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La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]
La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]
La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]
E-book317 pagine4 ore

La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]

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Info su questo ebook

Isabella continua a cacciare gli zombie, ma non solo. Cerca risposte e rivelazioni che possano far luce sui lati oscuri di suo padre e sul misterioso “Progetto Proteus” che minaccia l’esistenza del pianeta.
Il suo cammino si intreccia con quello di altri cacciatori di zombie per un breve tratto, poi Bella è risucchiata nel circolo vizioso dei maneggi politici che la trascinano in un vortice di avventure e la conducono sempre più addentro al labirinto delle bugie, esposta alle minacce di loschi individui, con la sola certezza di non potersi sottrarre al proprio destino.
Ma, benché lontano, c’è una scintilla di speranza

“Ho perso molte persone care, tutta la mia esistenza è stata stravolta da eventi impossibili da controllare e ancora non sono riuscita a capire quale sia il mio ruolo in tutto questo. L’unica certezza mi è data dal sapere che sono custode di un segreto, un’eredità pesante con cui devo convivere e che mi dà la forza di andare avanti e continuare a combattere.
Non posso sfuggire al mio destino.”

Dopo La cacciatrice di zombie (2017), Isabella Grey è ancora la protagonista di questo secondo romanzo, dove in un alternarsi di avventurose fughe, incontri inattesi, minacce più o meno nascoste, si evidenzia la connessione con Progetto Genesis: Protocollo Spectrum (2015) e il legame esistente fra i personaggi principali.
Al centro della narrazione ci sono sempre gli zombie, ma coesistono con armi di distruzione di massa così devastanti e terribili da far tremare i polsi, e manovre politiche, giochi di potere, guerre senza tregua. Lo scenario si fa sempre più inquietante e sinistro, benché esista sia pur debole un’ultima scintilla che fa sperare nella redenzione del genere umano, o almeno nella sua salvezza.

SERIE “LA CACCIATRICE DI ZOMBIE”:

1. “LA CACCIATRICE DI ZOMBIE”
2. “LA CACCIATRICE DI ZOMBIE. PROGETTO PROTEUS”

SERIE “PROGETTO GENESIS”:

1. “POST MORTEM”
2. “PROTOCOLLO SPECTRUM”

L’AUTRICE
Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le consentono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.

 
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2018
ISBN9788828322191
La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]

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    Anteprima del libro

    La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II] - Angela P. Fassio

    Angela P. Fassio

    La cacciatrice di zombie

    P r o g e t t o  P r o t e u s

    Romanzo

    Della stessa autrice in formato eBook

    Il paladino

    La cacciatrice di zombie [Vol. I]

    La croce di Bisanzio

    La Dama Nera

    La reliquia perduta

    Progetto Genesis. Post Mortem [Vol. I]

    Progetto Genesis. Protocollo Spectrum [Vol. II]

    Navigatori del tempo e dello spazio

    La cacciatrice di zombie. Progetto Proteus [Vol. II]

    I edizione digitale: maggio 2018

    Copyright © 2018 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 9788828322191

    Immagini di copertina:

    © 123RF | Modelli: Leo Lintang | Sergiy Tryapitsyn | Andrey Kiselev

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    Prologo

    Mi chiamo Bella e vado a caccia di zombie, ma non solo, da quando ho scoperto dei lati oscuri nella mia vita sui quali voglio indagare.

    Ho lasciato la riserva indiana di Little Creek e i miei amici per intraprendere una ricerca che finora si è rivelata deludente. Vige uno stato di anarchia totale, dopo che il virus mortale ha ucciso milioni di persone. Dopo la presunta morte del Presidente e del suo staff. Dopo che l’Esercito Separatista ha assunto il controllo e scatenato il terzo conflitto mondiale, siamo precipitati cento anni indietro nel tempo.

    Ho perso molte persone care, tutta la mia esistenza è stata stravolta da eventi impossibili da controllare e ancora non sono riuscita a capire quale sia il mio ruolo in tutto questo. L’unica certezza mi è data dal sapere che sono custode di un segreto, un’eredità pesante con cui devo convivere e che mi dà la forza di andare avanti e continuare a combattere.

    Non posso sfuggire al mio destino.

    1

    L’edificio sembrava in buone condizioni, a parte qualche foro di proiettile sparso sulla facciata e i vetri rotti delle finestre.

    Un’insegna arancione lampeggiava a intermittenza sopra l’ingresso, ma dentro non si scorgevano luci. Lasciai la moto e col fucile a canne mozze imbracciato mi avvicinai prudente.

    La neve fresca smorzò il suono dei miei passi.

    Ero ormai a poca distanza dalla porta che qualcosa di grosso e pesante aveva sfondato, quando una voce gridò un ordine: «Altolà. Posa a terra il fucile e alza le mani bene in vista!»

    Obbedii. Il tizio che aveva parlato era protetto dal buio e forse non era solo.

    «Adesso vieni avanti lentamente.»

    Davanti all’adito immerso nell’oscurità mi venne puntata in faccia una torcia e la luce improvvisa mi accecò.

    «Non ti muovere», intimò la voce. «Chi sei?»

    «Isabella», risposi. «E tu?»

    «Le domande le faccio io.»

    «Piantala con questa sceneggiata. Non sono uno zombie e non ho cattive intenzioni. Sto solo cercando un rifugio per la notte.»

    Lui mi osservò qualche minuto, poi abbassò la torcia e mi venne incontro. Sorrideva, ma non smise di tenermi sotto tiro. «Sono Arnold, ma puoi chiamarmi Arnie.»

    «E tu puoi chiamarmi Bella.» Ci stringemmo la mano e finalmente la pistola scomparve.

    «Scusa l’accoglienza, ma di questi tempi bisogna essere cauti. Che fai in giro tutta sola?»

    Mi tenni sul vago. «Sono diretta a nord. Tu, invece?»

    «I miei compagni e io stiamo portando in salvo della gente. Anche noi ci dirigiamo a nord e potremmo fare un po’ di strada assieme, se ti va.»

    «Ci penserò. Intanto potrei passare la notte qua, se sei d’accordo. C’è un riparo per la moto?»

    «C’è una rimessa là in fondo, dove abbiamo parcheggiato i nostri mezzi. Ti accompagno.»

    Recuperai il fucile, presi la Harley e lo seguii fino alla rimessa che ospitava una mezza dozzina di veicoli. «Quanti siete?» domandai.

    «Troppo pochi per proteggere in modo efficace gli sfollati, ma facciamo del nostro meglio.»

    Sistemai la moto e prelevai le armi. Il resto era nello zaino. «Come vi procurate ciò che serve per sopravvivere?»

    «Qua e là, dove capita. Oggi siamo stati fortunati perché il magazzino è ben fornito, ma non è sempre così. Dai, vieni che ti faccio conoscere gli altri.»

    Il gruppo era eterogeneo, formato da elementi assai diversi provenienti dai più svariati ceti sociali e multietnico. Una quindicina in tutto, fra ragazzi e ragazze, che mi diedero l’impressione di non essere molto affiatati. Alcuni di loro, latinoamericani, se ne stavano per proprio conto, come si fossero aggregati perché non avevano altra scelta. Gli sfollati erano più numerosi e ne facevano parte anziani e donne con bambini. Questi, radunati in un angolo, avevano l’aria spaurita e macilenta di chi aveva perso tutto e doveva fare affidamento su altri per sopravvivere.

    Decisi che mi sarei trattenuta solo per un breve periodo, giusto per fare un po’ di strada in compagnia, dato che mi ero sentita molto sola dopo aver lasciato la riserva e il calore della famiglia di Kyle. La solitudine aveva dei vantaggi ed essendo indipendente per carattere non mi pesava dovermi arrangiare, però richiedeva di stare continuamente all’erta e alla lunga diventava logorante.

    «Ragazzi, lei è Isabella», mi presentò Arnie, poi passò a elencare i loro nomi indicandoli uno a uno. «Paul, Mark, Kenny, Mike, Patty, Julie, Billy e Lara. Quelli laggiù, invece, sono Diego, Josè, Pablo, Ramon, Felipe e Carlos.»

    «Ciao a tutti», dissi con un sorriso che soltanto qualcuno ricambiò. Non che mi fossi aspettata un’accoglienza entusiasta, ma neanche tanta freddezza, per non dire ostilità.

    «Isabella, anzi Bella, ci farà compagnia questa notte e forse viaggerà assieme a noi per un tratto», riprese Arnie cercando di inserirmi nel gruppo. «Sarebbe gentile darle il benvenuto.»

    «Benvenuta, Bella», dissero in coro come una scolaresca.

    «Grazie. Farò il possibile per non darvi fastidio.»

    Arnie scosse il capo. «Non farci caso. Vedrai che diventeranno più cordiali. Se hai fame, serviti pure. C’è da mangiare in abbondanza.»

    «Prenderò qualcosa. Le mie provviste sono quasi esaurite.»

    Scaffali ed espositori del market erano davvero ben forniti e anche se si vedeva che c’erano state razzie il posto era così distante da centri abitati e dalle strade più battute da essere stato risparmiato dalle bande di sciacalli che ormai imperversavano ovunque. Mentre prelevavo un assortimento di viveri, bibite e acqua, parlammo un po’.

    «Da dove vieni, Bella?»

    «Dal Michigan. E tu?»

    «Dall’Oregon. Salem, per la precisione. Fino a due anni fa ero nell’esercito e dopo il congedo sono tornato a casa con l’idea di farmi una famiglia, ma la situazione è precipitata e così eccomi qua.»

    «Quei ragazzi li hai portati dall’Oregon?»

    «No, li ho raccattati per strada. Erano degli sbandati e me ne sono preso cura. Li ho anche addestrati a combattere.»

    «Gli hai dato uno scopo. Bello, da parte tua.»

    «Difettano in disciplina, ma sono bravi ragazzi. Quasi tutti, almeno. I portoricani sono tipi più difficili. Non riconoscono altra autorità che quella del loro capobanda, Diego, e stanno con noi per opportunismo. Credo che se ne andranno appena avremo portato gli sfollati a Fort Wayne, dove c’è un centro di raccolta.»

    «Fort Wayne è piuttosto lontano e in una zona impervia. Non ce ne sono di più facili da raggiungere?»

    Lui si strinse nelle spalle. «Non ne conosco altri.»

    «Ti sei assunto un compito gravoso.»

    «Non più che portare in salvo dei profughi in Afghanistan. Gli zombie sono meno pericolosi dei talebani.»

    «Già, non ti sparano e non usano esplosivi. Come mai non ti sei arruolato di nuovo?»

    «Ero stato richiamato al mio reparto, ma non mi sono presentato. Non volevo essere costretto a combattere contro dei compatrioti. Nessuno vincerà questa guerra.»

    «Quanto c’è di vero nelle notizie di un’invasione russo-cinese?»

    «Non si sa. Ho tentato di saperne di più dai miei commilitoni, ma anche loro non hanno informazioni degne di fede. Nessuno sa che fine abbia fatto il Presidente e la situazione è più caotica che mai. Non è nemmeno chiaro chi sia il nemico, ma si combatte quasi ovunque, specie nei dintorni di Washington, allo scopo di indebolire l’esercito separatista.»

    «Ne sei sicuro? Poco fa dicevi che non ci sono notizie certe.»

    «È così, ma ogni tanto riesco a mettermi in contatto con un vecchio amico tramite il telefono satellitare, quando il satellite funziona.»

    «Credevo che il blackout fosse totale.»

    «I militari sono riusciti a ripristinare le comunicazioni che gli servono e anche qualche rete locale, benché funzioni in modo discontinuo. Se vuoi un consiglio, non andare verso la capitale.»

    «Non posso evitarlo.»

    «Allora ti auguro buona fortuna», replicò sorridendo. «Nel frattempo puoi viaggiare assieme a noi, almeno finché le nostre strade si separeranno.»

    «Accetto la tua offerta, anche se ho l’impressione di non piacere ai tuoi ragazzi.»

    «I nuovi arrivati destano sempre un po’ di diffidenza. Succede anche nell’esercito con le reclute, ma poi si diventa amici. Scusa, ma adesso devo andare a stabilire i turni di guardia. Laggiù ci sono i servizi e se vuoi un angolo tranquillo per dormire hai solo l’imbarazzo della scelta. Domani si parte alle prime luci.»

    Di spazio ce n’era in abbondanza, ma per non sembrare schizzinosa tornai nella stanza sul retro dove erano accampati gli altri. Arnie dava ordini col piglio di un vero comandante e i prescelti per montare la guardia ubbidirono senza fare storie. Adocchiato un posto libero fra i giacigli preparati per dormire, alcuni già occupati, lo raggiunsi e prelevai il sacco a pelo dallo zaino. Lo stesi sul pavimento cercando di non disturbare i miei vicini e sedetti con la schiena appoggiata alla parete per mangiare una barretta e sorseggiare un po’ d’acqua.

    «Ciao, io sono Lara», disse la ragazza del giaciglio accanto sollevandosi sul gomito. «Tu sei Isabella, giusto?»

    «Giusto, ma puoi chiamarmi Bella.»

    «Arnie, cioè il comandante, ti ha arruolata?»

    «Non esattamente. Viaggerò con voi per un po’.»

    «Come sei arrivata fin qua da sola?»

    «Con la moto.»

    «Sei molto coraggiosa. Che facevi prima?»

    «Andavo a scuola. E tu?»

    «Studiavo anch’io, finché sono scappata da casa con un ragazzo e ci siamo messi nei guai.»

    «Mi dispiace.»

    Si strinse nelle spalle. «La maggior parte di noi ha trascorsi turbolenti e se non fosse stato per Arnie saremmo finiti male. Lui è una brava persona. Te l’ha detto che era un soldato?»

    «Sì, mi ha accennato qualcosa.»

    Il nostro bisbigliare attirò le altre due ragazze, Julie e Patty, curiose di sapere di cosa stessimo parlando. Anche loro avevano storie tristi alle spalle e non persero l’occasione di raccontarle. Così l’iniziale diffidenza nei miei confronti fu superata e diventammo quasi amiche. Le chiacchiere, nostre e di altri, furono interrotte da Arnie quando ordinò di mettersi a dormire. La luce, fornita da una sola lampada penzolante dal soffitto, fu spenta, e col buio scese anche il silenzio.

    Il mio sonno, più profondo del solito perché mi sentivo al sicuro, fu turbato da un incubo.

    Era notte e nevicava fitto. Guidavo un’auto su una strada sconosciuta in mezzo alla foresta quando a un tratto i fari illuminarono la figura di un uomo che agitava le braccia facendo segno di fermarmi. Viaggiavo veloce e non riuscii a frenare in tempo ed evitare d’investirlo. Le ruote slittarono sull’asfalto ghiacciato e lo urtai con violenza. Cadde sul cofano, battendo il viso sul parabrezza, poi fu scaraventato a terra. Spaventata, mi precipitai fuori dall’auto e mi avvicinai al corpo riverso. Mi chinai su di lui, che aveva il viso insanguinato, e le sue mani mi afferrarono. Mi attirò a sé con forza e fu allora, con un sussulto d’angoscia, che riconobbi Edward.

    «Aiutami, Bella! Ti supplico, aiutami!»

    Mi svegliai di soprassalto, tremante, interrogandomi sul significato, se ce n’era uno, di quel sogno orribile. Edward era morto, almeno così mi era stato detto, ma non avevo mai visto il suo corpo e spesso mi ero chiesta se era vero oppure, per qualche oscura ragione, mi avessero mentito. Non ero convinta di essere una sensitiva, benché una volta fossi riuscita a evocare uno spirito, tuttavia non mi sentii di escludere che Edward, tramite il sogno, mi avesse mandato una richiesta d’aiuto. Non sapevo però in che modo avrei potuto aiutarlo.

    Mi arrovellai a lungo finché, esausta, mi riaddormentai.

    2

    «Brutti sogni?» chiese Lara il mattino dopo, mentre ci preparavamo a partire. «Ho sentito che ti agitavi nel sonno, stanotte.»

    «Incubi», risposi ripiegando il sacco a pelo.

    «Nessuno riesce a dormire sonni tranquilli, ormai», sospirò Julie.

    Intorno l’attività era quasi frenetica e con Arnie che sbraitava ordini si aveva davvero l’impressione di essere in caserma.

    «Ragazze, non state a gingillarvi e muovete i culetti. Mark, voglio quei furgoni fuori dalla rimessa entro cinque minuti. Diego, tu e i tuoi occupatevi di far uscire questa gente e di caricarla sui mezzi.»

    Diego borbottò qualcosa, ma obbedì.

    Gli sfollati, soprattutto gli anziani, si lamentavano. Qualche bambino piagnucolava, ma i portoricani si mostrarono molto efficienti nel radunarli, metterli in fila e condurli alla porta. I motori dei furgoni rombavano nell’aria gelida del mattino producendo un gran fumo. Sistemato lo zaino in spalla, ora più pesante per le provviste, mi sbrigai a uscire, ma sulla soglia mi si parò davanti uno dei portoricani e fui obbligata a fermarmi.

    «Dove corri, biondina?» Il suo sorriso beffardo era irritante.

    «A prendere la mia moto», risposi nel modo più educato possibile.

    «Quel bolide è tuo?»

    «Sì, perché?»

    «Mi piacciono le grosse moto, e ancora di più me gustano le belle chicas che le cavalcano. Sono molto sexy.»

    «Il tuo apprezzamento mi lusinga, ma adesso sii gentile e lasciami passare.»

    Il suo sogghigno si accentuò. «Se no che mi fai?» La sua grande mano tatuata si allungò verso di me.

    «Ti spezzo le dita se ti azzardi a toccarmi.» Lo fronteggiai senza farmi intimidire dalla sua stazza e lui capì che non scherzavo.

    «Okay.» Indietreggiò e passai oltre spedita per dirigermi alla rimessa.

    Sullo spiazzo dove sostavano i furgoni ormai carichi di sfollati incontrai Arnie.

    «Ramon ti ha infastidita?»

    «No, tranquillo.» Il tipo era uno zotico, ma non volevo causare grane.

    «Se ti crea problemi dimmelo e lo rimetto in riga.»

    «Sono capace di tenerlo a bada, non preoccuparti.»

    «Non ne dubito», sorrise lui. «Senti, dato che in moto viaggi più veloce di noi coi furgoni carichi, vorrei che facessi da battistrada. Il fronte di guerra si allarga, secondo quanto ho captato stanotte dal satellitare, e dovresti tenermi informato su eventuali movimenti di truppe nella zona. Oppure se avvisti degli zombie.»

    «Certo, ma in che modo potrò comunicare con te?»

    «Con questo. Si chiama walkie-talkie, e il tipo originale funzionava solo su distanze molto brevi, ma gli ho fatto qualche modifica e adesso riceve e trasmette anche da due o tre miglia.»

    «Una specie di radio.»

    «Sì, ed è già sintonizzato. Devi solo premere questo pulsante per parlare e quest’altro per l’ascolto.»

    «Okay.» Infilai il dispositivo nella tasca del giubbotto e montai sulla moto.

    «Buona fortuna», mi augurò Arnie.

    Gli feci un cenno e guidai lentamente sulla strada. Appena vidi che i furgoni partivano uno dietro l’altro, accelerai e presi vantaggio.

    La giornata era nuvolosa, ma almeno non nevicava e la visibilità era buona. Il paesaggio che scorreva ai lati della Statale 18 era bianco e appariva disabitato. Una visione spettrale sulla quale lasciai scorrere lo sguardo, sentendo una fitta di tristezza per il senso di desolazione che trasmetteva. Trattori lasciati arrugginire nei campi, veicoli abbandonati sui margini della strada, camion rovesciati nei fossi, carcasse bruciate di autobus. In distanza avvistai del fumo levarsi da una città e ne intravidi il nome sul cartello stradale all’incrocio: Peonia. Passai oltre senza incontrare segni di vita per un paio di miglia, quando un autobus proveniente dalla direzione opposta e lanciato a grande velocità, sbandò e per poco non ne fui travolta. In qualche modo l’autista riuscì a evitarmi ma, mentre mi arrestavo con una frenata e una derapata, il lungo e pesante veicolo privo di controllo slittò, andando a urtare con la fiancata alcune macchine. L’impatto violento lo fece capovolgere e l’inerzia lo trascinò per un lungo tratto, prima che si fermasse contro la spalletta deformandola.

    L’intera fragorosa sequenza si svolse in pochi istanti, seguita da un improvviso silenzio infranto, subito dopo, dalle grida disperate dei passeggeri intrappolati fra le lamiere contorte. Lasciai la moto e mi precipitai verso l’autobus accartocciato col motore surriscaldato e col serbatoio che perdeva carburante. C’era il rischio di un incendio e di un’esplosione che avrebbe ucciso tutti gli occupanti se non mi fossi sbrigata a farli uscire. Facce stravolte e sanguinanti apparvero dai finestrini rotti e un coro di voci invocò il mio aiuto. L’autista era morto e le porte erano bloccate, perciò i finestrini erano l’unica via di scampo. Ma ero da sola e dentro l’autobus c’erano almeno una trentina di persone, molte sicuramente ferite in modo grave e impossibilitate a muoversi senza l’aiuto di qualcuno. Pensai ad Arnie e ai furgoni che non dovevano essere troppo distanti e chiamai col walkie-talkie, sperando di poterli raggiungere.

    «Arnie, sono Bella. C’è stato un incidente e mi serve aiuto per salvare della gente. Passo.»

    Il dispositivo gracchiò, poi giunse la risposta: «Ci sono. Stiamo arrivando. Passo e chiudo.»

    Nel frattempo mi diedi da fare per estrarre quante più persone mi era possibile facendole passare dai finestrini in fondo al mezzo, ma per quanto mi affrettassi e alcuni volenterosi mi dessero una mano non eravamo abbastanza veloci e la fuoruscita del carburante aveva ormai formato una pozza che anche una piccola scintilla sarebbe bastata a innescare il fuoco e lo scoppio.

    «Aiuto! Aiuto!» gridarono quelli ancora imprigionati.

    Poi sentii il suono di un clacson e il primo furgone arrivò. Appena fermo, Arnie scese con Mark ed entrambi mi raggiunsero accanto al veicolo rovesciato.

    «Quanti sono rimasti dentro?» chiese Arnie.

    «Una quindicina, credo. I più gravi che non possono muoversi», risposi. «Dove sono gli altri?»

    «Saranno qui fra poco.» Si rivolse a Mark. «Prendi l’estintore e le tronchesi da lamiera, bisogna praticare un’apertura sul fianco.»

    Mentre Mark eseguiva, uno dietro l’altro sopraggiunsero i furgoni e in pochi minuti la squadra al completo si mise all’opera. La schiuma dell’estintore evitò che il taglio della lamiera provocasse scintille e appena fu aperto un varco sufficiente, coi portoricani che facevano quadrato per sorvegliare il perimetro e tenere lontani eventuali zombie, Paul, Kenny, Mark e Mike, si introdussero per il salvataggio dei passeggeri rimasti. Noi ragazze, con Arnie che dava direttive, prestammo i primi soccorsi, ma risultò evidente che parecchi feriti dovevano essere ricoverati in ospedale e lo feci presente ad Arnie.

    «Le nostre cure per il momento bastano, ma senza l’intervento dei medici non se la caveranno. Servono medicine e attrezzature.»

    «Lo so. Sui furgoni c’è ancora posto e possiamo sistemarli in piccoli gruppi per trasportarli al più vicino centro medico.»

    «Ne conosci qualcuno da queste parti?»

    «C’è la clinica Mariposa a due miglia da qui, ammesso che sia ancora aperta.»

    «Abbiamo alternative?»

    Sorrise e scosse il capo. «Nessuna, purtroppo. Coraggio, diamoci da fare.»

    Caricare sui furgoni gli sfortunati passeggeri dell’autobus richiese tempo e anche una buona dose di fatica per trasportare chi non era in grado di camminare. Alcuni profughi protestarono per l’eccessivo affollamento dei vani, ma Arnie minacciò di lasciarli per strada e si calmarono. Avevamo quasi finito quando Diego avvisò che c’era un’orda di zombie in arrivo.

    «Uccidetene quanti più potete, poi ritiratevi uno alla volta e salite sui furgoni. Dobbiamo sbrigarci.»

    Diego assentì. Anche se non gli piaceva prendere ordini riconosceva l’autorità di Arnie e davanti a un pericolo obbediva.

    «Bella, tu ci devi precedere con la moto, ma non distanziarci troppo e dopo il cavalcavia svolta a sinistra e prosegui diritto fino al bivio per Decatur. Lì c’è una strada secondaria che porta alla clinica.»

    «Okay», risposi correndo alla moto mentre gli spari echeggiavano e abbattevano gli zombie che arrancavano nella neve. Montai in sella e col motore che rombava al massimo aspettai che Diego e i suoi, ripiegando, raggiungessero i furgoni. Appena si avviarono, partii anch’io per fare da battistrada.

    Tuttavia, poco oltre, scoprii con disappunto che un gruppo di zombie ciondolava in mezzo alla strada e capii che l’attacco di prima era stato una specie di diversivo. Arrestai la moto e coi piedi ben piantati a terra imbracciai il fucile a canne mozze, caricato con proiettili esplosivi, e feci fuoco. Quel tipo di proiettile aveva una forza di penetrazione dirompente e letteralmente disintegrava il bersaglio. Man mano che li colpivo i loro corpi esplodevano e i brandelli, quasi atomizzati, schizzavano nell’aria colorandola di rosso. Sparai all’ultimo mentre ero già in movimento e passai attraverso la nube di sangue e materia organica ancora prima che si depositasse sull’asfalto. Qualcosa di appiccicoso si incollò alla visiera del casco e lo spazzai via con la mano, riponendo il fucile nella fondina appesa al sellino, e sfrecciai sulla strada finalmente sgombra.

    Un miglio dopo apparve il cavalcavia. Lo superai e svoltai a sinistra, dando un’occhiata dietro per controllare che i furgoni mi seguissero, poi proseguii in direzione di Decatur, che rievocava duri scontri al tempo della Guerra Civile e che adesso riviveva un periodo analogo, se non peggiore. Giunta al bivio girai di nuovo a sinistra per imboccare la strada secondaria, fiancheggiata da alberi, in fondo alla quale apparve un edificio piuttosto grande, che nello stile ricordava le residenze signorili di una volta. Il bianco di cui era dipinto era ingiallito e un elegante colonnato ornava la parte frontale.

    Fermai la moto sullo spiazzo antistante, dove era parcheggiata un’ambulanza che, a giudicare dallo strato di neve di cui era ricoperta, non era usata da parecchio, e tolsi il casco. Quando guardai verso l’ingresso, situato sotto il colonnato a cui si accedeva da una breve scalinata, vidi una donna in camice bianco che imbracciava un fucile. Spensi il motore, stabilizzai la moto,

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