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Danzare nel buio - Biografia e autobiografia nella narrativa
Danzare nel buio - Biografia e autobiografia nella narrativa
Danzare nel buio - Biografia e autobiografia nella narrativa
E-book269 pagine3 ore

Danzare nel buio - Biografia e autobiografia nella narrativa

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Info su questo ebook

Questo prezioso libro contiene due testi. Il primo è la storia di Marina e Carlo, innamorati per bisogno. Quando lui si ammala, affrontano ansie; lei s'innamora del giovane Nino… L'affetto per Carlo, la ricerca di autoconsapevolezza salverà l'unione? Scorrevole e vivace (anche per i vividi personaggi del figlio Andrea e della zia-mamma Clara), il racconto svela i suoi sensi lungo brani che si alternano musicalmente: una buona sonata per l'anima. Forse thriller psicologico, Pennavaja l'ha scritto per tutti: tutti abbiamo sogni, desideri, e il bisogno di pacificarci con noi stessi, con il nostro passato e il nostro destino.

Il racconto dell'autrice (da 40 anni scrittrice in Germania, Olanda, Italia, docente nella sua "Casa della scrittura") è autobiografia "filtrata": frutto di esercizio intenso in uno stile che nutre ed emoziona.

Il secondo testo è un saggio che, analizzando brani di narrativa europea, insegna a evitare le trappole dell'autobiografia diretta. L'autrice, traduttrice esperta di musica, dà le regole basilari per non cadere negli errori di un linguaggio sciatto o "rumoroso"; mostrando esempi di uno stile semplice ma ricco, che produce scritti appetitosi in ogni stagione. Questo saggio, adatto anche a chi scrive per diletto, è di grande aiuto per chi aspira a creare un racconto o un romanzo artistico.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2023
ISBN9791221436907
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    Anteprima del libro

    Danzare nel buio - Biografia e autobiografia nella narrativa - Cristina Pennavaja

    1 Premonizione

    Curva sopra l'acquaio della cucina, sto lavando i piatti. Dopo avermi aiutato a sparecchiare, lui ha aperto il giornale sopra il tavolo. Con la coda dell’occhio lo vedo: si appoggia con tutto il busto sulla pagina, il mento nelle mani.

    Non guardi la televisione stasera? chiedo.

    Uhm... forse più tardi.

    È strano che legga di sera. Lo fa di giorno in ufficio. Tornato a casa, si siede al computer; poi, lasciandolo acceso, mangia, sprofonda nella poltrona davanti al televisore e vi rimane per ore. È straordinario quanto noi donne conosciamo il dietro del nostro compagno: le spalle e le braccia ricoperte dalla camicia o dal vecchio golf che si è buttato addosso dopo essere tornato a casa e averci dato un bacio fuggitivo. Però non conoscevo ancora tutto della sua schiena.

    Quante fesserie si trovano nel giornale! Questo pezzo l’ho letto due volte.

    Cercando di rendere dolce la voce, chiedo: E che c’è scritto?.

    Una donna aspetta la sua terza operazione. Le devono dare il permesso dell’azienda sanitaria, sennò non può operarsi.

    E perché non può?.

    È un’operazione molto difficile che sanno fare solo in Francia. Lei vuole avere un figlio.

    Dovrà pazientare chissà quanto! Sono problemi che per fortuna non ci toccano. Vorrei uscire dalla cucina, ma rimango al suo fianco.

    Carlo ha alzato gli occhi verso di me. Meno male che c’è Andrea. E non patiamo guai di salute.

    Mi siedo. Tiro verso di me il giornale e leggo ad alta voce: Lotta di una giovane donna costretta nel busto da grave scoliosi. In tono leggero dico: Una malattia che le garantisce il vantaggio dell’armatura. Chissà se ha l’elmo come Clorinda.

    Pronto, Carlo ribatte: Piantala di fare le tue chiose!.

    In Italia Luisa M. ha già subìto due operazioni per una grave scoliosi che le impedisce di avere figli. In questi giorni si sta discutendo presso l'unità sanitaria se potrà usufruire dell’assistenza chirurgica presso l’Hôpital de la Santé a Parigi, il cui primario sarebbe in grado di aiutarla a portare a termine una gravidanza. Sospirando commento: È un caso raro.

    Stringendo le mani lui sussurra: Nata con l’aiuto del forcipe, la donna non aveva mai lamentato dolori insopportabili, quando un giorno avvertì una scossa nelle vertebre lombosacrali....

    Diamine, Carlo, ma questo è un caso estremo.

    Dici?.

    Sicuro! confermo, cercando di tenere salda la voce.

    Usciamo dalla cucina sorridendo. Ma io sento che stiamo entrando in una stagione nuova per noi.

    2 Lo psicologo

    Sediamo sulla panca di un corridoio; una finestra con il vetro rotto lascia passare il vento di gennaio. Siamo qui da un’ora, convocati dal medico della scuola di nostro figlio, che ogni due anni lo visita e, se necessario, richiede un colloquio con uno dei genitori. Una porta cigola, si apre. Famiglia Avella?.

    .

    Prego.

    Entriamo in una stanza. Armadi, tavoli, sedie: tutto è vecchio e polveroso. Ma il medico è aitante. Camicia viola, pantaloni verdi, occhiali rossi. Il camice è piegato sopra una sedia.

    Allora, siete i genitori del nostro caro Andrea!.

    Annuiamo contenti: Sì, sì.

    Un caro, bravissimo ragazzo ripete il dottore. Poi tace.

    Sento battere il mio cuore. Carlo sta tamburellando con le dita sulle ginocchia.

    Dopo una pausa l’altro chiede: Secondo voi vostro figlio è felice?. Ha accompagnato la domanda con un gesto della mano, una sorta di punto interrogativo nell’aria.

    Ripieghiamo leggermente verso la parete che sta alle nostre spalle; vorremmo poter fuggire. La nostra reazione sembra gradita al medico, che scoppia in una risata. E anche noi cerchiamo di far eco a quella gioia.

    Un tempo la scuola non si preoccupava della felicità degli studenti, vero?.

    Sì, cioè no: ha proprio ragione.

    Oggi tutto è cambiato: il giovane è il perno intorno al quale ruota l’intero meccanismo educativo. Una rivoluzione copernicana, una lotta contro l’ignoranza!.

    Mentre l’uomo agita le braccia, non posso fare a meno di sorridere al termine lotta. E poco dopo mi viene in mente quella donna che cercava di avere un figlio operandosi a Parigi.

    Dottore, Andrea ha problemi di salute?.

    Vediamo. Si china su un foglio, lo legge muovendo rapido le labbra, lo gira, ne legge un altro. No, la salute è a posto. Nessuna cardiopatia né problemi agli arti inferiori – alluce valgo, piede piatto. Niente. Ci sorride.

    Mio marito soffre di lombaggine. Andrea ha la colonna vertebrale a posto?.

    Tutto bene. La schiena è diritta. Ma attenti al peso della cartella! Meglio lo zaino, rinforzato al giro-vita.

    Grazie, dottore! esclamiamo.

    L’altro non sorride più. Veramente un problema c’è... e infatti vi ho chiamati, come si usa in terapia familiare.

    Mio marito dice: Quale terapia familiare?.

    Vedete, ho notato che Andrea non è un ragazzo giulivo, sportivo. La cosa mi spiace. Congiunge le mani. Forse si può ancora salvare qualcosa.

    Veramente nostro figlio è garbato. E i genitori dei suoi compagni dicono che è pronto a scusarsi.

    Gli insegnanti non si lamentano.

    Il medico scoppia a ridere. Non avete capito! Volevo dire che Andrea non si interessa di sport. Non ama il calcio, non fa il tifo per nessuna squadra. Neppure la pallacanestro, il rugby. Ma vi rendete conto?.

    Mio marito ed io ci guardiamo smarriti.

    Ogni maschio adolescente, per risolvere bene il complesso edipico, ha bisogno di complicità col padre. Perciò con un’attività sportiva regolare e generosamente sfrenata. Lei, signor Avella, è disposto ad aiutarlo?.

    Carlo mormora: Non so.

    Ne va di mezzo l’equilibrio emotivo di suo figlio! Basta qualche calcio al pallone, magari la domenica al giardino....

    Mi sollevo. Dottore, ci vado io al giardino con lui. Non ho mai giocato a pallone. Ma imparerò.

    Scuote il capo. È il padre, il maschio, che deve corrispondere e, se è il caso, incitare col suo esempio. Si tratta del senso di sé, dell’identità di vostro figlio!.

    3 Un po’ di sport

    Non è una domenica come le altre. Invece di sedersi davanti al televisore, Carlo si pulisce i denti con energia, poi dice ad Andrea: Forza, andiamo a sgranchirci le gambe con la palla!.

    Ancora in pigiama, lui lo scruta perplesso. L’insolita alacrità della mano sullo spazzolino lo insospettisce. Non ne ho voglia, papà. E poi non guardi la tivvù?.

    Non dirmi che sei stanco. Quando ero ragazzo, io non ero mai stanco. Via, via! Un po’ di sano divertimento farà bene a tutti e due.

    Mi butto addosso la pelliccia finta, vecchia e bianchiccia. Indosso le scarpe.

    Sulla strada camminiamo in fila indiana: Carlo davanti, col bastone di legno che usa spesso; quindi Andrea, vestito con la sua felpa marrone, che scuote il capo in un’espressione riluttante. Li seguo in silenzio. Mio marito si dirige verso il giardino. Sulla grande fontana, giallina e rotonda, l’acqua è in gran parte ghiacciata. Sopra l’ala svettante del monumento ai Marinai d'Italia i piccioni si affollano con suoni rochi.

    Dov’è il campo di calcio? chiede baldanzoso Carlo, le mani sprofondate nella giacca di montone. L’hanno messo dietro alla Palazzina Liberty?.

    Ma quale campo, papà. È già molto se ci sono i cesti per la pallacanestro, sempre rotti, e la pista per le bocce. Sbuffando solleva le braccia. Vieni, ti porto sul prato. È il posto migliore, i miei amici ci vanno.

    Il prato è una distesa di terra biancastra su cui le lattine e altri resti creano macchie scure.

    Comincio io. Tu mettiti là, in porta. Getta il pallone a terra, lo riprende con una mano e il piede destro, lo spinge, lo rincorre. Ha coricato il bastone con lentezza, fissandolo a lungo prima di abbandonarlo. Pensaci tu, Marina forse volevano dire i suoi occhi un po’ gonfi.

    Ma siamo le uniche persone sull’erba, e cani e uccelli non usano bastone. Seguo per un poco i loro movimenti, poi mi distraggo. Sono stanca. Se non facesse tanto freddo, mi piacerebbe sdraiarmi sotto il grande cedro del Libano e gustare l’azzurro del cielo tra il verde scuro delle foglie. Da quanto tempo non passeggio, mano nella mano, in un giardino? Il cielo è di un colore livido; sotto al cappotto leggero le mie mani si stanno gelando. Battendole una contro l’altra dico: Come va il gioco?. Prima che abbia finito di parlare vedo Carlo balzare sulle gambe all’arrivo del pallone.

    Ahi!.

    Che c’è, ti sei fatto male, papà? Mamma, vieni.

    Torniamo a casa. Io sostengo Carlo. Andrea tiene il bastone. Di malavoglia lo trascina a terra, come un aquilone spezzato.

    4 Nella padella

    Carlo si mise a letto, dove rimase per due giorni. Era appena trascorsa la Pasqua, che miete vittime nella fatale congiunzione con la Festa dei Lavoratori. Alla terza giornata si mise in piedi. Vado al lavoro. Dopo tutto è solo un po’ di dolore. Mi passerà.

    Ma Carlo, almeno una radiografia! protestai.

    Vedremo.

    Speravo che si sarebbe riposato sul divano del soggiorno, e comprai tre cuscini di un bell’arancione caldo, adatto ai nostri mobili vecchiotti di ciliegio tarlato. Ma non si lasciò persuadere. Una settimana più tardi si rimise a letto.

    Smettila con le medicine. Ci vuole una radiografia. Lo fissavo risentita. Credi di essere un uomo speciale?.

    L’hai detto.

    Fare una radiografia è normale. Cosa ci trovi di così terribile?.

    Beh, non è mica una pacchia venire a sapere che la tua colonna è... insomma, non è come quella delle persone sane.

    Ma Carlo, non sai ancora cos’hai!.

    Marina, siediti. Vorrei raccontarti una cosa.

    Lo guardai negli occhi. Che vuoi dirmi?.

    Le radiografie sono nel fondo dell’armadio. Quando sono nato, l’utero di mia madre non si apriva; e siccome ero di cinque chili, alla fine hanno usato il forcipe. Mi hanno dimesso dall’ospedale con la testa fasciata di bende, come un piccolo martire. Mi ha chiamato Carlo, che significa ‘forte’. I denti sono cresciuti storti e le ossa ne hanno risentito.

    E perché hai nascosto le radiografie? sussurrai, sentendo già quanto fosse sciocca la domanda.

    Ora capisco perché mio marito aveva accarezzato Paloma con tanta delicatezza prima che mi innamorassi di lui. La gatta era ancora piccola, e Carlo le aveva permesso di salire lungo la sua gamba fino alle ginocchia, che lei aveva raspato ben bene con gli artigli delle zampe per rannicchiarsi poi contro il suo petto. Lui aveva cominciato a darle colpi leggeri sul muso indugiando dietro le orecchie; da lì era partito tutto un andirivieni di carezze sul capo, sotto il mento e poi di nuovo sopra gli occhi e sul dorso. Io lessi in quelle lunghe carezze una sensibilità del corpo e dell'anima propizia alle gioie dell'amore. Non sapevo che mio marito inseguiva con la mano i tendini e i muscoli di un organismo perfetto; ossa e articolazioni di una creatura che per solito si conserva giovane fino al momento in cui muore.

    Fino ad allora avevo creduto di essere una donna fortunata. Iscritta al coro ‘Cantosospeso’ del maestro Martinho Lutero, cantavo Gracias a la vida di Violeta Parra, Luci care luci belle di Mozart, N’kosi sikelele Africa e molte altre canzoni sia colte sia popolari, trascritte su spartito dai canti dei nativi dell’Amazzonia. Quei canti esprimevano gioia, volontà di riscatto, speranza in un mondo più giusto. Oce Nash, il Padre Nostro russo, mi portava in una dimensione di candida gratitudine; Amazing Grace mi faceva sentire la dolcezza del perdono. Poi c’erano le potenti cantate della Missa Luba, le Messe di Fauré, di Kodály, di Jansson e il travolgente Carnevale di Rossini. Che cosa volere di più? Ci incontravamo in una sala del passante di Porta Vittoria, solerti ed emozionati. Dopo gli esercizi di respirazione intonavamo la nostra parte, attenti ad ascoltare bene tutte le voci per non prevalere con la nostra. Claudia, direttrice esperta e conciliante, mi aveva messo fra i soprani. Alla fine dell’anno la Palazzina Liberty o una chiesa del centro accoglievano la piena del nostro entusiasmo e i nostri colori blu e azzurri. Partecipare con la mia voce sottile a un concerto mi faceva sentire fiore fra i tanti fiori di un prato. In casa avevo un pianoforte Steinway, il mio unico lusso. Suonarlo mi dava la sensazione di trovarmi in un’orchestra.

    La storia, forse la leggenda, narra che Chopin fu ispirato a comporre il preludio La goccia d’acqua dalle varie impressioni avute nell’interno di un’abbazia. Ma se l’immagine dell’acqua che stilla dalla pietra e cade ariosa a terra riempie tutta la prima parte con la sua grazia leggera, nella seconda si avverte un ribattuto sferzante e la visione del soffice fluire si converte in un fragore doloroso. Quando da giovane suonavo quel pezzo, mi preoccupavano le battute in cui canta la melodia Re-Mi-Mi-Re-Re-Do: una nota purissima che deve dominare sulle altre quattro note dell’accordo. Ora, mentre riascolto La goccia d’acqua nella sala d’aspetto della Music Therapy, la sua bellezza tragica mi colpisce. Sto frugando nella borsetta per stanare il diazepam in gocce; Carlo esce da una porta.

    È finita anche per oggi.

    Be’, sono pezzi notevoli. Che dicono, ti faranno bene?.

    Tentano di tutto. Per curare la mia disarmonia usano l’armonia, e la schiena si rilassa.

    Senti, se queste musiche te le suonassi io?.

    Mi guarda con una risatina. E l’esattezza chi me la garantisce?.

    Nessun pianista rispetta esattamente il tempo proclamo. Il metronomo si usa per esercitarsi. Al saggio la mia insegnante lo proibiva.

    Sospira. Sì, sarebbe meglio sentirti al pianoforte. E meno caro. Ma conviene tentare con questa musicoterapia.

    Dal musicoterapista mio marito saltò nel fuoco del chiropratico. A dire il vero questo massaggiatore d’ossa non era stato prodigo di promesse. Non è tanto l’angolo di Cobb che mi produce perplessità, squittì davanti a noi mentre si tormentava il mento barbuto, quanto l’accentuata rotazione dei metàmeri!.

    Già facemmo eco, come ristupiditi.

    Seminudo, Carlo veniva messo su una specie di graticola, osservato e girato con cura; quindi preso d’assalto dall’ometto, che gli balzava addosso sul fondo schiena premendogli sopra ora un ginocchio ora tutto il bacino. Superato il primo imbarazzo, dovemmo subire le torsioni della nuca. Uso il plurale perché quelle rotazioni, oltre che impensierirmi, mi fecero venire il capogiro.

    Forse questo rumore suggerii durante una seduta potrebbe essere un buon segno?.

    Ah, signora. È la voce di un corpo che ne vedrà delle belle!.

    Alla fine dell’inverno il chiropratico annunciò: Ho fatto del mio meglio. Ma queste si sono rivelate cure unicamente palliative.

    E lei quando lo ha capito, dottore?.

    Ben presto! Però dovevo perseverare, nonostante e contro il pericolo di risultati nulli. Noi, prima di andarcene, chiedevamo spiegazioni; e naturalmente altre illusioni. L’altro spiegò che la scoliosi di Carlo, se da un lato esigeva un intervento chirurgico, dall’altro doveva tenersene lontana.

    Che cosa dobbiamo fare? chiesi con un filo di voce.

    Non so rispose.

    Dopo aver finito di risciacquare in cucina, la sera andavo a sdraiarmi sul letto, dove Carlo era già disteso. Abituato a restare alzato fino a tardi, aveva negli occhi un’espressione inquieta. Lo abbracciavo; poi gli davo tante carezze parlandogli dei voti buoni che Andrea aveva preso. Cercavo di arrotondare per eccesso o inventavo un aneddoto gioioso.

    In un giornale si parlava di un medico che curava gravi traumi. Calciatori falciati da terribili fendenti sul campo da gioco si rialzavano sani come Lazzaro, e tornavano a correre.

    Sventolando la pagina del giornale, nostro figlio disse: Papà, devi provare.

    Andrea era diventato molto alto. Nelle mie notti quasi insonni vedevo allungarsi la sua colonna vertebrale, girarsi e rimanere bloccata nel livido angolo di Cobb. La primavera e l’estate passarono nel ritmo scandito dalle sedute presso il nuovo medico. Invece di partire per il mare, andammo due volte alla settimana in uno studio dalle luci rosate, in cui la nostra attesa trascorreva nell’ascolto di nenie arabe.

    Una volta ho visto un uomo ballare la danza del ventre dissi un pomeriggio. La giornata era afosa e deprimente.

    Carlo si alzò e si mise a danzare. Muoveva un braccio, poi l’altro, li portava lateralmente con grazia affettata, quindi li torceva in avanti mimando una ballerina mediorientale. A parte che non ho i lustrini sul sedere, vedi quanto sono migliorato?.

    Lo trovavo irresistibile. Mi sollevai per unirmi alla sua danza. Ridevamo come bambini.

    Così ci sorprese il medico, che facendoci entrare nella stanza non trascurò di complimentarsi con mio marito e, in via secondaria s’intende, con sé stesso. Queste infiltrazioni sono state decisive. Signor Avella, la sua colonna vertebrale è stabilizzata. Lei è praticamente guarito!.

    5 Viaggio a Santorini

    Tornata a casa, misi nel registratore una cassetta con una musica vivace; nel corridoio accennai a qualche passo di danza. Ricordavo persone ridenti e allacciate, l’una con le mani sulle spalle dell’altra, mentre i piedi si incrociavano veloci portando tutta la fila dei ballerini in una direzione. Andai a sbattere contro la porta della camera da letto.

    Attenta, mamma. Rompi il vetro disse Andrea, affacciandosi dalla sua stanza.

    Tua madre si rompe la testa. È una sua specialità: cercare il rischio, fingere che sia divertente e infine piangere lacrime di coccodrillo.

    Si può sapere perché sei così caustico?.

    È questa musica. Mi ricorda un’esperienza poco bella.

    La musica? A me dà gioia. Mi ero messa le mani sui fianchi.

    Andrea era andato a cercare l’involucro della cassetta. Dalla cucina gridò: È il sirtakì: un ballo greco.

    Volevo ben dire! L’hai comprata in quel bazar di Santorini alle due di notte, prima che ci decidessimo ad andare sulla spiaggia. Carlo puntava l’indice contro di me.

    Andrea fece un piccolo balzo. Alle due di notte in un bazar? Allora anche voi siete stati giovani. E quand'è che siete andati in Grecia?.

    Mi raschiai la gola. Nove mesi prima che tu nascessi, in estate.

    Mio figlio mi guardò con aria maliziosa. Allora vuoi dire che....

    Sì, Andrea. Sei stato concepito a Santorini.

    Là dove sorgeva la misteriosa Atlantide. Nella culla degli dèi e degli eroi. Mica in un posto qualsiasi, ragazzo mio.

    Raccontatemi qualcosa!.

    È stata un’avventura. Però, ripensandoci, devo correggere quello che ho detto. Nel marasma dell’itinerario c’è stata una cosa positiva.

    Partimmo per la Grecia. Eravamo giovani e snelli; e snello era anche il gruzzolo dei nostri risparmi. Perciò quando proposi a mio marito di viaggiare da soli scegliendo le nostre mete in libertà, fu d’accordo. Dopo qualche ricerca all’Ufficio del turismo greco e nella biblioteca comunale di Palazzo Sormani, prenotai i biglietti. Da Milano saremmo volati ad Atene per restarvi un giorno: l’essenziale per visitare l’Acropoli. Quella stessa sera dal Pireo una nave ci avrebbe portati a Mykonos, dove volevamo rimanere una settimana. I sette giorni successivi li avremmo trascorsi a Santorini, nella quiete dell’isola remota e splendida. E così avvenne, anche se ci fu qualche variazione nel programma.

    È bella l’Acropoli, papà?.

    Bisognerebbe vederla. Noi abbiamo avuto un quarto d’ora. Ricordo il caldo, gradini di pietra altissimi, sassi, turisti con la macchina fotografica, una signora anziana svenuta su una rupe. Cercavano di versarle acqua sulla faccia. Quando rinvenne gridò che la scottavano: la bottiglia era stata al sole.

    Siete arrivati tardi perché la mamma ha messo l’orologio avanti, così è sicura di arrivare prima?. Andrea mi fece un’occhiata come a dirmi: sempre la stessa!

    Ad Atene non si trovava neanche un tassì, e noi dovevamo essere al Pireo alle sei del pomeriggio. Così avevano detto a Marina, che per l’occasione parlava il greco antico.

    Purtroppo i tempi di marcia non furono perfetti. E al porto la nave non partì.

    Come, non partì!. Andrea ha corrugato la fronte.

    Partì due giorni dopo, e noi aspettammo tutto quel tempo sulla banchina del porto, nel sole infuocato del giorno e nel vento della notte. Almeno avessimo avuto delle coperte, un sacco a pelo!.

    Ma non è stata colpa mia. Ci hanno dato un’informazione sbagliata. Avrebbe potuto capitare anche ad altri.

    Carlo scuote la testa. Niente affatto. È capitato a te che sei andata tutta sorrisi in quel dannato ufficio e hai detto buongiorno in greco!.

    In greco antico?. Andrea spalanca gli occhi.

    No, in greco moderno, naturalmente.

    Parli anche il greco? Non lo sapevo.

    Mi schiarisco la gola. Solo poche parole.

    Svelto Carlo soggiunge: Giusto la parola che ha fatto capire ai Greci quanto eravamo sprovveduti.

    "E poi

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