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Uno splendido errore
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E-book355 pagine4 ore

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Info su questo ebook

58 milioni di lettori nel mondo
Un fenomeno del passaparola

My Life with the Walter Boys

Un grande successo su Wattpad, finalmente in libreria

Jackie non ama le sorprese e considera il caos il suo peggior nemico. Ha capito presto che il modo migliore per ottenere un po’ di considerazione da parte dei genitori troppo impegnati è quello di essere perfetta. E così si è trasformata nella figlia che chiunque desidererebbe: look impeccabile, ottimi voti a scuola, amicizie selezionate. Ma il destino ha in serbo per lei una vera e propria rivoluzione… Un terribile incidente, infatti, le porta via i genitori e Jackie all’improvviso è costretta a lasciare il suo elegante appartamento di New York per trasferirsi in un ranch in Colorado, dai Walter, i suoi nuovi tutori. E non è tutto. I Walter hanno ben dodici figli: undici maschi e un “maschiaccio”. Jackie si ritrova così circondata dal nemico, da ragazzi chiassosi, sporchi e invadenti che sembrano non conoscere affatto la nozione di “spazio personale”. Come potrà adattarsi e andare avanti quando, per mantenere vivo il ricordo dei suoi genitori, sente di dover continuare a essere perfetta?

Il fenomeno di Wattpad, con 58 milioni di lettori

In una vita perfetta a volte compiere un errore può essere meraviglioso

«Ma davvero è finito? Il seguito, vi prego, il mio regno per il seguito della storia!»

«Jackie, non sai cosa farei per poter essere al tuo posto. Romanzo adorabile.»

«Ho letto questo romanzo quattro volte, ma sono certa che ce ne sarà una quinta. Brava Ali, regalaci il seguito.»
Ali Novak
Si è laureata in scrittura creativa alla University of Wisconsin-Madison. Ha scritto Uno splendido errore a soli quindici anni, a puntate su Wattpad. La sua storia è stata letta milioni di volte prima di essere pubblicata da un’importante casa editrice americana ed essere tradotta all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2016
ISBN9788854195837
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    Anteprima del libro

    Uno splendido errore - Ali Novak

    Divina

    1272

    Titolo originale: My Life with the Walter Boys

    © 2014 by Ali Novak

    This edition published by arrangement

    with Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

    Traduzione dall’inglese di Ilaria Ghisletti

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9583-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Ali Novak

    Uno splendido errore

    My Life with the Walter Boys

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Ringraziamenti

    In memoria di mio padre, la cui incredibile forza continua a ispirarmi. Papà, nel nostro ultimo Natale insieme ti ho promesso che non avrei mai rinunciato al mio sogno.

    Eccolo qui.

    Prologo

    Non mi è mai dispiaciuto per Romeo e Giulietta.

    Non fraintendetemi. La tragedia è un classico, e Shakespeare è indiscutibilmente un genio della letteratura, però non riesco proprio a capire cosa spinga due persone che si conoscono appena a dare la vita così volentieri.

    È l’amore, sostiene la gente. L’amore vero, eterno. Ma per me sono solo un mucchio di stupidaggini. Ci vuole qualcosa di più di un paio di giorni e un matrimonio lampo in segreto perché l’amore si trasformi in qualcosa per cui vale la pena morire.

    Ammetterò che Romeo e Giulietta erano appassionati. Ma la loro passione era così intensa, così distruttiva, che ha finito per ammazzarli. Insomma, tutta la storia è frutto delle loro decisioni impulsive. Non mi credete? Prendete Giulietta, per esempio. A quale ragazza verrebbe in mente di sposare il figlio del peggior nemico di suo padre dopo averlo beccato a spiarla dalla finestra della sua stanza? Non a me, di sicuro. Ecco perché si sono giocati il mio sostegno. Non hanno pianificato, e nemmeno pensato, se è per questo. Hanno solo fatto, ignorando le conseguenze. Quando non le pianifichi, le cose tendono a farsi complicate.

    E dopo quello che mi era successo tre mesi prima, dopo che la mia vita era andata completamente alla deriva, un amore complicato era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.

    Capitolo 1

    Non avevo neanche un paio di jeans. È assurdo, lo so, perché quale sedicenne non ne possiede almeno un paio, magari con uno strappo sul ginocchio sinistro o con un cuore scarabocchiato a pennarello sulla coscia?

    Non che non mi piacessero. Non dipendeva neanche dal fatto che mia madre fosse stata una fashion designer, soprattutto perché lei usava i jeans in tutte le sue collezioni. Il punto era che credevo profondamente nell’importanza di vestirsi bene per fare una buona impressione, e quel giorno avrei avuto un disperato bisogno di fare una buona impressione.

    «Jackie?» sentii Katherine gridare da qualche parte nell’appartamento. «Il taxi è arrivato».

    «Un momento!». Raccolsi un pezzo di carta dalla scrivania. «Computer, caricabatteria, mouse», mormorai, leggendo il resto della lista. Aprii lo zaino e controllai che le mie cose fossero al loro posto, al sicuro. «Preso, preso, preso», sussurrai mentre li sfioravo tutti e tre con le dita. Con una penna rosso vivo tracciai una croce sulle voci corrispondenti nella mia lista.

    Qualcuno bussò alla mia porta. «Sei pronta, tesoro?», chiese Katherine infilando dentro la testa. Era una donna alta vicina ai cinquanta, coi capelli biondi che cominciavano a ingrigire tagliati in un caschetto rassicurante.

    «Penso di sì», risposi, ma il tremito nella voce mi tradì. Mi fissai i piedi perché non volevo reggere il suo sguardo, quello sguardo comprensivo che avevo visto dipinto su tutte le facce dal giorno del funerale.

    «Ti lascio ancora un attimo», la sentii dire.

    Quando la porta si richiuse, mi lisciai la gonna e mi guardai allo specchio. I miei lunghi riccioli scuri erano stati stirati e raccolti indietro con un nastro blu, come sempre, senza una ciocca fuori posto. Il collo della camicetta era in disordine, e lo sistemai con le dita finché il mio riflesso non fu impeccabile. Strinsi le labbra, seccata, notando gli aloni lividi sotto gli occhi, ma non c’era nulla che potessi fare per compensare la mancanza di sonno che li aveva provocati.

    Sospirando, abbracciai la mia stanza con lo sguardo per l’ultima volta. Anche se avevo spuntato tutto sulla mia lista, non sapevo quando sarei tornata e non volevo dimenticare nulla di importante. Lo spazio sembrava stranamente vuoto, dato che quasi tutte le mie cose erano su un camion diretto in Colorado. Ci avevo messo una settimana a impacchettare ogni cosa, ma Katherine mi aveva aiutata nell’impresa.

    Gli scatoloni erano quasi tutti pieni di vestiti, ma c’era anche la mia collezione delle opere di Shakespeare e le tazze da tè che io e mia sorella Lucy collezionavamo, una per ciascun Paese in cui eravamo state. Mentre mi guardavo intorno, mi resi conto che stavo sprecando il mio tempo. Con le mie capacità organizzative era impossibile che avessi dimenticato qualcosa. Il vero problema era che non volevo lasciare New York. Neanche un po’.

    Ma non potevo farci niente, quindi presi con riluttanza il mio bagaglio a mano. Katherine mi aspettava nell’ingresso, con un’altra piccola valigia ai suoi piedi.

    «Hai tutto?», mi chiese, e io annuii. «Bene, allora andiamo».

    Attraversò il salotto diretta alla porta, e io la seguii lentamente, accarezzando l’arredamento in un ultimo tentativo di memorizzare ogni dettaglio di casa mia. Era una sofferenza, soprattutto perché avevo vissuto lì da quando ero nata. I lenzuoli bianchi stesi sui divani perché la polvere non macchiasse le fodere erano come solide pareti che tenevano a bada i miei ricordi.

    Lasciammo l’appartamento in silenzio, e Katherine si fermò a chiudere la porta. «Vorresti conservare tu la chiave?», mi chiese. Io avevo già il mio mazzo nello zaino, ma allungai la mano e presi il pezzetto di metallo argentato dalla sua. Aprii il medaglione di mia madre e lasciai scivolare la chiave lungo la catena sottile perché potesse appoggiarsi sul mio petto, proprio vicino al cuore.

    ***

    In aereo restammo sedute in silenzio. Cercavo con tutte le mie forze di dimenticare che mi stavo allontanando sempre di più da casa, e mi rifiutavo di piangere. Per il primo mese dopo l’incidente non mi ero alzata dal letto. Poi un giorno, quasi per miracolo, ero strisciata fuori da sotto il piumone e mi ero vestita. Da allora avevo deciso che sarei stata forte e composta. Avevo deciso che non sarei stata mai più la creatura debole e svuotata che mi ero ridotta a essere, e di sicuro non avrei cambiato idea in quel momento. Invece cercai di concentrarmi su Katherine, che stringeva e lasciava il bracciolo con le nocche che si sbiancavano ogni volta.

    Non conoscevo molto la donna seduta accanto a me.

    Innanzitutto sapevo che era un’amica d’infanzia di mia madre. Erano cresciute a New York e avevano frequentato entrambe il collegio Hawkins, la stessa scuola in cui eravamo state iscritte io e mia sorella. All’epoca si chiamava Katherine Green, il che mi faceva venire in mente un’altra cosa che sapevo di lei. Al college aveva conosciuto George Walter. Si erano sposati e trasferiti in Colorado per aprire un ranch, il sogno di una vita di George. Infine, ecco la terza e più importante cosa che sapevo di Katherine: era la mia nuova tutrice legale. A quanto pareva ci eravamo conosciute quando ero molto piccola, ma era passato così tanto che non me la ricordavo affatto. Katherine Walter per me era una perfetta sconosciuta.

    «Hai paura di volare?», le chiesi mentre espirava a fondo. A dire la verità, sembrava sul punto di vomitare.

    «No, ma, a essere sincera, sono un po’ nervosa all’idea di… be’, di portarti a casa», disse. Sentii le mie spalle contrarsi. Aveva paura che facessi qualche pazzia? Potevo rassicurarla che non sarebbe andata così, non se volevo essere ammessa a Princeton. Lo zio Richard doveva averle detto qualcosa, forse che non stavo bene, anche se non era affatto così. Katherine si accorse che la fissavo e si affrettò ad aggiungere: «Oh, no, non per te, tesoro. So che sei una brava ragazza».

    «Allora perché?».

    Katherine sorrise comprensiva. «Jackie, cara, ti ho mai detto che in casa mia ci sono dodici ragazzi?»

    No, pensai con la bocca spalancata, questo fatto non era stato menzionato. Quando aveva deciso che sarei andata a stare in Colorado, lo zio Richard aveva accennato al fatto che Katherine aveva figli, ma dodici? Lo zio aveva ritenuto conveniente omettere il dettaglio. Dodici ragazzi. La casa di Katherine doveva essere costantemente nel caos. Come faceva qualcuno a volere dodici ragazzi in casa? Avvertii le ali del panico frullarmi nel petto.

    Non drammatizzare, mi dissi. Inspirai profondamente dal naso ed espirai dalla bocca un paio di volte, poi estrassi penna e taccuino. Dovevo sapere il più possibile della famiglia con cui avrei vissuto per potermi preparare. Mi raddrizzai sul sedile e chiesi a Katherine di parlarmi dei ragazzi, cosa che fece con entusiasmo.

    «Il maggiore è Will», iniziò, e io cominciai a scrivere.

    I ragazzi Walter:

    Will ha ventun anni. Frequenta l’ultimo semestre al college locale e sta ancora insieme alla fidanzatina del liceo.

    Cole ha diciassette anni. Frequenta l’ultimo anno del liceo ed è un meccanico molto dotato.

    Danny ha diciassette anni. Frequenta anche lui l’ultimo anno del liceo ed è presidente del gruppo di teatro. È il gemello di Cole.

    Isaac ha sedici anni. Va al liceo ed è ossessionato dalle ragazze. È il nipote di Katherine.

    Alex ha sedici anni. Fa il secondo anno di liceo e gioca troppo al computer.

    Lee ha quindici anni. Fa il secondo anno di liceo ed è uno skater. Anche lui è nipote di Katherine.

    Nathan ha quattordici anni. È al primo anno di liceo e studia musica.

    Jack e Jordan hanno dodici anni. Vanno alle medie e sono gemelli. Pensano di essere dei futuri Steven Spielberg e girano sempre con una videocamera.

    Parker ha nove anni. Va alle elementari. Ha un’aria innocente ma adora placcare a football.

    Zack e Benny hanno cinque anni e vanno all’asilo. Sono gemelli, due piccoli mostri sboccati.

    Rilessi i miei appunti e sentii una stretta allo stomaco. Era uno scherzo vero? Katherine non solo aveva tutti quei figli, ma erano maschi! Io non sapevo niente, assolutamente niente della loro specie. Andavo a una scuola privata femminile! Come sarei sopravvissuta in una casa piena di maschi? Parlavano una lingua diversa, o qualcosa del genere?

    Appena atterrato l’aereo, lo zio Richard ne avrebbe sentite quattro. Conoscendolo, probabilmente era impegnato in qualche importante riunione del consiglio di amministrazione e non avrebbe potuto rispondere, ma non riuscivo a crederci! Non solo mi consegnava a una donna che non conoscevo, ma mi buttava tra le grinfie di un branco di ragazzi. Diceva di volere il meglio per me, soprattutto perché non era mai a casa, ma negli ultimi tre mesi avevo cominciato a sospettare che semplicemente non gli piacesse fare il genitore.

    ***

    Richard non era davvero mio zio, ma lo conoscevo fin da quando ero piccola. Era il compagno di stanza di mio padre al college e dopo la laurea si erano messi in affari insieme. Ogni anno per il mio compleanno mi portava un sacchetto delle mie gelatine preferite e un biglietto d’auguri con dentro cinque dollari.

    In gennaio Richard era diventato il mio tutore e, per rendermi la situazione meno insopportabile, si era trasferito nell’attico dell’Upper East Side dove viveva la mia famiglia. All’inizio era strano averlo in casa, ma lui restava nella stanza degli ospiti e ben presto eravamo scivolati in una confortevole routine. Di solito lo vedevo solo a colazione, dato che lavorava sempre fino a tardi, poi nel giro di una settimana tutto cambiò. Tornata da scuola, trovai il tavolo apparecchiato e imbandito con quello che sembrava il suo migliore tentativo di pasto fatto in casa. Mi disse che mi sarei trasferita in Colorado.

    «Non capisco perché mi stai cacciando», gli dissi dopo dieci minuti di litigio.

    «Te l’ho già spiegato, Jackie», mi rispose, con un’espressione così dolente che sembrava lui quello in procinto di essere sradicato dall’unica casa che avesse mai conosciuto, non io. «La psicologa della scuola è preoccupata per te. Mi ha telefonato oggi perché pensa che tu non stia reagendo bene».

    «Innanzitutto, io non volevo parlare con quella stupida psicologa», ribattei picchiando la forchetta sul tavolo. «In secondo luogo, come si permette di dire che non sto reagendo bene? I miei voti sono eccellenti, anche migliori di quelli del primo semestre».

    «Vai benissimo a scuola, Jackie», disse. Sentivo che c’era un bel ma in arrivo. «Ma lei ritiene che il tuo impegno nello studio sia solo un modo per evitare di affrontare i veri problemi».

    «L’unico problema è che quella donna non sa affatto chi sono! Andiamo, zio Richard. Tu mi conosci. Sono sempre stata studiosa e diligente. È questo che vuol dire essere una Howard».

    «Jackie, ti sei iscritta a tre nuovi club dall’inizio del semestre. Non pensi di esserti presa un po’ troppi impegni?».

    «Sapevi che Sarah Yolden ha vinto una borsa di studio e passerà l’estate a studiare le piante a rischio di estinzione in Brasile?», chiesi, invece di rispondergli.

    «No, ma…».

    «Ha trovato una rivista scientifica disposta a pubblicare le sue scoperte. È anche primo violino, è riuscita a esibirsi alla Carnegie Hall. Come posso competere io con una del genere? Non posso limitarmi ad avere buoni voti se voglio entrare a Princeton», gli dissi con freddezza. «La mia candidatura deve impressionare la commissione. Ci sto lavorando».

    «E io ti capisco, davvero, ma credo anche che ti farebbe bene cambiare un po’ aria. I Walter sono delle persone fantastiche e sono felicissimi di prenderti con loro».

    «Cambiare aria può essere rilassante se passi una settimana in spiaggia!», esclamai schizzando in piedi. Mi sporsi sul tavolo e fissai lo zio Richard con odio. «Tutto questo è crudele. Mi stai mandando dall’altra parte del Paese».

    Lui sospirò. «So che ora non puoi capire, Jackie, ma ti prometto che andrà tutto bene. Te ne accorgerai».

    ***

    Non me n’ero ancora accorta. Più ci avvicinavamo al Colorado, più io mi innervosivo, e non importava quante volte mi ripetessi che sarebbe andato tutto bene, tanto non ci credevo. Mi morsi il labbro fino a farlo sanguinare, terrorizzata al pensiero di quanto sarebbe stato difficile adattarmi alla vita dei Walter.

    Quando l’aereo atterrò, io e Katherine attraversammo l’aeroporto per raggiungere suo marito.

    «Dunque, ho avvertito i ragazzi che ti saresti trasferita, quindi sanno già che stai arrivando», cinguettò lei, mentre ci facevamo largo tra la folla. «E ho anche una stanza tutta per te. Solo che non ho ancora avuto tempo di pulirla, perciò… Oh, George! George, siamo qui!».

    Katherine cominciò a saltellare, agitando le braccia verso un uomo alto sulla cinquantina. Sospettai che Mr Walter fosse un po’ più anziano della moglie perché i capelli e la barba trascurata erano completamente grigi, e le rughe dell’età cominciavano a segnargli la fronte. Indossava una camicia di flanella rossa e nera, jeans strappati, scarponi da lavoro e un cappello da cowboy.

    Appena arrivammo da lui, strinse Katherine tra le braccia e le accarezzò i capelli. Mi ricordavano i miei genitori, quindi feci una smorfia e mi girai dall’altra parte. «Mi sei mancata», le disse lui.

    Lei gli diede un bacetto sulla guancia. «Mi sei mancato anche tu». Si ritrasse e si rivolse a me. «George, tesoro», disse prendendogli la mano. «Questa è Jackie Howard. Jackie, questo è mio marito».

    George sembrava a disagio mentre mi soppesava con gli occhi. Dopotutto, come si saluta una persona che ha appena perso tutta la famiglia? Piacere di conoscerti? Siamo felici di averti con noi? Alla fine George allungò la mano libera per stringere la mia e mi borbottò un saluto veloce.

    Poi guardò di nuovo Katherine. «Prendiamo le valigie e andiamo a casa».

    ***

    Appena tutte le mie valigie furono stivate nel retro del furgone, mi sistemai sul sedile posteriore e presi l’i-Pod dalla tasca della giacca. George e Katherine parlavano a bassa voce del volo e infilai gli auricolari perché non avevo più voglia di starli a sentire. Più ci allontanavamo dalla città, inoltrandoci nell’interno del Paese, più il mio umore peggiorava. Eravamo circondati da campi verdeggianti e colline che facevano su e giù ai lati della strada, ma senza i fieri grattacieli di New York mi sentivo in qualche modo esposta. Il Colorado era bellissimo, ma come avrei fatto a viverci.

    Finalmente, dopo quelle che mi sembrarono ore, il furgone svoltò su una strada ghiaiosa. In lontananza, scorgevo a malapena una casa in cima a una collina. Tutta quella terra apparteneva davvero a loro? Appena arrivammo sulla collina, capii che non era una casa sola. Sembravano piuttosto tre case messe insieme. Suppongo che a dodici ragazzi serva parecchio spazio.

    L’erba aveva bisogno di una bella falciata, e al portico d’ingresso non avrebbe fatto male una mano di vernice. Il prato era pieno di giocattoli, probabilmente per opera dei ragazzi più piccoli. George schiacciò il bottone di un piccolo telecomando appeso allo specchietto retrovisore e la porta del garage cominciò ad aprirsi. Una bicicletta rotolò fuori, seguita da altri giocattoli che bloccarono l’ingresso al furgone.

    «Quante volte dovrò ripetere a quei ragazzi di sistemare i disastri che si lasciano dietro?», brontolò George tra sé e sé.

    «Non preoccuparti, tesoro. Ci penso io», disse Katherine, slacciandosi la cintura di sicurezza per scendere dal furgone. La guardai spostare tutto quel disordine perché il marito potesse entrare. Quando il furgone fu finalmente parcheggiato, George spense il motore e restammo per un attimo seduti in un ottuso silenzio. Poi si girò sul sedile per guardarmi.

    «Sei pronta, Jackie?», mi chiese. Mi fissò con attenzione e aggrottò la fronte. «Mi sembri un po’ pallida».

    Certo che ero pallida! Avevo appena attraversato metà del Paese in aereo con una donna che non conoscevo perché la mia famiglia se n’era andata. Per di più avrei dovuto vivere con dodici ragazzi, tutti maschi! Non era proprio un giorno che avrei ricordato nella mia top-ten.

    «Sto bene», mormorai in modo automatico. «Sono solo un po’ nervosa, credo».

    «Be’, il miglior consiglio che posso darti sui miei ragazzi…», cominciò a dire, slacciandosi la cintura, «… è di non lasciarti spaventare. Can che abbaia non morde».

    La cosa doveva tranquillizzarmi? George mi guardava ancora, quindi feci sì con la testa. «Ok, grazie», risposi.

    Lui mi fece un cenno di assenso e scese dal furgone, lasciandomi sola a prepararmi. Guardai fuori dal parabrezza e una serie di immagini mi passarono davanti agli occhi, veloci come i fotogrammi di un cartone animato: i miei genitori seduti davanti che si prendevano in giro, mia sorella dietro con me che cantava sopra la radio, poi le luci di un’altra macchina e il volante che girava senza controllo. Dopo, il metallo contorto, rosso. Era l’incubo che mi teneva sveglia dal giorno in cui era morta la mia famiglia. A quanto pareva, ora aveva deciso di tormentarmi anche alla luce del giorno.

    Basta!, gridai tra me e me e chiusi gli occhi con forza. Dovevo smettere di pensarci. Strinsi i denti, aprii la portiera e saltai giù dal furgone.

    «Jackie!», chiamò Katherine. La sua voce mi raggiunse attraverso una porta aperta in fondo al garage, che si affacciava su quello che supponevo fosse un cortile posteriore. Mi gettai il bagaglio a mano sulla spalla e uscii alla luce. Il sole era accecante. All’inizio vidi solo lei in piedi sul bordo di una piscina, mentre salutava con la mano. Poi vidi anche loro, in acqua. Si spruzzavano e facevano gli stupidi. Un bel mucchio di piacevoli ragazzi a torso nudo.

    «Vieni, tesoro!», disse Katherine, senza lasciarmi altra scelta che raggiungerla a bordo piscina.

    Salii i gradini di legno, sperando che il volo non mi avesse lasciato i vestiti spiegazzati, e senza rendermene conto alzai una mano per lisciarmi i capelli. Katherine mi sorrise. Accanto a lei c’erano due ragazzini aggrappati ai suoi pantaloni. Dovevano essere i gemelli più piccoli, decisi, prima di girarmi ad affrontare il resto del branco. Con mio grande fastidio, mi fissavano tutti.

    «Ragazzi», cominciò Katherine spezzando il silenzio, «lei è Jackie Howard, l’amica di famiglia di cui vi abbiamo parlato io e papà. Resterà con noi per un po’, e finché sarà qui voglio che tutti voi facciate del vostro meglio perché si senta a casa».

    Sembrava che loro non fossero di quell’avviso. Tutti mi squadravano come se fossi stata un nemico che aveva appena invaso la loro terra.

    La cosa più saggia da fare era offrire la pace, decisi. Sollevai lentamente una mano per salutarli. «Ciao, ragazzi. Sono Jackie».

    Uno dei più grandi nuotò verso di noi e si issò fuori dall’acqua. Mentre lo faceva, i muscoli delle sue braccia abbronzate si gonfiarono. Si scrollò via dagli occhi la frangia spettinata, spruzzando acqua ovunque proprio come un cane bagnato, solo molto più sexy. Poi, per chiudere in bellezza, si passò le dita tra i capelli imbionditi dal sole, spingendo indietro le ciocche sfumate d’oro bianco. I suoi calzoncini da bagno rossi erano scesi molto in basso, in una zona che solleticava l’immaginazione fino a sfiorare l’inappropriato.

    Lo fissai per un attimo e il mio cuore accelerò, ma scacciai subito quella strana agitazione. Che problema hai, Jackie?, gridai tra me e me.

    Lui mi guardò di sfuggita, e le gocce intrappolate tra le sue ciglia scintillarono al sole. Si rivolse al padre. «Dove starà?», chiese, ignorandomi come se non fossi stata lì.

    «Cole», disse George con un tono che sapeva di rimprovero. «Non essere maleducato. Jackie è nostra ospite».

    Cole alzò le spalle. «E allora? Questa casa non è un albergo. Io non ho nessuna intenzione di dividere la mia stanza».

    «Neanch’io», si lamentò un altro ragazzo. «E io nemmeno», aggiunse un terzo.

    Prima che si scatenasse un coro di proteste, George alzò le mani. «Nessuno dovrà lasciare la sua stanza o dividerla», li rassicurò. «Jackie avrà una stanza nuova tutta per lei».

    «Una stanza nuova?», chiese Cole incrociando le braccia sul petto nudo. «E dove sarebbe?».

    Katherine gli lanciò un’occhiataccia. «Lo studio».

    «Ma, zia Kathy!», cominciò un altro ragazzo.

    «Avete spostato il letto mentre non c’ero, vero, George?», chiese lei mettendo a tacere uno dei nipoti.

    «Ma certo. Non abbiamo ancora tolto tutta la roba, ma per il momento ci arrangeremo», disse lui alla moglie. Poi guardò Cole con un’espressione che voleva dire dacci un taglio. «Aiuta Jackie a portare dentro le sue cose», aggiunse. «E basta lamentele».

    Cole si girò verso di me, fissandomi in modo snervante. Nei punti in cui i suoi occhi si posavano su di me la pelle mi bruciava come per una brutta scottatura. Quando si soffermarono troppo a lungo sul mio seno, incrociai le braccia, a disagio.

    Dopo qualche secondo di tensione alzò le spalle. «Nessun problema, papà», disse.

    Cole piegò la testa di lato e mi offrì un sorrisetto che diceva chiaramente sono sexy e lo so. Anche con la mia limitata conoscenza dei ragazzi, un nodo allo stomaco mi suggeriva che questo ragazzo in particolare sarebbe stato un problema. Forse, se avessi capito come gestire lui, il resto non sarebbe stato così male. Gettai un’occhiata verso gli altri e mi sentii cadere le braccia. L’espressione torva che vedevo sulla maggior parte delle facce non mi sembrava un buon segno. A quanto pareva, non gradivano la mia presenza a casa loro di più quanto la gradissi io.

    Katherine e George sparirono in casa lasciandomi in pasto ai lupi. Imbarazzata, aspettai sul bordo della piscina che Cole venisse ad aiutarmi con i bagagli. Se la stava prendendo comoda, si asciugava lentamente con uno dei tanti asciugamani gettati sulle sdraio. Sentivo che i ragazzi mi squadravano, quindi abbassai gli occhi su uno dei nodi nel legno sotto i miei piedi. Più a lungo Cole aspettava, più i loro sguardi si facevano imbarazzanti, così decisi di aspettarlo in garage.

    «Ehi, aspetta», gridò qualcuno mentre mi giravo per andarmene. La porta coperta da una zanzariera si aprì e un altro ragazzo uscì dalla casa. Era il più alto di tutti e probabilmente il più grande. I capelli biondi erano raccolti in una coda corta, e le poche ciocche sfuggite all’elastico si arricciavano dietro le orecchie. Aveva la mascella forte, il mento deciso e un naso lungo e dritto che faceva sembrare gli occhiali che indossava molto piccoli rispetto al resto del viso. Gli avambracci erano vigorosi e le mani sembravano ruvide, probabilmente per via degli anni di lavoro al ranch.

    «Mia madre ha detto che dovevo presentarmi». Mi si avvicinò in tre falcate e tese la mano. «Ciao, sono Will».

    «Jackie», dissi, prendendo la sua mano con la mia. Will sorrise e la sua stretta mi stritolò le dita proprio come quella di suo padre.

    «Quindi resterai per un po’? L’ho appena saputo», disse indicando la casa da sopra la spalla.

    «Già, sembra di

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