Qualche volta eri felice
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Anteprima del libro
Qualche volta eri felice - Raffaele Ceriello
Baustelle
POESIE
Q uesta è l’ora del nostro viaggio.
Amen.
È l’ora dei lamenti da costa a costa.
Per i pochi che la vedranno.
È l’ora della nostra colazione di vomito.
Delle poppate sottocoperta.
Questa è l’ora degli occhi sbarrati nel buio.
Delle mani che sbranano i sogni.
Questa è l’ora del nostro viaggio. Amen.
L’ora del vostro rifiuto quotidiano.
Questa è l’ora del nostro viaggio. Amen.
L’ora delle impronte digitali e
degli sguardi di disapprovazione.
L’ora dei Tg, dei fotografi
che sparano sulla nostra miseria.
Questa è l’ora del nostro approdo. Amen.
È la nostra ora più nera.
Quando,
gonfia di stelle, la notte
carezzerà il tuo canto…
e quando
nelle sere a mortificare il verbo
calerò sui tuoi seni,
nella penombra della stanza affacciata sul muro
le nostre mani piccole
saranno fuochi.
Io sarò torcia per te e tu sarai vento.
In quelle stesse notti chiare
Le nostre gole saranno piene e
i nostri nervi esploderanno ancora.
Cosi saremo solo più lontani
dalle nostre Via Toledo e
dai mercatini di Natale al borgo.
Ci convocheremo per litigare
le domeniche in cassaintegrazione.
I giorni non retribuiti del nostro
fragile amore saranno punti neri
sulla tua schiena in odor di donna.
Non sapremo dirci no.
Vennero a chiedermi del nostro torto.
Uno in mano aveva una penna nera,
l’altro un contratto senza ferie e malattie.
Mia madre mi implorava di firmare
Mia moglie mi chiedeva di accettare.
Mio padre muto
in un angolo del suo cuore
malandato.
Firmai.
Per gli occhi di mia figlia Giulia e il suo pigiama scuro.
una Barbie senza naso e senza culo.
E ballaballa ballerino...
Vennero a prendermi un pomeriggio di luglio.
Ponticelli era un deserto caldo e appiccicoso.
Me ne andai cosi.
Per gli occhi di mia figlia Giulia,
l’innocenza di una bimba che ride
al tonfo immobile di una sirena.
Me ne andai cosi
Con la vergogna che provavo.
E ballaballa ballerino.
Una sedia
una corda
Un voucher e un
Vaffanculo...
Vago
e sillabo il tuo nome
tra le tasche vuote e le maniche della
giacca rotte.
Con le scarpe marroni della tua prima comunione
con il mestolo per il pesto che ti ha fatto
male.
Vago
e sillabo il tuo nome
tra le barche in mare aperto e
la percentuale dell’amore mancato
nelle notti rosse d’estate.
Vado svanendo
negli abissi dei tuoi quadratini
tra le equazioni delle elementari e
sento il tuo nome pronunciato male.
E altrove.
Lontano da quella stanza che ti ha fatto male
dalle bambole bionde e nere.
Al minuto ottantasei un lancio lungo del
capitano
capita nel tuo brodo freddo e ridi.
Ridi.
Come quella sera al pronto soccorso
con la macchina senza benzina e il gesso
bianco tra noi due e
la luna.
Ho avuto un sogno
che ho pagato col sangue,
con gli occhi colmi di lacrime
a Natale.
Spezzato da una scossa
improvvisa,
da un rumore assordante
di case venute giù.
Ho avuto un sogno fin dentro il mio sparo,
nell’alito pesante dei miei carnefici,
nei maglioni di lana dei loro figli,
nel cotone freddo dei miei.
Tra le auto che passano veloci
sulle mazzette per la ricostruzione,
su: io non ho visto niente,
non ho sentito niente,
Io non ero qui.
Ho avuto un sogno. Duro da masticare.
E strette di mano pregne di indifferenza...
... e venga il tuo regno sulle facce ripulite a festa
tra le fasce tricolori macchiate di omertà,
sui sorrisi finti che calpestano i miei occhiali,
sui balconi appassiti, sui fiori splendenti a lutto,
sugli inverni che non riscalderanno.
Sulle dita che coprono inciuci.
Sui corpi dilaniati al sole di mille schede elettorali
lasciate a svolazzare sempre lo stesso cognome.
Ho avuto un sogno che ho pagato con il sangue.
Terramia
Pensarti libera e civile...
Per tutte le volte
che mi sei precipitata addosso,
inciampando tra le stringhe
dei miei stivali nuovi
luccicati con cura.
Per le volte che ti ho afferrato,
mentre fischiettavi un motivetto allegro.
Per quelle e le altre ancora.
Per non esserti lasciata impietosire
dai miei occhi gonfi,
dalle bugie a maniche corte.
Per tutte le volte che sei precipitata,
ed io ero a pochi metri.
O più avanti o più indietro.
Denutrito, nelle mie scarpe nuove lucidate dal tempo e
invecchiate con cura.
Per le stagioni andate a male senza
gesti d’amore.
Per la parola amore:
troppe volte irrisa e troppe volte abusata.
Per la penna del poeta in rivolta,
per le catene dei preti.
Per noi,
uccisi in galera.
Per Anna, Luisa e Carlo.
Andrej e Ludmilla e i loro figli
perduti nel freddo.
Per mio padre e le sue mani callose,
mio fratello e la sua barba.
Mia mamma,
solo mia.
Nel tempo che ci asciuga le ferite
che grondano odio e tenerezza.
Per le primavere tatuate sugli occhi.
E per me, Mai.
Prima o poi,
tutto il mondo crolla.
Non c’è bisogno di urlare…
Ad un cero punto,
quando meno te l’aspetti,
tutto il mondo cessa di esistere,
per te.
Puoi parlare per ore di Modena o Siena,
delle stagioni passate in laguna.
Puoi aspettarti nulla
O rintanarti nelle assolate Catania,
nelle ventose Triste.
Nei vigneti o nei terreni
confiscati alla malavita organizzata.
Ad un certo punto
Quando le tue unghie saranno molli