immaginazione, che solo i ragazzini possono plasmare, ci immedesimavamo in loro trasformandoci di fatto in soldati pronti a morire per la Patria.

    I nostri principali nemici erano gli abitanti slavi, residenti in Italia e nello specifico a Trieste, in quanto rei non solamente di parlare la propria lingua in nostra presenza ma, soprattutto, di rivendicarne i territori, affermando che era terra loro, era slava: Trst je nas!

    Giusto per far comprendere quale spirito ci animasse a quei tempi, basti pensare che uno dei miei sogni più ricorrenti ed allo stesso tempo più avvincenti era quello dove con un manipolo di amici mi ritrovavo nella boscaglia attorno a Opicina e, sceso in paese durante la notte, riuscivo ad uccidere un numero significativo di sloveni senza essere a mia volta mai colpito, né tantomeno scoperto dalla Polizia italiana.

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